Bisogna dire le cose come stanno: il tecnofascismo – efficace espressione utilizzata da Pierpaolo Pasolini in Lettere Luterane e recentemente ripresa e rivalutata da Roland Gori nel suo ultimo libro pubblicato in Francia, Un monde sans esprit – ha oramai colonizzato persino l’arcipelago delle disabilità intellettive. La fede assoluta nella potenza della tecnica (che ha soppiantato i tradizionali valori del vecchio universo paleo-capitalista) e nella sua supposta capacità di mettere ordine nel caos del reale (ritenuto prevalente nell’esistenza delle persone con deficit intellettivi) ha finito col conquistare anche il campo dell’handicap mentale: protocolli terapeutici, progetti riabilitativi, interventi educativi, metodiche specializzate, raffinati programmi di modificazione comportamentale hanno progressivamente assimilato al proprio interno l’ideologia tecnologica, acquisendone il linguaggio, gli obbiettivi e gli strumenti. In quest’ottica dominata dall’irrefrenabile aspirazione delle scienze umane ad acquisire l’ambîto riconoscimento di scienza esatta, di scienza ‘dura’, la compulsione alla misurazione e alla valutazione si è imposta definendo il nuovo carattere del trattamento delle varie forme di insufficienza mentale, ovvero, la scomposizione della complessità della persona disabile in una somma di funzioni, di competenze e di abilities da sviluppare o da potenziare. La dimensione prestazionale si è così affermata come la principale dimensione (se non, in alcuni casi, l’unica) sulla quale investire in termini riabilitativi, educativi, pedagogici, a scapito degli altri aspetti esistenziali della vita della persona disabile che un certo discredito per le discipline ‘umanistiche’ ha liquidato come secondari. Di fronte alla priorità dell’acquisizione del massimo grado di autonomia personale (che è diventato il must implicito in ogni forma di trattamento della disabilità), qualsiasi interrogazione sui suoi possibili ‘effetti collaterali’ finisce con l’essere stroncata come inutile perdita di tempo. In primo piano resta, al contrario, l’urgenza di un intervento di iperstimolazione, ritenuto in grado di favorire, moltiplicandole, le possibilità di percezione e di sviluppo del pensiero.
Sebbene l’esperienza maturata nel campo dell’handicap psichico (principalmente grave) mi induca a considerare necessaria, nella presa in carico della persona con disabilità intellettive, l’azione di un programma di ‘amplificazione’ dei messaggi in entrata (che, pertanto, pone il soggetto disabile in una certa posizione di passività), credo, tuttavia, che la cura non possa non tener conto di una variabile fondamentale alla buona riuscita di ogni attività: si tratta di una variabile che è impossibile tradurre in termini quantitativi e che, di conseguenza, tende a sfuggire a qualsiasi tentativo di misurazione. La psicologia la definisce ‘motivazione’ o ‘alleanza terapeutica’: la psicoanalisi, forse in maniera più romantica – ma, a mio avviso, più precisa –, desiderio. Più precisa perché, in effetti, solo un’adesione del soggetto a ciò che sta facendo – adesione che risponde ad un’urgenza personale, ad una curiosità, ad un’esigenza, ad una necessità, ad un volontarismo spontaneo – è in grado di inserire ciò che viene appreso in un sistema di rappresentazioni finalizzato al raggiungimento di un determinato scopo: in altre parole, è indispensabile avere un’intenzione affinché gli strumenti a propria disposizione siano utilizzati e resi operativi; è indispensabile, cioè, essere animati da un progetto, incalzati da un intento, pressati da un’insoddisfazione che reclama di essere risolta.
Un approccio che trascura questo fattore determinante presenta, al suo fondo, un limite epistemologico: esso ignora la differenza fondamentale tra due registri dell’umano, il registro cognitivo e il registro intellettivo.
Cos’è il cognitivo? Una prima rapida definizione potrebbe essere questa: è la capacità dell'essere umano di apprendere i concetti necessari a stabilire un rapporto con la realtà. Il cognitivo è quanto si è potuto 'scrivere' sull’apparato psichico del diveniente soggetto in termini di possibilità di ordinare il mondo attraverso l'uso di simboli. Per essere più chiari, lo sviluppo cognitivo segnala la progressiva conquista della facoltà del vivente di orientarsi simbolicamente nel mondo. Essa è resa possibile dalla graduale acquisizione di padronanza nell'articolazione di coppie di opposti mediante i quali situare sé e gli oggetti nello spazio e nel tempo: sopra-sotto, avanti-dietro, destra-sinistra, prima-dopo, grande-piccolo, alto-basso, ecc., sono i requisiti cognitivi di base che consentono la collocazione del soggetto all'interno della realtà che lo circonda (a partire dall’originario Fort-da che Freud ha descritto come primo movimento di andirivieni che il bambino impara a padroneggiare). Analogamente, le operazioni di riconoscimento, memorizzazione, classificazione, differenzazione, ecc., rappresentano la messa in funzione di conoscenze e di apprendimenti attraverso i quali al cucciolo d’uomo è data la possibilità di organizzare ed elaborare il dato grezzo della percezione. L'acquisizione di abilità cognitive rappresenta, in questo senso, una sorta di operazione di ritaglio significante che il soggetto compie rispetto al mondo indifferenziato nel quale nasce: è il significante – si potrebbe dire in termini psicoanalitici – che ‘stacca’ dei pezzi di reale dall’indistinto dell’esperienza ‘primordiale’ e li trasforma in concetti. Il cognitivo rappresenta questa operazione di traduzione del dato inassimilabile originario in elemento significante.
L’effetto dell’impedimento che può verificarsi in questo procedimento di ritaglio significante determina il ritardo cognitivo; il soggetto non ha la possibilità di orientarsi nella realtà in quanto la realtà è imprigionata nella pura dimensione del reale. E il mancato trasferimento di parte del reale sul piano del significante rende il soggetto ‘debile’, cognitivamente impreparato a proteggersi dall’impatto (di per se traumatico) dell’esperienza, incapace di far fronte alle richieste e alle emergenze esistenziali che incontra. Del resto, occorre aggiungere, non tutto il reale è simbolizzabile; qualcosa sfugge alla possibilità di essere convertito in significante, ed è di fronte all’emergenza di questo resto non significantizzabile che ogni essere umano sperimenta la propria condizione di debilità strutturale. Il registro cognitivo, pertanto, indica la quantità di dati che il soggetto ha a disposizione per organizzare nel registro del senso la percezione del mondo.
Questi dati di cui il soggetto dispone, però, possono o meno essere utilizzati. Bisogna considerare, infatti, che il possesso del dato non implica automaticamente il suo impiego. Il dato acquisito sul piano cognitivo può risultare un sapere ‘inerte’, non attivo, ottenuto, per esempio, per via di condizionamento, subîto passivamente, imposto, quindi, e per questo incapace di motivare il soggetto al suo uso. Per capirci, tecniche elaborate di ‘addestramento’ cognitivo possono indurre l’apprendimento di determinati concetti ma si rivelano improduttive nei confronti della decisione/volontà del soggetto di servirsene o meno. Come spesso ci accade di osservare nella clinica della disabilità mentale, la persona può conoscere l’uso dell’orologio ma non saper impiegare questa conoscenza ai fini, ad esempio, del prendere autonomamente l’autobus: o, ancora, può aver appreso a distinguere il blu dal rosso ma continuare ad ustionarsi con l’acqua bollente quando si fa la doccia. C’è, infatti, come già detto, una variabile ulteriore che va tenuta in conto a questo riguardo; il materiale cognitivo, per non restare inattivo, richiede l’innesco di un altro processo, il processo intellettivo.
In questa ottica, il registro intellettivo rappresenta, allora, l’operazione (ulteriore) che il soggetto compie sul registro cognitivo. Consiste, in termini più espliciti, nella facoltà del soggetto di finalizzare, in maniera utilitaristica ed opportunistica, il materiale significante acquisito; consiste, ancora, nella facoltà del soggetto di prelevare, all’interno del proprio repertorio cognitivo, quelle conoscenze che, articolate con altre, possono concorrere alla risoluzione di un problema. Il registro intellettivo si configura, allora, come il processo di valorizzazione del sapere posseduto, utilizzato in funzione di uno scopo (il problema da risolvere, per l’appunto). Presuppone, pertanto, come sua condizione assoluta,l’intervento del desiderio del soggetto, variabile che non può essere tradotta in numeri, eppure, potentemente presente ed efficace nell’esistenza dell’essere umano. La facoltà intellettiva organizza i dati cognitivi in relazione a un progetto che solo un desiderio soggettivo può far venire alla luce. In sostanza, dunque, mentre il registro cognitivo opera sul mondo (per ordinarlo), il registro intellettivo opera sul cognitivo (per finalizzarlo); predispone i dati della conoscenza in funzione della creazione del ‘nuovo’ e dell’inedito. Per questo motivo, necessita di un’intenzione soggettiva, di un desiderio personale, di una volontà autonoma che miri alla realizzazione di un ‘programma’; necessita della tensione vitale prodotta da ciò che Freud chiamava pulsione di sapere, ovvero di quella spinta che nessuna tecnica di addestramento può promuovere all’interno del soggetto. L’intelligenza agisce sul cognitivo come il cuoco sugli ingredienti presenti in cucina; con poco può far molto. Ciò che conta è lo slancio, la volontà di realizzare un progetto, l’intenzione di raggiungere un obiettivo. E questo proposito può generare situazioni speciali, particolari, di grande interesse clinico: determina quello strano e stupefacente fenomeno con cui, spesso, gli operatori si confrontano per il quale soggetti deficitari sul piano cognitivo (che hanno, cioè, a disposizione un repertorio di ‘sapere’ molto limitato) dimostrano di essere in grado di compiere azioni anche complesse (inaspettate, in virtù della loro oggettiva carenza cognitiva) mirate alla soddisfazione di un desiderio che orienta la loro vita. Esperienza straordinaria che coloro che frequentano persone con insufficienza mentale conoscono bene: lampi inaspettati di ‘presenza soggettiva’ che illuminano esistenze buie e spente, improvvise manifestazioni di capacità impreviste che rivelano la sorprendente volontà di affermazione del soggetto sostenuta da un desiderio tenace. Intelligenza e desiderio, si potrebbe dire, sono facoltà umane intimamente connesse l’una all’altra. Non esiste possibilità di sviluppare la prima senza prendere in considerazione la seconda. Potenziare le capacità intellettive significa, in sostanza, favorire nel soggetto la strutturazione di un desiderio: di questo intreccio speciale, ogni operatore dovrebbe tener conto.
E se, allora, il registro cognitivo può essere oggetto di programmi di addestramento, il registro intellettivo risponde ad un’altra logica di cura: esso necessita di un intervento che riconosca nella persona disabile un soggetto, che supponga, cioè, anche in un essere devastato dal punto di vista neurologico, uno spessore soggettivo che, solo se supposto, avrà modo di svilupparsi – nella misura in cui, ovviamente, il danno organico lo consentirà. Supporre un soggetto vuol dire scommettere sulla possibilità di favorire in uno psichismo che fatica a sintonizzarsi con il significante, lo sviluppo della capacità di entrare in risonanza con l’Altro e nella dinamica dello scambio, la sola in grado di mettere in moto quel fondamentale meccanismo propulsore che si chiama desiderio.
Sebbene l’esperienza maturata nel campo dell’handicap psichico (principalmente grave) mi induca a considerare necessaria, nella presa in carico della persona con disabilità intellettive, l’azione di un programma di ‘amplificazione’ dei messaggi in entrata (che, pertanto, pone il soggetto disabile in una certa posizione di passività), credo, tuttavia, che la cura non possa non tener conto di una variabile fondamentale alla buona riuscita di ogni attività: si tratta di una variabile che è impossibile tradurre in termini quantitativi e che, di conseguenza, tende a sfuggire a qualsiasi tentativo di misurazione. La psicologia la definisce ‘motivazione’ o ‘alleanza terapeutica’: la psicoanalisi, forse in maniera più romantica – ma, a mio avviso, più precisa –, desiderio. Più precisa perché, in effetti, solo un’adesione del soggetto a ciò che sta facendo – adesione che risponde ad un’urgenza personale, ad una curiosità, ad un’esigenza, ad una necessità, ad un volontarismo spontaneo – è in grado di inserire ciò che viene appreso in un sistema di rappresentazioni finalizzato al raggiungimento di un determinato scopo: in altre parole, è indispensabile avere un’intenzione affinché gli strumenti a propria disposizione siano utilizzati e resi operativi; è indispensabile, cioè, essere animati da un progetto, incalzati da un intento, pressati da un’insoddisfazione che reclama di essere risolta.
Un approccio che trascura questo fattore determinante presenta, al suo fondo, un limite epistemologico: esso ignora la differenza fondamentale tra due registri dell’umano, il registro cognitivo e il registro intellettivo.
Cos’è il cognitivo? Una prima rapida definizione potrebbe essere questa: è la capacità dell'essere umano di apprendere i concetti necessari a stabilire un rapporto con la realtà. Il cognitivo è quanto si è potuto 'scrivere' sull’apparato psichico del diveniente soggetto in termini di possibilità di ordinare il mondo attraverso l'uso di simboli. Per essere più chiari, lo sviluppo cognitivo segnala la progressiva conquista della facoltà del vivente di orientarsi simbolicamente nel mondo. Essa è resa possibile dalla graduale acquisizione di padronanza nell'articolazione di coppie di opposti mediante i quali situare sé e gli oggetti nello spazio e nel tempo: sopra-sotto, avanti-dietro, destra-sinistra, prima-dopo, grande-piccolo, alto-basso, ecc., sono i requisiti cognitivi di base che consentono la collocazione del soggetto all'interno della realtà che lo circonda (a partire dall’originario Fort-da che Freud ha descritto come primo movimento di andirivieni che il bambino impara a padroneggiare). Analogamente, le operazioni di riconoscimento, memorizzazione, classificazione, differenzazione, ecc., rappresentano la messa in funzione di conoscenze e di apprendimenti attraverso i quali al cucciolo d’uomo è data la possibilità di organizzare ed elaborare il dato grezzo della percezione. L'acquisizione di abilità cognitive rappresenta, in questo senso, una sorta di operazione di ritaglio significante che il soggetto compie rispetto al mondo indifferenziato nel quale nasce: è il significante – si potrebbe dire in termini psicoanalitici – che ‘stacca’ dei pezzi di reale dall’indistinto dell’esperienza ‘primordiale’ e li trasforma in concetti. Il cognitivo rappresenta questa operazione di traduzione del dato inassimilabile originario in elemento significante.
L’effetto dell’impedimento che può verificarsi in questo procedimento di ritaglio significante determina il ritardo cognitivo; il soggetto non ha la possibilità di orientarsi nella realtà in quanto la realtà è imprigionata nella pura dimensione del reale. E il mancato trasferimento di parte del reale sul piano del significante rende il soggetto ‘debile’, cognitivamente impreparato a proteggersi dall’impatto (di per se traumatico) dell’esperienza, incapace di far fronte alle richieste e alle emergenze esistenziali che incontra. Del resto, occorre aggiungere, non tutto il reale è simbolizzabile; qualcosa sfugge alla possibilità di essere convertito in significante, ed è di fronte all’emergenza di questo resto non significantizzabile che ogni essere umano sperimenta la propria condizione di debilità strutturale. Il registro cognitivo, pertanto, indica la quantità di dati che il soggetto ha a disposizione per organizzare nel registro del senso la percezione del mondo.
Questi dati di cui il soggetto dispone, però, possono o meno essere utilizzati. Bisogna considerare, infatti, che il possesso del dato non implica automaticamente il suo impiego. Il dato acquisito sul piano cognitivo può risultare un sapere ‘inerte’, non attivo, ottenuto, per esempio, per via di condizionamento, subîto passivamente, imposto, quindi, e per questo incapace di motivare il soggetto al suo uso. Per capirci, tecniche elaborate di ‘addestramento’ cognitivo possono indurre l’apprendimento di determinati concetti ma si rivelano improduttive nei confronti della decisione/volontà del soggetto di servirsene o meno. Come spesso ci accade di osservare nella clinica della disabilità mentale, la persona può conoscere l’uso dell’orologio ma non saper impiegare questa conoscenza ai fini, ad esempio, del prendere autonomamente l’autobus: o, ancora, può aver appreso a distinguere il blu dal rosso ma continuare ad ustionarsi con l’acqua bollente quando si fa la doccia. C’è, infatti, come già detto, una variabile ulteriore che va tenuta in conto a questo riguardo; il materiale cognitivo, per non restare inattivo, richiede l’innesco di un altro processo, il processo intellettivo.
In questa ottica, il registro intellettivo rappresenta, allora, l’operazione (ulteriore) che il soggetto compie sul registro cognitivo. Consiste, in termini più espliciti, nella facoltà del soggetto di finalizzare, in maniera utilitaristica ed opportunistica, il materiale significante acquisito; consiste, ancora, nella facoltà del soggetto di prelevare, all’interno del proprio repertorio cognitivo, quelle conoscenze che, articolate con altre, possono concorrere alla risoluzione di un problema. Il registro intellettivo si configura, allora, come il processo di valorizzazione del sapere posseduto, utilizzato in funzione di uno scopo (il problema da risolvere, per l’appunto). Presuppone, pertanto, come sua condizione assoluta,l’intervento del desiderio del soggetto, variabile che non può essere tradotta in numeri, eppure, potentemente presente ed efficace nell’esistenza dell’essere umano. La facoltà intellettiva organizza i dati cognitivi in relazione a un progetto che solo un desiderio soggettivo può far venire alla luce. In sostanza, dunque, mentre il registro cognitivo opera sul mondo (per ordinarlo), il registro intellettivo opera sul cognitivo (per finalizzarlo); predispone i dati della conoscenza in funzione della creazione del ‘nuovo’ e dell’inedito. Per questo motivo, necessita di un’intenzione soggettiva, di un desiderio personale, di una volontà autonoma che miri alla realizzazione di un ‘programma’; necessita della tensione vitale prodotta da ciò che Freud chiamava pulsione di sapere, ovvero di quella spinta che nessuna tecnica di addestramento può promuovere all’interno del soggetto. L’intelligenza agisce sul cognitivo come il cuoco sugli ingredienti presenti in cucina; con poco può far molto. Ciò che conta è lo slancio, la volontà di realizzare un progetto, l’intenzione di raggiungere un obiettivo. E questo proposito può generare situazioni speciali, particolari, di grande interesse clinico: determina quello strano e stupefacente fenomeno con cui, spesso, gli operatori si confrontano per il quale soggetti deficitari sul piano cognitivo (che hanno, cioè, a disposizione un repertorio di ‘sapere’ molto limitato) dimostrano di essere in grado di compiere azioni anche complesse (inaspettate, in virtù della loro oggettiva carenza cognitiva) mirate alla soddisfazione di un desiderio che orienta la loro vita. Esperienza straordinaria che coloro che frequentano persone con insufficienza mentale conoscono bene: lampi inaspettati di ‘presenza soggettiva’ che illuminano esistenze buie e spente, improvvise manifestazioni di capacità impreviste che rivelano la sorprendente volontà di affermazione del soggetto sostenuta da un desiderio tenace. Intelligenza e desiderio, si potrebbe dire, sono facoltà umane intimamente connesse l’una all’altra. Non esiste possibilità di sviluppare la prima senza prendere in considerazione la seconda. Potenziare le capacità intellettive significa, in sostanza, favorire nel soggetto la strutturazione di un desiderio: di questo intreccio speciale, ogni operatore dovrebbe tener conto.
E se, allora, il registro cognitivo può essere oggetto di programmi di addestramento, il registro intellettivo risponde ad un’altra logica di cura: esso necessita di un intervento che riconosca nella persona disabile un soggetto, che supponga, cioè, anche in un essere devastato dal punto di vista neurologico, uno spessore soggettivo che, solo se supposto, avrà modo di svilupparsi – nella misura in cui, ovviamente, il danno organico lo consentirà. Supporre un soggetto vuol dire scommettere sulla possibilità di favorire in uno psichismo che fatica a sintonizzarsi con il significante, lo sviluppo della capacità di entrare in risonanza con l’Altro e nella dinamica dello scambio, la sola in grado di mettere in moto quel fondamentale meccanismo propulsore che si chiama desiderio.
DA SEMPRE Psychiatry on line
DA SEMPRE Psychiatry on line Italia poggia sulle mie spalle di editor sia dal punto di vista organizzativo che dal punto di vista finanziario e dopo tanti anni in cui sono andato avanti mettendoci tempo, lavoro e denaro è giunto il momento di dire con chiarezza e onestà intellettuale che non ce la faccio più con le mie sole forze e ho necessità di un aiuto diffuso e consapevole da parte di chi sappia riconoscere ciò che è stato fatto, ciò che si fa e ciò che si farà in futuro.
Siamo ad un bivio: la rivista oltre che avere spese di base fisse ha bisogno di aggiornamenti di software e di hardware che con le mie sole forze non sono in grado più di supportare, al tempo stesso Psychiatry on line Italia è e sarà SEMPRE una risorsa gratuita di libera fruizione ma come ho più volte sottolineato non confondiamo la gratuità con il non costo: dietro alla risorsa vi è LAVORO e vi sono COSTI VERI E NON VIRTUALI DA SOPPORTARE.
Delle due l’una: volete che POL.it piano piano si spenga schiacciata da obiettive difficoltà? O volete che continui il suo cammino cercando sempre di migliorare la sua offerta culturale?
Contribuire ai beni che si usano non è un’obbligo è un’oppotunità e un segno per me di civiltà.
Se la vostra risposta è la seconda e non avete ancora fatto una donazione è il momento di valutare di dare davvero una mano a Psychiatry on line Italia.
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Grazie per ciò che farete, grazie dell’attenzione.
C’è una generale tendenza a
C’è una generale tendenza a scotomizzare la dimensione soggettiva del paziente ed a privilegiare la considerazione di tutto ciò che è oggettivo o obbiettivabile: il comportamento, le “prestazioni”, il fattore biologico. Le conseguenze sono la passivizzazione del paziente ed interventi sostanzialmente autoritari, che prescindono dall’alleanza terapeutica e da una collaborazione partecipe alla propria cura da parte del paziente.