Recentemente mi hanno dato dello spontaneista. Come e perché?
Perché dico quel che mi passa spontaneamente per la testa? No, perché in un collettivo psi ho osato proporre la congettura, forse bizzarra ma certamente falsificabile, quindi potenzialmente scientifica, che la schizofrenia sia un fenomeno psichico spontaneo, cioè senza causa, come le mutazioni genetiche,[1] l’origine delle specie, le misurazioni quantistiche. Fatte le debite proporzioni, sarebbe come dire che erano spontaneisti Thomas Hunt Morgan, Charles Robert Darwin e Werner Karl Heisenberg, perché studiavano i citati fenomeni senza causa, per non parlare di Cartesio e Galilei che postulavano il moto inerziale senza motore. E chissà – pensavo – che l’opposizione al darwinismo non derivi proprio da lì: non per aver fatto discendere l’uomo dagli animali o aver negato il disegno intelligente, ma per aver ulteriormente contribuito dopo David Hume, in scienze tanto umane quanto quelle biologiche, a destituire di valore cognitivo la nozione regina del pensiero occidentale idealistico (dal potere spacciato per realistico), proprio quella di causa.[2]
Il post che oggi propongo si inserisce, prolungandola in modo naturale, nella recente riproposizione che Francesco Bollorino ha voluto fare su questa rivista del dibattito su psicoanalisi e psicoterapia, intercorso vent’anni fa tra me ed Ettore Perrella sulla rivista di psicoanalisi Scibbolet n. 4 (Una lettera per l’altra, pp. 166-194, 1997) e ripreso da Paolo Migone in Psicoterapia e scienze umane.[3] Da allora per me è cambiato poco in intensione (in verticale); tuttora ritengo la psicoanalisi una scienza; è la “giovane scienza”, die junge Wissenschaft, di Freud.
A quel che scrissi allora oggi aggiungerei una postilla: la psicoanalisi, essendo scientifica, non ha bisogno di maestri e di scuole, ma di collettivi di pensiero psicoanalitico, dove svilupparsi nel confronto reciproco; finora la psicoanalisi ha avuto fin troppi maestri che l’hanno stiracchiata in tutte le direzioni, tranne quella scientifica. La psicoterapia, invece, essendo una tecnica, ha bisogno di scuole professionali e di insegnanti, che rilascino diplomi di abilitazione. Scienza e tecnica vanno tenute rigorosamente distinte. La tecnica di scheggiatura delle asce mono e bifacciali precede l’avvento di Homo sapiens (e del linguaggio!); la scienza è evento relativamente recente su scala geologica. C’è poi una differenza logica di base: la tecnica procede per conferme (“se funziona, va bene”); la scienza per confutazioni (“se non funziona, si lascia cadere”). C’è infine una differenza epistemologica: la tecnica produce certezze; la scienza riduce le incertezze.
Vent’anni dopo, sostengo ancora la scientificità (potenziale) della psicoanalisi, che va ben oltre il suo valore psicoterapeutico (attuale). Ho cambiato discorso solo in estensione (in orizzontale). Come testimonia questa rubrica, ho esteso il mio campo di ricerca dal soggetto individuale al soggetto collettivo, cui nel campo freudiano si è dato troppo poco rilievo. In questo post porto acqua al mio mulino attraverso un tema che allora avevo appena iniziato a svolgere, ma di cui non accennai a Perrella (per ragioni che forse esporrò in un altro post): l’indebolimento dell’eziologia della malattia mentale, quasi a farne una “malattia mentale spontanea”, frutto dell’interazione contingente tra soggetto individuale e collettivo. Ringrazio Bollorino per avermi dato l’occasione, nonché lo stimolo necessario, per riprendere un discorso cui tengo molto ma che espongo non senza timore e tremore, ben sapendo quante resistenze suscita.
In verità, ne parlo da vent’anni… al vento. Il punto è che il medico e lo psicologo non intendono ridimensionare la portata del proprio complesso eziologico; stentano ad abbandonare l’assetto mentale coatto per cui “ogni processo [psichico] ha una causa dimostrabile” (corsivo di Freud).[4] Freud lo chiamava il “nostro imperativo bisogno di causalità”.[5] Se c’è un bisogno, c’è la pulsione che pretende soddisfarlo, insegna la scolastica freudiana. Per la Klein, si tratta di pulsione epistemofilica, derivato anale della pulsione aristotelica dello scire per causas; è lei a causare la ricerca sistematica delle cause. Noi, che prima di essere freudiani siamo galileiani, abbiamo altri bisogni che non sono né eziologici né spontaneistici, ma di coerenza logica.
Come potrebbero andare le cose in una malattia mentale “spontanea”? “Essenziale”, si dice in medicina, come l’ipertensione. Provo a dirlo, accennando prima alla “causa” della nostra fissazione alle cause.
Il complesso eziologico, di cui tutti soffriamo, si basa sul nostro originario bisogno di certezza: se c’è la causa, c’è certamente l’effetto; se c’è l’effetto, c’è stata certamente la causa. Dovrei risalire a Ippocrate, ma mi fermo a Cartesio. Cogito ergo sum. “Sono” è l’evento locale e contingente dell’esistere perché qui e ora “penso” e finché penso. Allora il pensiero sembra essere la causa dell’essere. Perciò il principio di ragion sufficiente è così duro a morire contro l’evidenza di eventi scientifici spontanei: se l’essere ha una causa, tutto deve avere una causa, o no?
Siamo irretiti nel complesso eziologico tutti noi medici e con particolare tenacia noi psichiatri. In medicina il complesso eziologico è sorretto da una potente ragione ideologica, che apparentemente lo giustifica; in psicoanalisi si chiama razionalizzazione. Supporre una causa per ogni malattia mentale è il primo passo di un ragionamento che mira a giustificare la terapia: se esiste la causa morbosa (organica o non organica, genetica o virale, persino la mancata simbolizzazione primaria può andar bene), vuol dire che eliminandola è teoricamente possibile curare e guarire la malattia. L’ipotesi eziologica giustifica l’affaccendamento terapeutico, che soddisfa sia il medico sia il malato, perché dà a entrambi l’impressione di fare qualcosa di utile, anche quando in realtà non c’è molto da fare.[6]
Alla base dell’eziologismo medicale c’è il classico ragionamento ippocratico: guarire significa ripristinare lo stato pre-morboso, su cui ha agito la causa morbosa; in mancanza di meglio si invoca la causa factotum: il trauma psichico. Se la causa produce la malattia, tolta la causa morbosa, si torna in salute, conclude Ippocrate in Antica medicina, il testo apologetico della causa.[7] Peccato che nel caso della malattia mentale il ragionamento non regga perché auto-contraddittorio. In particolare nella schizofrenia, lo stato pre-morboso è proprio quello che ha prodotto la malattia. Ripristinare lo stato pre-morboso significa facilitare la ricaduta nella malattia. E si sa che nella schizofrenia le ricadute sono la regola “spontanea”. Tanto maggiori saranno le ricadute dopo l’intervento medico. Purtroppo poco importa la logica difronte alla giustificazione professionale della lobby medica, che è tanto forte da imporre e far pagare al resto della società il prezzo di un argomento fallace, in cambio della falsa sicurezza della guarigione.[8]
Pensare a una psicopatologia senza eziologia o meno eziologica dove ci porterebbe? Probabilmente in territori meno contraddittori, ma non meno interessanti. È il campo della costruzione di modelli meccanicisti, incredibili per chi pensa ancora agli oggetti-causa del desiderio perduti.
Faccio un esempio palmare di evento biologico spontaneo, non poco attinente al problema della malattia mentale: la sessualità. Freud non la concepiva come fenomeno spontaneo, perché per lui i fenomeni spontanei non esistevano, ma nel Compendio ci arrivò vicino, affermando che la sessualità “sfida ogni riduzione ad altro”, cioè la sessualità sarebbe causa di sé stessa o per lo meno indipendente da cause psichiche.[9] Per convincersene basta fare quattro calcoli su cifre di cui conta solo l’ordine di grandezza, numeri a 10 cifre.
Comincio ab ovo. Il sistema solare si forma 4 miliardi e mezzo di anni fa. La vita sulla Terra ci mette un miliardo di anni per nascere; forse anch’essa è stata un evento spontaneo (o portato dalle comete dalla periferia del sistema solare?), di cui oggi si cercano le tracce su qualche migliaio di esopianeti.[10] Passa un altro miliardo di anni e tra forme di vita non solo pluricellulari compare la sessualità. La quale si è rivelata un evento persistente nel tempo – dura da due miliardi e mezzo di anni, che non sono pochi – ed è esteso a tutti i biomi, interessando la maggioranza di 9 milioni di specie biologiche non tutte dotate di psiche. Saranno quelle briciole di godimento che sparge qua e là, per altro in modo non paritario tra i sessi, a spiegare la sua diffusione? Credo proprio di no.
Quale meccanismo eziologico avrebbe potuto resistere immodificato per tanto tempo e distribuirsi così estesamente nel pianeta a innumerevoli forme di vita? Se esistesse, sarebbe già stato scoperto. In realtà il meccanismo eziologico di un fenomeno tanto imponente non esiste, ma non è un mistero, la sessualità.[11] “L’enigma non v’è”; l’enigma è l’artefatto della superstizione eziologica, avrebbe ricordato Wittgenstein a Freud.[12] La sessualità non ha cause ma è frutto di un solido meccanismo; è solo un evento spontaneo, che la selezione naturale ha premiato e continua a premiare perché produce – è vero – uno svantaggio nei genitori, che perdono metà del proprio patrimonio genetico, ma al tempo stesso offre un vantaggio superiore ai discendenti, tra cui introduce un tasso di biodiversità che rende più facile sopravvivere (= riprodursi). La causa agisce paradossalmente dopo l’effetto; l’effetto retroagisce sulla causa… che non c’è, stabilizzando un sembiante di causa.
Viceversa, in un contesto di spontaneità, qualunque fattore che si presenti come “causa sessuale” non può evitare di connotarsi, poco o tanto, come evento traumatico, che ostacola la spontaneità. In realtà – e qui torno a un tema a me caro – la spontaneità è l’altra faccia del meccanicismo, tanto aborrito dalla cultura umanistica, perché toglie senso alla nozione di senso e valore a tutto l’armamentario ermeneutico. Nell’ottica meccanicistica, mancando ogni finalismo regolatore prestabilito, qualunque interazione “meccanica” tra il soggetto e l’altro è poco o tanto traumatica; essa avviene come due molecole che si urtano casualmente; si va dalla violenza di coppia alla più neutra seduta psicoanalitica che rimanda alla successiva.[13] Certo, poi la scienza ha imparato a trattare la “spontaneità meccanicistica” con il calcolo differenziale o probabilistico, attrezzi che non stanno nella cassetta dello psicologo.
Forse l’intento di salvare il principio di causalità universale spiega certi tentativi, moderati nel freudismo,[14] ma spinti nel lacanismo, di sganciare la sessualità umana dalla biologia, facendone un fenomeno a sé, indipendente dal corpo e regolato da cause proprie. La ragione è ancora quella soprariportata a proposito della terapia medica: se la sessualità è spontanea, non esiste la causa su cui si possa intervenire per modificarla con la strumentazione medica. Quindi il medico si converte a false ipotesi eziologiche, che godono del più ampio consenso; poco importa se sono inefficaci, perché sia al medico sia al malato danno l’impressione di poter far qualcosa agendo contro la supposta causa. In realtà il malato mentale non vuole guarire, ha scoperto Freud. Da aggiungere per simmetria una verità meno gradita e addirittura misconosciuta da Freud: il terapeuta “mentale” non vuole veramente curare.
Di più. Se la sessualità è un fenomeno spontaneo, perché non potrebbe esserlo anche la malattia mentale, dove la sessualità è un fattore cruciale? Perché non ammettere l’assenza di cause della malattia mentale, se la stessa assenza si riscontra nella sessualità?
A quanto sopra schematicamente detto va aggiunta un’altra considerazione che apre un’interessante linea di pensiero psicopatologico.
La selezione sessuale esiste; nel 1871 Darwin ne riferì la scoperta in The Descent of Man and Selection in relation to Sex. L’aspetto intrigante di tale selezione è che non favorisce gli individui ma i gruppi, talvolta a danno degli individui. Favorisce le specie, in cui produce maggiore variabilità individuale, rendendole più inclini a resistere nel tempo. Favorisce il collettivo, prima ancora dei singoli individui. Sopravvivono più facilmente nel tempo le specie con maggiore variabilità interna, che la sessualità promuove. La misteriosa scomparsa di Homo neanderthalensis 38.000 anni fa, quando sulla scena europea arrivò dall’Africa Homo sapiens (già allora un migrante), non fu probabilmente dovuta a conflitto tra le due specie, tra cui sono state documentate ibridazioni, al punto da dover dubitare che si tratti di due specie distinte; probabilmente Homo sapiens era più variabile di Homo neanderthalensis, quindi più attrezzato a sopravvivere (ma questo non è ancora confermato, anzi mi attendo confutazioni).[15]
L’orizzonte psicopatologico, che a questo punto si dischiude, circoscrive una serie di interazioni ancora in gran parte inesplorate tra soggetto individuale e collettivo in base alla maggiore o minore variabilità del secondo rispetto al primo, che per definizione varia molto meno del secondo nel corso della sua breve vita. Siamo al confine tra biologia e psicologia, tra somatico e psichico, là dove Freud immaginava che operassero le pulsioni, forze biologiche costanti, associate a rappresentazioni psichiche inconsce. Per entrare in questo ordine di idee una condizione sembra però necessaria: abbandonare lo schematismo eziologico ippocratico delle cause morbose mentali, quindi lo schematismo metapsicologico pulsionale, per adottare considerazioni di simmetria tra componenti del collettivo. Una via potrebbe essere quella sociologica, inaugurata da Herbert Mead, che riconobbe la funzione dell’altro generalizzato, non l’altro simbolico alla Lacan, ma l’altro potenziale che consente all’individuo di interagire con l’altro attuale in forme di cooperazione (interazione positiva) e/o di conflitto (interazione negativa).
Come si constata facilmente, questa linea di sviluppo del pensiero psicoanalitico non fu intravista da Freud, che rimase profondamente eziologico, attaccato com’era alle sue pulsioni, intese come cause psichiche aristoteliche: efficienti le pulsioni sessuali, finale la pulsione di morte. Qualcosa di più intuì Lacan nel saggio sul Tempo logico (v. il post precedente Cosa fa il collettivo?[16]). Ma molto, tantissimo, resta ancora da pensare, ammesso che le dottrine psicoanalitiche vigenti consentano una minima libertà di pensiero, che non è spontaneismo, anzi esige un duro esercizio di controllo e verifica.
E vengo alla mia congettura “spontaneistica” sulla spontaneità della schizofrenia come mancata o alterata interazione tra soggetto individuale e collettivo.
Nonostante operasse all’interno del paradigma eziologico, addirittura supponendo come causa morbosa un processo organico, che non riuscì a dimostrare, Bleuler individuò correttamente le conseguenze delle interazioni “patologiche” tra individuale e collettivo nei quattro sottotipi di schizofrenia da lui stabiliti all’interno della dementia praecox, forma morbosa già riconosciuta da Kraepelin in un caso di Pick del 1891.[17]
Sono due le possibilità di schizofrenia legate all’interazione nulla o mancata; la catatonia e l’ebefrenia. Nella catatonia il soggetto individuale si isola in modo autistico dal collettivo, erigendo un invalicabile muro “affettivo” tra sé e il mondo. L’ebefrenia è l’opposto, simmetrico ma equivalente: non esiste barriera tra collettivo e individuale; il soggetto individuale si spalma in modo indifferenziato sul collettivo; non ha un baricentro soggettivo individualizzato; si perde nella dissociazione ideativa (il fenomeno essenziale della schizofrenia secondo Bleuler). In entrambi i casi, il soggetto si azzera in una solitudine astrale.
Gli altri due casi riguardano l’interazione non nulla: negativa o positiva. Nella variante paranoide l’interazione è negativa in due modi opposti: da una parte c’è il soggetto collettivo che perseguita l’individuale (delirio di persecuzione), dall’altra c’è il soggetto individuale che perseguita il collettivo (delirio di grandezza ed erotomania[18]).
L’interazione è, invece, appena debolmente positiva nella variante simplex.
Nelle classi inferiori gli schizofrenici semplici vegetano come venditori ambulanti, giornalieri, magari anche tra domestici, vagabondi come altri schizofrenici lievi. Nelle classi superiori fa la sua parte infelice il tipo frequente della donna insopportabile, costantemente sbraitante, piena di pretese, ma che non riconosce doveri.[19]
Sfuggono ai presidi psichiatrici e alle statistiche di morbosità i simplex; sono per lo più schizofrenie latenti, senza sintomi accessori. Noi psichiatri sappiamo bene quanto sia faticoso diagnosticare la schizofrenia simplex, ad esempio, se si mimetizza dietro una laurea in psicologia o una specializzazione in psichiatria, magari con la targhetta “psicanalista” sulla porta. Non parliamo di cura, di cui non c’è richiesta da parte di un soggetto blindato nella propria miseria.
Come inserire la cura in questo quadro? Lo psichiatra lo sa bene. Non c’è posto per la cura della schizofrenia. Ai tempi di Bleuler si provava con l’ergoterapia, nel tentativo di normalizzare il soggetto individuale, inserendolo nei ritmi produttivi della collettività. Oggi si possono curare farmacologicamente i sintomi secondari: le allucinazioni e i deliri; si può tranquillizzare l’ansia, ma, essendo causa di sé stessi, autismo e dissociazione restano intatti. In fondo la schizofrenia è una “malattia” non medica; è una “non malattia” che ha qualcosa di terribilmente divino, essendo causa sui. Giusta senz’altro la cura di Basaglia di aprire i manicomi, a patto di tener conto che fu una terapia parziale, ma a rovescio di quella medica: ha curato il soggetto collettivo, l’insieme dei folli, ma non si è presa cura del singolo folle.
Conclusione provvisoria: la spontaneità è fondamentalmente incurabile. Allora la accusiamo di devianza solo perché rappresenta una minaccia per l’industria degli psicofarmaci e un ostacolo agli affari psicoterapeutici. Preferiamo ingannarci con il falso discorso eziologico. È più rassicurante oltre che più conveniente per chi lo professa. La rivalutazione della spontaneità ha però, secondo me, una grande chance dalla sua, che è scientifica: predispone all’accettazione della diversità (qualitativa) e alla variabilità (quantitativa) dei fenomeni soggettivi, che sono sincronicamente sia individuali sia collettivi. Il punto non sfuggì a Freud nonostante i suoi pregiudizi eziologici di stampo ippocratico. Freud capì che il collettivo rappresenta il pericolo pulsionale per il soggetto individuale, sotto forma di minaccia di castrazione (da parte del padre) o di sottrazione del proprio amore (da parte della madre). Esiste un modo meno infantile per dirlo? Un modo più adulto per riconoscere gli aspetti positivi dell’interazione individuale/collettivo, di là dall’orizzonte di cura?
La risposta attende una teoria psicoanalitica capace di autotrascendere in modo “spontaneo” le proprie posizioni dottrinarie.
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