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Surgeon General IV (2001)

1 Giu 21

A cura di Luigi Benevelli

 L’assistenza per la salute mentale degli Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska
 

Premessa:
Il Surgeon General (Chirurgo Generale), il “medico della Nazione”, è l’autorità sanitaria del Governo Federale istituita  nel 1871; il Presidente USA ne nomina i vertici al suo insediamento. Dal 1953 il Surgeon General  fa parte del Department of Health and Human Sciences.  Il Surgeon General degli Stati Uniti è alla guida del Servizio per la Salute Pubblica (U.S. Public Health Service Commissioned Corps)  ed  ha il mandato di proteggere, promuovere, far progredire la salute e la sicurezza dell’intera Nazione. Quello del Surgeon General è un servizio in divisa; il Surgeon General  ha il grado di vice – ammiraglio. La  rivista ufficiale, Public Health Report (PHR), è  edita dal 1878.
 Nel 1999, con il presidente Bill Clinton al suo secondo mandato, il Surgeon General  David Satcher presentò un rapporto nel quale, per la prima volta nella storia dell’Ufficio, una struttura federale, si riconosceva la gravità delle disparità circa l’uso, la disponibilità, l’accesso, la qualità dei servizi per la salute mentale, la fiducia negli stessi da parte di singoli e comunità. Da tale denuncia nacque il Supplemento Mental HealthCulture, Race and ethnicityA supplement to Mental Health: a Report of the Surgeon General, pubblicato nel 2001.
Il quarto capitolo[1]  si occupa dell’assistenza per la salute mentale degli Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska, ossia delle popolazioni che vivevano nei territori degli Stati Uniti, prima della Scoperta dell’ America. Nel 2000 l’Ufficio del Censimento ne stimava il numero a 4 milioni, meno dell’1,5% dell’intera popolazione. Il dato, in crescita del 250% rispetto al quarantennio 1960-2000 era considerato dovuto ad una migliore raccolta dei dati, all’aumento del numero delle persone che al censimento si definivano “Indiani Americani” e “Nativi dell’Alaska”, all’aumento della natalità. Ma il numero in sé dice poco perché andava considerata la storia sociale e politica delle relazioni di questi popoli con il Governo dell’Unione.
Il contesto Storico

  1.  Gli Indiani Americani

La condizione degli Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska è strettamente legata al rapporto con i coloni europei e le politiche del Governo Federale. I primi contatti con gli Europei, risalenti al 17° secolo, portarono a un drammatico crollo demografico a seguito delle malattie infettive trasmesse dai coloni.
L’Indian Removal Act adottato dal Congresso nel 1820 dispose il trasferimento coatto all’Ovest del Mississippi delle popolazioni, operazione che comportò marce forzate nel cuore dell’inverno.  Successivamente, quando i coloni europei cominciarono a muoversi oltre le Grandi Pianure, più a ovest, il Governo USA confinò molte tribù in Riserve collocate in territori marginali,  con scarse possibilità di prosperare. I Trattati prima sottoscritti, furono stracciati e seguiti da guerre per conquiste territoriali. Le guerre contro gli Indiani delle Pianure imperversarono  fino alla fine del 19° secolo e videro stragi di donne, uomini, bambini. Quando i coloni si spinsero fino al Pacifico, il Congresso approvò norme che misero i Nativi  sotto il controllo e la custodia dello Stato.
Nel 1887, alla fine della più sanguinosa delle guerre indiane, il Congresso approvò il Dawes Severalty Act con cui porzioni di Riserve furono assegnate a singole famiglie indiane. Il Governo successivamente vendette quello che restava delle Riserve a prezzi d’occasione. Questa legge ebbe conseguenze drammatiche: oltre a perdere parti delle terre tribali, molti Nativi persero anche le terre loro assegnate cadendo nella miseria anche materiale. Ai primi anni del ‘900 la popolazione degli Indiani Americani raggiunse il suo minimo del 5% della popolazione residente prima dell’arrivo degli Europei.
Nel 1875 prese a operare il Federal Indian Boarding School Movement; nel 1899 c’erano 26 scuole in 15 Stati fuori dalle Riserve. Solo successivamente l’impegno si concentrò a favore delle scuole nelle Riserve e delle scuole pubbliche, ma i Collegi continuarono ad avere anche nel nuovo secolo il ruolo maggiore perché ritenuti come “civilizzatori” degli Indiani Americani: fra 1930 e 1940 quasi metà della popolazione Indiana fu scolarizzata in Collegi.
Nel corso del XX secolo gli Indiani Americani sperimentarono successi e cadute: nel giugno 1924 il Governo riconobbe loro la cittadinanza USA; la legge fu poi emendata per estenderla ai nativi dell’Alaska. Nel 1934 l’ Indian Reorganization Act pose grande enfasi sull’opera di civilizzazione  degli stessi anche tramite l’insegnamento del Cristianesimo[2]. A tale scopo un numero sempre maggiore di Indiani Americani fu mandato a imparare la “civiltà americana” in scuole governative, Collegi gestiti dalle Chiese, spesso a migliaia di miglia dalle loro Riserve ritenute realtà non-educative. La stagione delle riforme del sistema educativo degli Indiani Americani prese il via negli anni ’20 quando le critiche alle politiche dell’Indian Bureau portarono nel 1926 all’inchiesta della Brooking Institution sui “Problemi dell’Amministrazione Indiana” nel cui rapporto si affermava:
“Quanto all’educazione bisogna cambiare il punto di vista. Gli orientamenti del Governo partivano dall’assunto che era necessario tenere i bambini Indiani il più lontano possibile dal loro ambiente domestico, mentre le teorie moderne circa educazione e lavoro sociale sottolineano l’importanza dei contesti naturali e della famiglia. Riferiti estesi, diffusi trattamenti severi”.
 
Nel 1990 il National Resource Center on Child Abuse riferiva del gran numero di bambini Indiani abusati nel Collegi.
Un effetto positivo dell’esperienza dei Collegi-convitto è stato l’aver dato vita ad una coscienza identitaria collettiva condivisa fra membri di tribù fra loro lontane e quindi l’aver alimentato un importante cambiamento: i popoli delle tribù avevano tutti affrontato enormi avversità politicamente, culturalmente, linguisticamente, spiritualmente. Verso la fine della Seconda Guerra Mondiale il Congresso cominciò a ritirare il sostegno federale all’ Indian Burea che per decenni aveva operato per cancellare le culture degli Indiani Americani ed estinguerne riti e pratiche spirituali. Nel 1975 l’American Indian Religious feedom Act ne sancì il riconoscimento. Le religioni tradizionali erano non solo sopravvissute ma anche largamente partecipate e anche dove si erano diffuse le pratiche cristiane , rimaneva assai forte l’influsso delle culture dei popoli dei Nativi circa i modi di intendere vita, salute, malattia, guarigione. Negli anni ’70 Indiani Americani e Nativi dell’Alaska presero a chiedere più autonomia, più potere sulle vite proprie e delle comunità.
Dopo che nel 1969 la Commissione Lavoro e Benessere Pubblico del Congresso pubblicò Indian Education: a National tragedy, a National challenge la politica Federale prese a sostenere l’autogoverno delle tribù riguardo a salute, scolarità, assistenza sociale, amministrazione della giustizia, programmi per la casa. Le comunità locali hanno risposto in modi fra loro diversi, a conferma della varietà delle esperienze e delle prospettive-
 
           2-  I Nativi dell’Alaska 
Anch’essi hanno vissuto  storie simili, ma anche con diversità:

  • Gli Inuptia si sono insediati sulle coste dell’Artico da mare di Chukchi
  • Gli Athabasca, insediati nello Yukon, sono dello stesso ramo dei Navajo e degli Apaches del New Mexico
  • Tlingit, Haida e altri vivono sul mare nel SudEst, il loro artigianato è molto apprezzato da duecento anni
  • Gli Esquimesi, circa 20.000, abitano la costa del Nord Est dell’Alaska e il delta dello Yukon
  • Gli Aleutini abitano le Isole Aleutine, condividono con gli Indiani Americani una storia di stragi da malattie portate dai bianchi (da 80.000 prima dell’arrivo dei coloni si ridussero a 25.000 nel 1909).

 Nel 1867 gli USA comprarono l’Alaska dai Russi. Nel contratto d’acquisto era previsto che le tribù selvagge sarebbero state sottoposte alle leggi degli Stati Uniti, ma fino al 1891 non furono costretti a vivere in riserve e successivamente, comunque, solo in una piccola percentuale.
Nel 1971, dopo la scoperta dei giacimenti di petrolio, il Congresso adottò l’Alaska Native Claims Settlement Act con il quale i Nativi, rinunciavano alle rivendicazioni sulle loro terre e ottenevano l’autonomia di  200 Comunità con propri governi e consigli municipali.
 
Situazione attuale
 
– Indiani Americani
La gran parte degli Indiani Americani vive negli Stati dell’Ovest, il 42% in aree rurali (i bianchi residenti in aree rurali  ne sono il 23%). Nelle decadi precedenti si è ridotto il numero di Indiani americani che abitano nelle Riserve o nelle trustlands (aree con confini stabiliti da trattati, statuti o decisioni esecutive giudiziarie). Oggi solo 1 su 5 vive in tali aree  e più della metà, invece, in aree urbane, suburbane o Riserve non-rurali.
-Struttura della famiglia – nel 1990 (dati Censimento 1993) 6 famiglie su 10 erano guidate da una coppia genitoriale (il dato nazionale è di 8 su 10), i componenti erano in media di 3,6 unità per famiglia (3,2 il dato nazionale). Il numero dei membri fra 16 e 64 anni è inferiore a quello dei minori di 16 anni e superiore a quello dei maggiori di 65 anni, il che significa che i primi presumibilmente contribuiscono al mantenimento della famiglia: si tratta di una condizioneparagonabile a quella dei paesi più poveri del 3° Mondo.   
-Scolarità- nel 1990 il 66% aveva un diploma di scuola superiore o comunque un alto livello di scolarità; nel 1980 erano il 56%. Comunque il numero resta il più basso rispetto alla popolazione generale (75%). Le prestazioni degli studenti Indiani Americani sarebbero pari o superiori a quelle generali nella scuola primaria, pari o inferiori fra 4° e 7° anno. Il dato è stato interpretato come attribuibile al fatto che i giovani Indiani Americani avrebbero stili cognitivi, modi di apprendimenti diversi: più visivi che uditivi ed eccellerebbero nelle scale non-verbali. È noto che chi apprende da modalità verbali è più favorito nell’insegnamento e nelle prove di verifica in uso. Linguisti hanno osservato che le lingue dei Nativi sollecitano, sostengono osservazioni descrittive acute, a differenza delle forme verbali e dell’astrazione dell’inglese. Ma, al di là di tutto, il risultato finale è negativo.
– Reddito – Le comunità sono state rimaste segnate dalla miseria; molti non hanno lavoro o hanno lavori precari o poco retribuiti. Fra 1997 e 1999 il 26% viveva in povertà (contro l’8% dei bianchi e il 13% della media generale).
– Salute fisica- con qualche eccezione la salute fisica è andata nel tempo migliorando e il divario con le altre etnie si è ridotto. La mortalità infantile è scesa dal 22% rispetto ai nati vivi del 1972-74 al 13%  del 1990 e al 9% del 1997. Anche per  mortalità fra 15 e 24 anni le percentuali sono migliorate. Secondo dati del 1997, rispetto ai Bianchi, Indiani Americani e Nativi dell’Alaska hanno più di 5 volte il rischio di morire per patologie legate all’alcool, ma meno di morire di cancro e patologie cardiache.  Il diabete è il doppio rispetto ai Bianchi, così come le patologie renali collegate.
Un terzo degli  Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska non ha disponibilità di servizi sanitari (medici, cliniche). Nel 1955 il Governo Federale aveva costituito l’ Indian Health Service puntando al coinvolgimento delle tribù: cliniche e medici sono soprattutto nelle Riserve nelle quali però gravita solo il 20% degli Indiani Americani. Assai scarsa è la copertura da parte di assicurazioni private. Più della metà degli Indiani Americani vive in aree urbane e può fruire di 34 programmi con finanziamento pubblico. I dati disponibili sono scarsi, ma indicano un alto numero di disturbi mentali, dipendenze da alcool e droghe illegali, suicidi.
I servizi sanitari. anche quando esistenti e attivi, faticano a far fronte ai bisogni di salute della popolazione indigena, specie nelle aree più isolate. L’Alaska è suddivisa in 12 regioni in cui si trovano numerosi villaggi abitati da Nativi che hanno lingue, dialetti, legami culturali diversi.
– Salute Mentale- l’Indian Health Service è rimasto la prima risposta ai problemi di salute mentale delle Comunità  degli Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska: solo nel 1965 fu costituito il primo Servizio di salute mentale nella Riserva Navajo, che però rimase sotto finanziato e sotto dotato di operatori professionali. Gravissima poi la condizione dei Servizi di Neuropsichiatria Infantile. I bisogni di salute mentale degli Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska sono stati a lungo ignorati come mostrano le politiche di sradicamento, deportazione, emarginazione, discriminazione delle famiglie e delle culture: dal 25 al 30% dei bambini Indiani sono stati allontanati dalle famiglie.
Uno degli ostacoli per una adeguata conoscenza dei bisogni di salute mentale degli Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska nasce dal fatto che sono stati poco studiati perché i campioni non erano sufficientemente rappresentativi, i dati erano difficili da leggere e interpretare  per il grande numero di gruppi da studiare ( sono 561 le tribù riconosciute dalla Federazione; 200 le lingue parlate con differenze simili a quelle che passano dall’Inglese al Cinese); altrettanto ampie le varietà di costumi, struttura della famiglia, relazioni sociali, religioni; circa 280.000 Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska parlano in casa lingue diverse dall’Inglese; più della metà degli Esquimesi parlano o Inuit o Yupik). Questo vuol dire che le interviste vanno condotte in lingue diverse dall’Inglese per poter cogliere le varietà nell’espressione e nel racconto del disagio psicologico, gli stessi sintomi-chiave di un disturbo mentale: in alcune culture non si usano termini analoghi a “depressione” o “ansia”.  Per tutte queste ragioni la valutazione del bisogno di salute mentale nei membri di queste comunità necessità di indagini scrupolose, rispettose delle culture.
Ancora, il censimento del 2000 ha evidenziato l’aumento del numero di coloro che si definiscono “Indiani”, anche se il loro legame con la tribù o non è noto o appare problematico: questo pone ulteriori problemi circa l’accertamento dei bisogni di salute mentale di persone che vivono nella società aperta continuando a mantenere rapporti con i saperi delle culture tribali. Infine, altro limite, i disturbi mentali ricercati nel corso delle indagini sono quelli classificati e descritti nel DSM IV.
Gli studi disponibili sui problemi di salute mentale degli adulti riguardano gruppi molto ristretti e comunque molto pochi. La maggior parte dei dati fa riferimento a uno studio del 1988 riguardante 131 soggetti di un piccolo villaggio della costa Nord Occidentale monitorati per 20 anni con lo Schedule for affective disorders and schizophrenia- lifetime version. Il 70% è risultato aver vissuto un qualche disturbo mentale nel corso della vita, il 30% ha continuato a soffrirne per il resto della vita.
Il più recente studio epidemiologico ad orientamento comunitario è stato l’American Indian Vietnam Veterans Project che ha evidenziato il PTSD in corso nel 31% degli Indiani delle Pianure, nel 27% in quelli del Sud Ovest, dato molto più alto rispetto a Bianchi, Afro Americani, Giapponesi. Similmente, l’abuso di alcool e le dipendenze patologiche raggiungono fra i Veterani Indiani il 70%  contro un range fra 11 e 32% nelle altre etnie. Non ci sono studi per i Nativi dell’Alaska, solo stime di abuso di alcool e dipendenze che riguarderebbero l’87% degli uomini e il 65% delle donne.
Per quanto riguarda bambini e giovani ( o registrati in una tribù o discendenti di prima o seconda generazione da un membro registrato) non sono state evidenziate diversità rispetto ai Bianchi per disturbi d’ansia, depressivi, della condotta, attenzione, deficit/iperattività; più alte percentuali di dipendenze e abusi.
Un altro studio ha riguardato 109 adolescenti Indiani delle Pianure del Nord dai 13 ai 17 anni: il 29% ha avuto una  diagnosi di almeno disturbo mentale, il 13% di più di uno; disturbi dell’alimentazione nell’1%, abuso di sostanze nel 18%. I disturbi più comuni sono risultati: alcool dipendenza e  deficit di attenzione/iperattività nell’11%;  consumo di marijuana nel 9%. Forti risultano le comorbidità.
 
Gli scarsi studi sulla popolazione anziana segnalano un numero maggiore di disturbi depressivi rispetto ai coetanei Bianchi;con la precisazione, però, che le Scale di misura della depressione non sarebbero in grado di cogliere e misurare adeguatamente i sintomi depressivi in queste popolazioni.
-Problemi di salute mentale rilevati- i sintomi di disagio psichico grave sarebbero presenti nel 13% di queste popolazioni; nelle culture tribali non vi è grande distinzione fra corpo e mente; i suicidi sono molto alti fra i maschi fra 15 e 24 anni, due, tre volte più che nella popolazione generale; le morti violente costituiscono il 75% di tutte le cause di mortalità nella seconda decade di vita; quanto alle sindromi cultura correlate segnalate ghost sickness (la “malattia del fantasma”) e heart break syndrome (“sindrome del cuore spezzato”).
– Indiani Americani e dei Nativi dell’Alaska sono fra i più poveri dei gruppi etnici USA: hanno una storia di oppressione, discriminazione, bassa scolarità, esposizione ai traumi con alta incidenza di PTSD, disturbo che ne colpirebbe il 22% ( a fronte del dato nazionale dell’8%); sono sovra rappresentati fra i “senza casa” (8% contro il dato nazionale dell’1%), fra i carcerati (4% della popolazione dei detenuti); drammatici i numeri dei consumi di droghe e di alcool soprattutto fra i giovani. Secondo dati 1999 del Bureau of Justice la percentuale di vittime di violenza fra gli Indiani Americani è il doppio rispetto alla media nazionale; negli ultimi 10 anni le violenze sui minori sarebbero aumentate del 18%. Gli Indiani Americani  combattenti sono stati esposti a traumi maggiori, come dimostrerebbe il fatto che i PTSD, “spirito ferito”, affligga il 31% dei Veterani Indiani (a fronte del 14% dei Bianchi e del 21 % dei Neri).
Quanto all’accessibilità ai Servizi di salute mentale, l’Indian Health Service del Governo Federale è titolare dell’assistenza sanitaria di più di 500 tribù formalmente riconosciute, ma solo 1 Indiano su 5  la usa, ossia chi vive nelle Riserve; a questo va aggiunto che il servizio non è disponibile per le tribù riconosciute da uno Stato dell’Unione, ma non dal Federal Department of Indian Affairs. Ancora: solo una metà ha un’occupazione coperta da assicurazione di malattia (contro il 72% dei Bianchi); il programma Medicaid ne copre il 25%, il 24% è scoperto. Per questo le tribù hanno deciso di amministrarsi in autonomia i fondi dell’ Indian Health Service.
Non si hanno studi validati con dati sull’uso dei servizi di salute mentale; il maggior numero di studi riguarda i bisogni di salute mentale di bambini e minori Cherokee dell’Indiana in contesti istituzionali o giudiziari. Le disparità nell’assistenza ricevuta potrebbero essere lette alla luce delle diversità nell’uso dei servizi: dati nazionali riferiti agli anni 1980/81 dicono di un maggior numero di ammissioni di Indiani Americani e Nativi dell’Alaska  negli ospedali di Contea o Statali; molto meno in manicomi gestiti da privati. Studi riferiti ai successivi anni 1983 e 1986 riferiscono di percentuali uguali a quelle della popolazione generale e molto più alte per i reingressi, ma meno rispetto ad AfroAmericani, Asiatici, Ispanici e Bianchi.  Comunque vi sarebbe evidenza di bisogni uguali, se non superiori rispetto al resto della popolazione.
Le terapie complementari sono usate in numero maggiore rispetto ai Bianchi: il 62% dei Navajo del New Mexico – indagine condotta nel 1998- si è avvalsa dei Guaritori tradizionali, il 39% in modo regolare. Nell’area urbana di Seattle i 2/3 di 871 pazienti si affidava ai guaritori tradizionali in aggiunta a quelli “ufficiali”. Guaritori  tradizionali  e Pastori cristiani fornirebbero più di ¼ dei servizi a giovani Indiani americani detenuti.
Non ci sono studi di esito dei trattamenti psichiatrici e per questo non si sa se i clinici facciano diagnosi accurate né se ottengano esiti positivi secondo i protocolli ufficiali, come accade invece per i Bianchi.
-La prevenzione delle malattie mentali e la promozione della salute mentale- l’agenda degli interventi è stata occupata da quelli contro l’abuso di alcool e droghe. Povertà, demoralizzazione, cambiamenti culturali  compromettono una buona genitorialità con conseguenti instabilità, rotture, violenze, allontanamenti dei figli. Gli interventi di prevenzione, molti particolarmente creativi, hanno fatto leva sulle tradizioni:

  • v. l’introduzione del “fustigatore(whipper man) figura non genitoriale in un collegio per giovani di una tribù del Nord Ovest;
  • v. interventi per rafforzare la resistenza allo stress in famiglie Navajo con interventi domiciliari da parte di caregivers , sostegno dei legami famigliari e dell’autostima
  • v. Toyei Model Dormitory Project, assistenti Navajo al posto di non-Navajo addestrati ad essere sia figure parentali che di assistenza.  Gli esiti sono stati di sviluppo intellettivo, migliore adattamento emozionale, prestazioni superiori
  • v. aumento degli interventi nelle scuole delle comunità native e dei relativi finanziamenti. Fattori di rischio  sono considerati il debole sviluppo culturale e spirituale, la perdita dell’identità etnica.
  • Tiospaye Project (Sioux del South Dakota) con sostegno ai tradizionali stili di vita fondati sulla famiglia estesa, la corresponsabilità, la reciprocità, l’enfasi sulla soluzione dei problemi della comunità in comunità.

Gli operatori della prevenzione sono sollecitati dagli Indiani Americani ad andare oltre i modelli di malattia Bianchi, la separazione fra mente, corpo e spirito e a valorizzare le risorse individuali e collettive.
Importanti sono i contributi della letteratura scientifica contemporanea centrata sulle basi del benessere e della salute psicologica: felicità, competenza, empowerment, autoefficacia, padronanza (v. concetto di Hozha fra i Navajo), coerenza, reciprocità, equilibrio. Essi hanno prodotto la riscoperta dei meccanismi  fondamentali per il mantenimento del benessere psicologico e dei rapporti fra fattori spirituali, religioni e salute. Di qui l’enfasi su visioni individuali, rivelazioni, relazioni con entità spirituali, cerimonie  e riti per la guarigione, con importanti i contributi anche delle religioni cristiane della Native American Church.
 
  Luigi Benevelli  ( a cura di)
 
Mantova, 1 giugno 2021
 
 
P.S. : il 26 aprile scorso RicK Santorum, ex-senatore del Partito Repubblicano, commentatore politico della CNN, intervenendo alla conferenza “Standing up for faith and freedom” promossa dalla Young America’s Foundation, organizzazione giovanile della Destra,  ha dichiarato:
“Abbiamo dato vita a una nazione dal nulla, qui non c’era niente: sì, abbiamo i nativi americani, ma non c’è proprio tanta cultura nativa americana nella cultura americana”.
Ne sono seguite violente polemiche.
 



[1] Mental health care for American Indians and Alaska Natives, Ibidem, 2001, pp. 79-104
[2] Questo accadde non solo gli USA, ma anche in Canada come ha dimostrato il ritrovamento in questi giorni del maggio 2021 di 215 cadaveri di bambini Indiani sepolti in una fossa comune nel giardino della Kamloops Indian Residential School (British Columbia). La scuola, aperta dalla Chiesa Cattolica nel 1890, arrivò a contare fino a 500 bambini. Si è stimato che in Canada, nella seconda metà dell’800  e nel corso del 20° secolo,  più di 150.000 bambini nativi siano stati prelevati a forza dalle famiglie, trasferiti a migliaia di chilometri di distanza dai loro genitori, impediti di parlare la lingua materna. Al riguardo, si è parlato di un “genocidio culturale”. La Chiesa Cattolica non ha finora riconosciuto responsabilità.

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