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Sylvia, il ritratto della vita

11 Feb 13

A cura di FRANCESCO BOLLORINO

Ora, la biografia della Plath — autrice amata e controversa al cui studio e ricerca l'amica Stefania Caracci ha dedicato tutta la vita — si offre alla nostra lettura per intero, attraverso questo intenso e godibilissimo racconto che ripercorre tutto il breve arco dell'esistenza di Sylvia, dalla nascita avvenuta a Boston nel '32, fino alla fine, nella gelida casa di Fitzroy Road a Londra, a trentun anni.

Credo che il termine racconto non sia casuale o scontato. Caracci – che da anni va scavando dentro la vita della Plath attraverso le poesie, le lettere, I luoghi che l'hanno vista crescere e poi spegnersi — deve essersi posta il problema di come narrare la vita di Sylvia in un modo che ne rendesse l'immediatezza e la disperazione, la vitalita' e l'annientamento, ossia tutte quelle spinte che in questa donna sembrano abitare e coestere a tratti come in un caleidoscopio, a tratti l'una prevalendo sull'altra, a tratti tutte apparentemente spente. La biografia tradizionale descrive cronologicamente la storia di un personaggio, ma non sempre consente di calarvisi dentro; cosi' come il romanzo puro avrebbe tolto dignita' e coerenza alla veridicita' dei fatti e degli avvenimenti con tanta tenacia raccolti. Da qui, io credo, l'idea del racconto: la storia di una vita narrata, raccontata e non solo descritta, ha il potere di permettere al lettore di entrare nella vicenda come fosse un romanzo, pur sapendo che romanzo non e'; le persone incontrate nel corso della vita sono si' persone eppure personaggi, ciascuno abita un ruolo suo proprio che il destino gli ha conferito, e la stessa Sylvia, la nostra protagonista, via via che la seguiamo attraverso I passi della sua vita, e' al tempo stesso eroina solitaria di un tragitto esistenziale e persona in carne ed ossa che ha abitato quei luoghi, tessuto quelle relazioni, prodotto quelle poesie. La biografia attraverso l'espediente narrativo, in altri termini, non toglie nulla alla concretezza e alla veridicita' del vissuto, ma lo dipana appunto in una narrazione che ne facilita, a mio parere, quell'universalita'che solo la letteratura puo' dare. Sylvia e' cosi' persona, Sylvia Plath – la poetessa americana che sposo' Ted Hughes e mori' prematuramente a Londra – ma e' anchepersonaggio, una donna "…vittima di un'alternanza febbricitante di allegria e malinconia (….) che soffre per la propria diversita', eppure ne e' intimamente lusingata… e va alla ricerca dei significati dell'esistere e dell'identita' intravedendo risposte nel mare della conoscenza dove s'inpenna ardita…."nella cui vicenda altre tra noi possono riconoscersi.

Il libro precede di pochi mesi l'uscita del film sulla vita della Plath, in programma in Italia da Gennaio, a testimoniare come sia cresciuto l'interesse per questa autrice in passato assimilata, forse erroneamente, al femminismo da un lato e ai cosiddetti confessional poets dall'altro.

Difficile risulta, in realta', collocare Sylvia Plath.

Una psichiatria nosografizzante e catalogante (non dimentichiamo che siamo in un portale psichiatrico!) troverebbe senza difficolta' diverse definizioni per inquadrare la dinamica personologica di Sylvia, inserendola ora nei disturbi dell'umore e ora in quelli della personalita', a seconda che prevalga una lettura piu' centrata sulla polarita' affettiva (umore basso, umore alto) o piu' centrata sullo stile del carattere (che diventa cosi' borderline, istrionico, e via dicendo). Una psicologia che prenda come cardine la relazione, rintraccerebbe con relativa facilita' le tracce di un dolore antico nella precoce perdita dell'adorato padre Otto, quando Sylvia ha nove anni, ne' si puo' ignorare la difficile e timorosa relazione con la madre, la severa Aurelia, a cui Syliva non vuole dispiacere in nulla, cosi' che nel tragico matrimonio con Hughes non potevano che ripetersi, secondo il misero schema della coazione a ripetere, il bisogno e la ferita antica, ambedue mai sopiti e mai risolti.

Ma ne' a noi, ne' a Stefania Caracci, interessa questo.

Come spesso accade per la vita dei poeti e dei creativi, tutti I tentativi di lettura psicologizzanti — o, ancor peggio, psichiatrizzanti — non ci dicono nulla dell'animo del poeta, e anzi ancor piu' ne immiseriscono il talento collocandolo nelle maglie sempre strette e mai esaustive degli inquadramenti forniti dalle scienze alle sofferenze e alle contraddizioni dell'uomo.

Di contraddizioni, Sylvia sembra essere piena. Nel racconto, troviamo infatti una vicenda esistenziale non priva di occasioni e momenti felici: Syliva e' una studentessa brillante le cui prime poesie vengono pubblicate; le viene offerto un lavoro tramite l'insegnamento presso il college in cui studio' da ragazza; ha amici che le vogliono bene; incontra l'uomo tanto desiderato e atteso, Ted.

Perche' mai, viene da chiedersi, questa insostenibilita' dell'esistenza, questa difficolta' a vivere, in una vita che aveva offerto anche delle opportunita'?

Dall'altro lato, troviamo gli eventi drammatici a cui il fragile — evidentemente -equilibrio di Sylvia non sa reggere: primo e principale fra tutti la morte del padre che lascera' per sempre un vuoto ‘al maschile' da colmare, un bisogno di amore insaziabile; le prime delusioni sentimentali; gli scritti in parte non accolti con entusiasmo dalla critica; lo sguardo materno che percorre tutto il libro e da cui Syliva non sembra riuscire mai a sottrarsi. La vita della Plath sembra avere una vera e propria virata, un cambiamento essenziale nell'incontro con Ted Hughes, incontro che fin dall'inizio si rivela passionale ed intenso. Ted, anch'egli poeta di successo, e' dapprima un amante e marito appassionato, ma ben presto si conferma per il seduttore che e', arrogante e ambizioso, teso a veder confermare se stesso. E' ispirato a lui "Il colosso", prima importante raccolta di poesie.

Come un'ombra, Sylvia sta al fianco del suo colosso e pare, a chi la incontra, donna quasi sottomessa, costantemente impegnata a farlo felice. Siamo negli anni '50, e per una donna complessa e sensibile come lei doveva essere davvero difficile integrare la carriera professionale, o anche solo il poter svolgere una qualche attivita' creativa, con le incombenze della casa e del ruolo prima di moglie, poi di madre. Questo conflitto, che permea tutta l'ultima parte della sua vita, e' il filo doloroso che piu' di altri, a mio avviso, lacera l'autostima e prostra il gia' difficile equilibrio della Plath. Avere tempo per scrivere e per pensare, per conoscere colleghi e frequentare gli ambienti giusti; ed insieme avere tempo per cucinare e badare alla casa, e in seguito per accudire I bambini, I tanto amati Frieda e Nicholas….doveva essere un conflitto acuto, irremediabile, reso ancora piu' doloroso dalla severita' interna con cui Sylvia, come tutte le donne come lei, non si perdonava nessuna manchevolezza. Era lei stessa il giudice, e l'accusato; lei stessa la vittima, ed il carnefice. Condizione comune a molte donne, per la personalita' creativa che per vivere ha bisogno di quella che la Woolf chiamava "una stanza tutta per se'", questa condizione diviene terreno di coltura di una disperazione senza fine.

Ted presto abbandona l'irrequieta Syliva, semplicemente per un'altra donna.

Al crollo del suo idolo, sembra non esserci piu' nulla che la sostenga.

Tuttavia, io vorrei rifuggire dalla facile accusa o dalla ricerca delle circostanze sfavorevoli, per dare invece piena dignita' al mondo interno della Plath: e' da questo mondo interno che origina la poesia, e sono I fantasmi che lo abitano che, se da un lato ne conferiscono il talento, dall'altro non le danno tregua.

Ci sono persone che non riescono ad essere felici, ne' a vivere in pace. "Insaziabile, eccessiva, mentalmente instabile" come scrive la Caracci, Syliva Plath e' tra questi. Ne' il ricorso sporadico all'alcool, ne' il sostegno di alcuni terapeuti che la ebbero in cura e che sinceramente si preoccuparono per lei, sembrano minimamente fornire un balsamo a tanto male.

Le ristrettezze economiche, la solitudine, il freddo londinese danno il colpo finale. La solitudine, in particolare, e' descritta, anzi narrata, come una dimensione angosciante. Nascono li' le ultime poesie, le piu' belle.

La donna ora e' perfetta

Il suo corpo

Morto ha il sorriso della compiutezza,

L'illusione di un'ellenica necessita'

Scivola nei drappeggi della toga,

I suoi peidi

Nudi sembrano dire:

Siamo andati troppo in la', e' finita.

Ognin figlio morto riavvolto, un serpente bianco

A ciascuno una piccola

Ciotola di latte, ora vuota.

Lei li ha introitati

Nuovamente in corpo, come petali

Di una rosa serrata quando il giardino

Nausea e gli odori sanguinano

Dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.

La luna non ha nulla di cui rattristarsi,

Fissando dal suo cappuccio d'osso.

E' abituata a questo genere di cose

Le sue oscurita' si trascinano e crepitano.

(Limite, da Ariel, scritta il 5 febbraio '63)

Questa poesia (nella traduzione di Caracci) e' stata scritta sei giorni prima di suicidarsi. L'ho scelta non solo perche' particolarmente lirica — e struggente — ma perche' sembra rendere con grande efficacia l'idea del limite (edge) fino a cui ci si puo' spingere, e oltre il quale non si hanno piu' forze, piu' spinte, piu' speranze.

Inutile soffermarsi oltre sulla dinamica del suicidio (gia' descritto nel precedente articolo), o ridurre la complessita' della poetica e della personalita' della Plath a questo gesto tragico ed eclatante per le modalita' con cui fu messo in atto (con la testa nel forno) e per la apparente premeditazione (aver messo con cura in salvo I bambini). Nessuno e' ormai nella sua mente.

Dobbiamo rendere merito a Stefania Caracci di averci portato se non proprio in quella mente, perlomeno alle sue porte.

Come in tutte le vite geniali cosi' fortemente segnate, fin dall'inizio, dalle prime righe, si ha la sensazione di una tragica fatalita' che incombe, di una difficolta' a vivere, a stare nelle cose della vita senza sentirne ogni volta tutto il peso.

C'e' una fragilita' intrinseca, nella persona-personaggio Sylvia, che non sfugge al lettore (I malanni fisici, I normali insuccessi, le fatiche diventano cosi' insormontabili) e che consentono una calda immedesimazione con quelle sofferenze e con quella fragilita', in particolare dal punto di vista anche squisitamente femminile, come vuole la nostra rubrica sempre segnalare.

Scrive Robert Lowell, nella prefazione di "Ariel":

"In queste poesie, scritte negli ultimi mesi della sua vita e spesso tumultuosamente composte in ragione di due o tre al giorno, Sylvia Plath diviene se stessa, diviene un'entita' immaginaria, appena creata……non un individuo, ne' una donna, ne' certo un'altra ‘poetessa', ma una di quelle grandi eroine classiche, piu' che reali, ipnotiche. (…..) Tutto in queste poesie e' personale, una confessione profondamente sentita, ma in lei il modo di sentire e' una controllata allucinazione, l'autobiografia di una febbre. Brucia dall'ansia di muoversi, per una passeggiata, una cavalcata, un viaggio, il volo dell'ape regina, costretta ad avanzare dal battito ansante del suo cuore. Il titolo Ariel evoca il personaggio shakespeariano, lo spiritello adorabile ma curiosamente agghianciante nella sua ambiguita' virile, ma per la verita' Ariel e' qui il cavallo dell'autrice. Pericolosa, piu' potente dell'uomo, efficiente come una macchina grazie ad un duro allenamento, lei stessa ricorda un cavallo da corsa, che galoppa senza sosta tendendo spasmodicamente il collo, superando uno dopo l'altro ostacoli di morte. (….) Ma quanto vi e' in lei di piu' eroico non e' la sua forza, piuttosto la disperata semplicita' del suo controllo, la sua mano d'acciao dal tocco modesto, femminile. ….."
(Robert Powell, introduzione all'edizione originale di ‘Ariel').

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