Stanno i giorni futuri innanzi a noi/
come una fila di candele accese/
dorate, calde, e vivide./Restano indietro i giorni del passato,/
penosa riga di candele spente:/
le più vicine dànno fumo ancora,/
fredde, disfatte, e storte./Non le voglio vedere: m'accora il loro aspetto,/
la memoria m'accora del loro antico lume./
E guardo avanti le candele accese./Non mi voglio voltare, ch'io non scorga, in un brivido,/
come s'allunga presto la tenebrosa riga,/
come crescono presto le mie candele spente.
K. Kavafis, 1961
Te ne sei andata così, non vista, proprio tu, che eri in libertà “vigilata”, al primo freddo di fine novembre, quando la prima neve ha imbiancato il Vesuvio. Ancora non c’è in giro l’atmosfera di Natale. Ma forse un altro Natale così non riuscivi a vivertelo. Erano forse meglio per te gli inverni e i Natali nella fredda e screpolata cella di quel Carcere sul mare, dove ci incontrammo quasi dieci anni fa? Quella mattina ormai lontana era invece d’estate, e stavo depositando i miei oggetti nella cassetta di sicurezza, reduce dalla mia notte in SPDC, quando, scortata e ammanettata, scendesti dal blindato. Eri trasognata, avevi ancora il sangue sui vestiti. Avevi addosso l’odore della morte. Eri morta anche tu. Una figura di donna indimenticabile, tragica e delicata. Avevo letto di te sui giornali e ti aspettavo. Allora non c’era il COVID. Potetti vederti subito, senza mascherine, senza protezioni. Sembra, ora che lo scrivo, ormai una vita fa. Mi colpirono i tuoi capelli biondi, fatti da poco, voluminosi e mossi. Ma i tuoi occhi scuri, pieni d’ombra, erano senza sguardo. Per tornare ad accendersi il tuo sguardo passarono dei mesi. Quanti colloqui, terapie di gruppo, e quanto lavoro delle psicologhe. Alla fine, dopo tutte le perizie che ti riconobbero la seminfermità mentale, rimanesti con noi nel reparto di Osservazione Psichiatrica. Gli OPG erano ormai chiusi. Forse, chissà, saresti stata meglio a Castiglione delle Stiviere. Forse saresti ancora viva. Ma, in fondo, qui stavi nella tua terra. E poi, dopo poco, trovasti buona compagnia con la tua amica che, come te, aveva tolto una vita al mondo, e la propria a se stessa. Ti curammo, non con i farmaci, non solo; non con la psicoterapia; non solo, ma con il nostro amore. Ti curammo con amore. Ti abbiamo voluto bene, tutti. Non so più quante sigarette ti ho portato. Eri dolce quando mi ringraziavi. Eri dolce, ogni parola che pronunciavi. Con un filo di voce, delicata, quasi che ti vergognavi di esistere. Il tuo sguardo, un giorno, dopo molti mesi, tornò improvvisamente, inatteso, insieme con il sorriso, ad accenderti gli occhi. Non parlavi molto. Ma sorridevi, mentre gli occhi ti si riempivano di lacrime, come il cielo squassato dal Libeccio, che piange e sorride. Sorride e piange. A volte non ne volevi sapere di muoverti dalla cella. Il tuo dolore ti avvolgeva tutta, come un calco di piombo. Rimanevi avvolta di coperte sulla branda, nel buio della cella fredda. E venivo, allora, a prenderti di persona nella cella, quasi per mano, e mi arrabbiavo con te. Sapevo che la terapia di gruppo ti avrebbe dato dolore, vergogna, colpa, ma sapevo che era l’unico modo per scavare un altro millimetro di tunnel nel piombo del dolore, e arrivare alla luce del perdono. Tutti ti avevamo perdonata. Tutti avevamo capito la tua disperazione. La tua solitudine infinita. La tua ossessione per il male. Per il male contaminante che ti possedeva e che avevi trasmesso a tutti, per la condanna a morte a cui avevi destinato i tuoi gemelli. E quel giorno, quel Dies Irae, insieme io e te, insieme con le psicologhe, lo abbiamo rivissuto tante volte. I ragazzi erano al mare, abitavi in uno di quei palazzoni popolari sul litorale magnifico e degradato del Golfo. Lui era tornato ubriaco, come al solito. Ti aveva maltrattato. Come al solito. E tu, quel giorno, decidesti che era finita. Avevi aspettato che si addormentasse, sul letto vestito e tutto. E poi avevi dato inizio alla distruzione. Armata dell’arma delle casalinghe, il ferro da stiro. Prima che il mondo finisse volevi tu annientare tutto. Volevi fare prima della fine del mondo. Volevi che la fine ormai prossima, non trovasse più niente da distruggere. Perché da una vita soffrivi. Ed ora questo male che ti abitava dentro aveva contaminato tutti. E tu non volevi che nessuno soffrisse per causa tua. E nessuno ti aveva capito. Nessun medico di base. Nessun CSM. Nessun assistente sociale. Nessun vicino. Nessun familiare. Quando tornarono i ragazzi non dicesti loro niente. La camera da letto col cadavere rimase chiusa a chiave. Chiesero del padre, ma poi si distrassero. Verso sera mettesti in atto la seconda parte del piano. Bombola di gas aperta, tentasti, come la Medea di Euripide, di uccidere i gemelli, mentre le fiamme purificavano il veleno. La femmina riuscì a svincolarsi e a dare l’allarme. Arrivarono i vicini. Anche il maschio scappò. La casa era piena di gas, di fumo e di fuoco. Tu eri sul davanzale della finestra. Un inferno. Vi salvaste. Vi salvarono. Ti sei salvata dalla follia. Non ti sei salvata dalla vita. Voglio pensare questo. Non ho altro a cui pensare che questo. Non basta, forse, salvarsi dalla follia per salvarsi anche dalla vita. La vita è colei che uccide. Ci uccide tutti, la vita, mentre la viviamo. Uccide i sogni, uccide gli amori, uccide le illusioni, uccide gli affetti più cari. Da quando ti avevano trasferita in un altro Carcere sapevo che stavi bene. Parlavo di te ogni volta che incontravo Lina, l’angelo bianco del Carcere femminile. Poi sapevo che eri uscita. Forse Lina mi aveva detto anche che avevi incontrato un altro uomo. Me lo aveva detto con il sorriso. In fondo, pensavamo, poteva sembrare un passo verso la vita. Eri una donna che aveva ancora una sua bellezza, resa ancora più fragile dal tuo dolore immenso. I giornali dicono che avevi litigato con questo nuovo compagno. Hanno presentato il tuo ultimo atto come una coazione a ripetere. Ma non ci credo. E se anche fosse stato così, stavolta, invece di togliergli la vita, te la sei tolta tu. L’idea che mi sono fatto è che stavolta, invece, tu sei morta di vita. Forse come psichiatra sono troppo orgoglioso per ammettere di non essere riuscito a curarti. Eri troppo fragile per ricominciare a vivere. Preferisco credere in questo. Nessuno può guarirci dalla vita. Le mura del carcere sono state l’esoscheletro della tua esistenza senza fondamento. Non so se prendevi ancora i farmaci. Non so se c’era ancora una psicologa che ti seguiva. Non so se il CSM del posto ti vedeva. Sono troppe le cose che non so. Mi ricordo solo, adesso, le lettere che scrivevi ai tuoi figli che stavano in casa famiglia. E che dal quel giorno non avevi visto più. “Dottore nessuna risposta”. “Leggimele”, ti dicevo. Ma era sempre la stessa lettera, uguale tutti i giorni. Chiudevo gli occhi e immaginavo una lettera di mia madre. Avrebbe scritto le stesse cose che scrivevi tu. Finiva sempre con “Mi mancate. Vi voglio tanto bene, vi penso continuamente”. Come solo la lettera di ogni madre può finire. I tuoi colloqui con me cominciavano così. E finivano così. E io ti dicevo che non era importante avere una risposta. Era importante testimoniare una presenza. E che solo una madre può amare anche senza ritorno. Perché l’amore di una madre non ha eco, non ha prezzo, non ha fine. Forse, sotto quest’altro Natale, non ti eri rassegnata a non poterli avere più. Questa memoria scritta mi serve, adesso, a dirmi, e a dire a chi, con me, in tutti questi anni ha lavorato per te, con te, che non è stato tutto perso il tempo che abbiamo trascorso insieme. Che ci hai dato molto. Almeno a noi. E che, anche se te ne sei andata così, qualcuno ti ha visto. Sei stata vista da qualcuno. Le agenti della Penitenziaria ti hanno vista. Le psicologhe ti hanno vista. Le tue compagne di cella, una in particolare, quella che si prendeva cura di te, e che adesso è libera, ti ha vista. Un intero carcere femminile ti ha vista. Ha visto in te la donna capace di sorgere, dignitosa e fiera come la Fenice, dalle ceneri che seguono al rogo della propria distruzione. Ti vogliamo ricordare così, Maria Carmela, col tuo sorriso di mare non turbato dal vento, con i tuoi capelli biondi mossi dal Libeccio, con i tuoi occhi pieni d’ombra ma fissi all’infinito.
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