Due anni fa, un uomo italiano di 57 anni ha strangolato a mani nude una donna moldava di 46 anni, con cui aveva una relazione da un mese, per motivi di gelosia. È stato condannato a 30 anni di reclusione per omicidio aggravato da motivi abietti e futili. Nel processo di appello i giudici hanno riconosciuto l’aggravante, ma hanno concesso le attenuanti generiche: l’omicida avrebbe agito, secondo una perizia psichiatrica, sotto l’effetto di “una soverchiante tempesta emotiva”. Hanno così ridotto la pena a 16 anni.
L’accettazione come attenuante generica di un eccesso di pressione emotiva e il contemporaneo riconoscimento dei futili e abietti motivi, fanno tra di loro a pugni: se davvero l’omicidio fosse stato commesso a causa di emozioni incontrollabili, la futilità sarebbe stata solo apparente. È davvero singolare che un ragionamento così contraddittorio abbia portato a un dimezzamento della pena per un reato tra i più esecrabili, come il femminicidio.
Valeria Fedeli, senatrice del Pd, ha giustamente osservato che giustificare un femminicidio con l’invocazione di “una tempesta emotiva” di gelosia, significa che in Italia il delitto d’onore non sia mai stato abolito. In effetti “la tempesta emotiva” (neologismo psichiatrico non più improprio dell’“attacco di panico”), è erede del “delitto passionale” e del “raptus di gelosia”, definizioni poco rigorose -facenti parte di un linguaggio psico-giuridico da romanzo d’appendice-, la cui inconsistenza semantica metteva in risalto la forza del pregiudizio sociale nei confronti della donna.
Il sovraccarico delle emozioni, a causa della difficoltà di sedimentarle, elaborarle e significarle, può portare a un impulso di loro scarica, anche aggressiva, che se il suo destino fosse l’omicidio il mondo sarebbe diventato un cimitero. Inoltre, la sua valutazione a posteriori è inferenziale e il suo uso, con buona pace delle perizie psichiatriche, non è per nulla rigoroso sul piano della verità giudiziaria. Si può invocare, con un certo rigore, come attenuante di un crimine, una follia temporanea, se a provocarla siano state cause organiche o l’assunzione involontarie di sostanze gravemente alteranti lo stato di coscienza, ma al solo scopo di dimostrare la preterintenzionalità del suo compimento. Considerare la gelosia come attenuante (e non aggravante) di un omicidio intenzionale e brutale, è un non senso, oltre che un danno all’idea stessa della passione.
Ciò che è assente nel femminicidio oggi, è proprio la passione. Lo era anche nel passato, in grandissima parte, ma nel nostro mondo l’eccesso di passione che, a volte, portava a uccidere, è sostituito dalla sua assenza. I femminicidio tende ad essere freddo, indifferente, disumanizzante. Odio e gelosia sono sentimenti superstiti, non determinanti. Visto nella giusta prospettiva -l’eliminazione dell’altro nella sua autodeterminazione e libertà, come modo di sbarazzarsi del proprio desiderio di relazionarsi con persone vive, coinvolgenti- il femminicidio rivela la sua natura inconfondibilmente razzista. Come espressione, tra le più orribili, del razzismo esso rappresenta la forma più grave e più sanzionabile dell’hubris: l’intenzionalità desoggettivata e desogettivante, l’azione distruttiva senza soggetto (diventato automa).
Non è un caso che la donna oggetto di un omicidio semi-condonato fosse moldava, migrante. Gli omicidi di donne migranti da parte di italiani fanno poco clamore. Questo razzismo esterno, anticipa il razzismo interno. La legge Pillon parla chiaro. Le italiane non “migrino” dal loro posto. Una “tempesta emotiva” potrebbe travolgerle.
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