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La discussione sul manicomio: Connolly e Marandon de Montyel
Il fatto che Pinel avesse liberato i folli e la psichiatria dalle catene, non significa però che li avesse liberati da ogni costrizione fisica; al posto delle catene, infatti, furono introdotti una serie di strumenti per lo più in tela rigida o cuoio, utilizzati per immobilizzare del tutto o in parte l’alienato quando il soggiogamento psicologico operato dall’alienista non era sufficiente (qui ne vedete un campionario collezionato da Carlo Livi, uno psichiatra italiano della seconda metà dell’800 che li raccolse e denominò la raccolta «museo delle anticaglie»; fu questo il primo nucleo del Museo di Storia della Psichiatria, reinaugurato pochi anni fa a Reggio Emilia, che se ne avete l’opportunità vi consiglierei di visitare). Nell’immagine successiva una camicia di forza e un letto di contenzione.
Si continuava nonostante tutto a legare in vari modi le persone, e dobbiamo a un alienista inglese, John Connolly, il primo tentativo di farne del tutto a meno (ammetteva solo un breve isolamento dell’agitato in cella imbottita). Connolly pubblicò nel 1856 un libro dal titolo “Trattamento del malato di mente senza metodi costrittivi”, il cui pregio non è solo quello di importanti intuizioni come quella che talvolta è la violenza dell’istituzione a rendere violenti i pazienti e perciò la contenzione deve essere evitata, ma anche quello di contenere molte idee sorprendentemente moderne sul lavoro psichiatrico. Per esempio che perché il programma no restraint, cioè di non legare in nessun modo, abbia successo occorre la collaborazione di tutti, medici e infermieri (cioè dell’intera équipe), mentre a quell’epoca gli infermieri erano in genere chiamati “serventi” e avevano il divieto di parlare coi malati, per non confondere ciò che diceva loro l’alienista. O ancora che in psichiatria gentilezza e attenzione da parte dello staff possono essere strumenti più efficaci dell’esercizio della forza fisica.
«Non solo è possibile dirigere un grosso manicomio senza applicare ai pazienti la coercizione fisica, ma dopo l’abolizione totale di tale metodo di controllo, le caratteristiche di un manicomio subiscono un graduale e benefico cambiamento» J. Connolly, (1842), 1856.
«La sicurezza e il buon comportamento dei pazienti dipendono completamente dalla cura e vigilanza ininterrotta degli infermieri; e al sistema repressivo va sostituito un metodo di cura sostenuto dalla serena collaborazione di ogni singolo dipendente, così che tutti siano gentili, protettivi e, per così dire, familiari. Per l’attuazione di questo piano è quindi indispensabile che tutto il personale sia concorde» J. Connolly, (1840), 1856.
Un altro autore importante della seconda metà del XIX secolo fu Evariste Marandon de Montyel, direttore dei manicomi della regione di Parigi, il quale ribaltò completamente, sulla base di ottant’anni di esperienza, le idee di Pinel ed Esquirol sull’isolamento dei folli dal loro ambiente e sulla loro collocazione in un ambiente artificiale, il manicomio, il cui progetto era nato dalla mente dell’alienista come strumento di guarigione. Ottant’anni dopo, insomma, gli alienisti compresero che il manicomio non guariva, ma rendeva cronici. Per questo Marandon de Montyel pensa che il manicomio debba essere riservato a 1/3 circa dei malati, quelli più difficili da gestire, mentre i 2/3 più tranquilli debbano rimanere in una sorta di villaggio, e che non debbano esserci limitazioni alle visite dei familiari che devono essere anzi incoraggiate; scrive tra l’altro:
«I nostri attuali manicomi, con i loro muri di prigioni o di chiostri, le loro disposizioni regolari e simmetriche, sono, per un grandissimo numero d'alienati, delle fabbriche d'incurabili e noi, attraverso l'isolamento che noi imponiamo ai nostri malati, la vita di reclusi alla quale noi li condanniamo, la disciplina severa che noi loro imponiamo, noi siamo in un grandissimo numero di casi, senza esserne coscienti e con le migliori intenzioni del mondo, dei fabbricanti di cronici» (Marandon de Montyel, 1896).
Intorno alla metà del XIX secolo il ruolo della borghesia, la classe alla quale gli alienisti appartenevano, si ribaltò. Dall’essere stata la classe rivoluzionaria, innovativa, propulsiva, piena di fiducia in se stessa, divenne la classe che doveva difendersi: dai proletari che rivendicavano giustizia sociale, dagli indigeni delle colonie che si ribellavano all’oppressione, da un mondo di emarginati che si era accumulato ed esercitava la delinquenza. Così, come spiega bene Luciano Del Pistoia, dall’ottimismo dei primi alienisti che pensavano che la follia potesse essere curata e guarita dal trattamento morale, si passò a una nuova dottrina psichiatrica – il degenerazionismo – che, anche in conseguenza del fallimento dell’isolamento manicomiale come metodo di cura oltre che per questi fattori generali, concepiva l’umanità come destinata su base genetica a peggiorare, e l’alienazione mentale, l’alcolismo, la criminalità, la prostituzione come tare trasmesse nella famiglie e destinate a peggiorare di generazione in generazione; che non potessero essere efficacemente curate né tanto meno guarite, ma dovessero essere sottoposte a custodia. In Italia Cesare Lombroso fu lo psichiatra più vicino a questa corrente.
Il movimento eugenetico, fondato da sir Francis Galton, cugino di Charles Darwin, nacque invece in sintonia ma anche in reazione al degenerazionismo, dall’idea che l’evoluzione umana potesse essere governata attraverso scelte utili a migliorare le generazioni a venire. Vedremo oltre le conseguenze cui questo avrebbe portato nel secolo successivo.
I provvedimenti seguivano un gradiente, dai meno ai più radicali e violenti:
- Provvedimenti igienici generici
- Provvedimenti igienici limitanti sfere significative della libertà personale (p. es. limiti al matrimonio)
- Sterilizzazione obbligatoria
- Aborto selettivo
- Soppressione dell’individuo tarato e disgenico
Con l’inizio del nuovo secolo, una enorme catastrofe sconvolse il mondo: la prima guerra mondiale. La psichiatria si era costruita un’immagine molto importante, e si era data una dimensione cosmopolita, a trazione tedesca. Fu molto doloroso, perciò, per gli psichiatri dividersi e mettersi gli uni contro gli altri.
Intanto alla psichiatria tutti gli eserciti belligeranti guardarono per identificare, giudicare, curare masse molto grandi di soggetti maschi, spesso privi di precedenti problemi psichiatrici, che avevano sofferto di “trauma di guerra”. Non era possibile pensare al manicomio per la cura di tutte quelle persone e si scoprì anzi che le guarigioni erano più frequenti e più rapide quanto più l’intervento psichiatrico avveniva rapidamente e vicino al fronte. Un lascito positivo fu che nasceva, insomma, nel corso della guerra una nuova psichiatria: che curava patologie mentali traumatiche in genere meno gravi e meno spesso destinate alla cronicizzazione di quelle curate nei manicomi, in soggetti giovani-adulti; che per curare non aspettava che il paziente le fosse portato in manicomio, ma si recava essa stessa vicino al fronte, dove il soggetto si trovava. Furono cose molto importanti, che dopo la guerra si tradussero in una spinta della psichiatria verso il territorio, sulle orme della campagna antitubercolare, con l’apertura di ambulatori volti all’igiene mentale, cioè allo sforzo di intercettare i disturbi mentali in forma ancora lieve, evitando così il loro aggravamento e la necessità di arrivare al ricovero manicomiale. Così uno psichiatra impegnato nell’esercito descrive la situazione psicologica dei soldati:
«Alle volte sono tali i disagi ed i pericoli, tante le ansie, le trepidazioni, le scosse, che voi vi sentite come lacerare l'anima, e tutto l'organismo si tende e vibra come negli spasimi di una angosciosa agonia: il riposo è continua tensione degli orecchi, degli occhi, di tutti i sensi, di tutti i pori, verso il luogo dove, nella nebbia, nelle tenebre, nel mistero, si nasconde l'agguato; il sonno breve è un'alternativa incessante di incubi e di risvegli improvvisi: sempre, a tutte le ore, nel cervello un ronzio insistente, una musica disgregante dì cannonate, di schioppettate, di sibili, di lamenti, di urli, di rantoli, poi grida di gioia per la vittoria agognata. Ma non basta» (lo psichiatra Vincenzo Bianchi sulla guerra, nel 1917).
Dalla guerra nascerà un movimento volto ad andare incontro alla malattia e prevenire l’internamento in manicomio, l’igiene mentale, che i Italia ebbe uno sviluppo modesto, ma molto più importante in altri Paesi. Ci sono però altri quattro fatti da registrare nei primi decenni del ‘900, importanti perché incontreremo le loro conseguenze nella nostra III lezione:
– La nascita della psicoanalisi, ad opera di Sigmund Freud, con la pubblicazione nell’anno 1900 del volume «L’interpretazione dei sogni»
– La rivisitazione del concetto di schizofrenia rispetto all’originale descrizione di Emil Kraepelin da parte di Eugen Bleuler nel 1911
– La rifondazione della psicopatologia e lo spostamento dell’attenzione dalla ricerca dei segni all’ascolto dei vissuti del malato con la pubblicazione nel 1913 del volume «Psicopatologia generale» ad opera di Karl Jaspers
– L’introduzione delle terapie di shock negli anni trenta, con le quali si intendeva curare la malattia mentale sottoponendo il malato a un forte shock fisico, e in particolare nel 1938 quella dell’elettroshock da parte di Ugo Cerletti, che oggi è poco utilizzato in Italia, ma ha ancora una certa diffusione nel resto del mondo.
Dopo la prima guerra mondiale le idee eugenetiche ripresero a circolare; la sterilizzazione obbligatoria dei disabili era già stata adottata in alcuni Stati degli USA prima della guerra e si diffuse. Nel 1920 uno psichiatra e un giurista tedeschi affrontarono in un libro la questione se le vite “prive di valore”, cioè quelle delle persone considerate improduttive e incurabili tra le quali rientravano molti malati di mente, potessero essere soppresse, dando una risposta positiva. Nel 1923, Enrico Morselli, professore di psichiatria a Genova e presidente della Società Italiana di Psichiatria, polemizzò con questa tesi, sollevando una serie di obiezioni di carattere prevalentemente morale, che contribuirono a mantenere negli anni successivi il mondo psichiatrico italiano contrario ai provvedimenti dell’eugenetica radicale. In questo modo quella generazione di psichiatri italiani che aderì in massa, con poche meritevoli eccezioni, al fascismo, e che aderì al Manifesto degli scienziati razzisti nel 1938, si oppose però ai crimini più gravi compiuti in quegli anni contro i malati di mente. Non fu così però per altri Paesi, come gli USA. Nella Germania nazista poi, poco prima dell’inizio seconda guerra mondiale, Hitler decise di autorizzare con un ordine segreto, Aktion T4, la soppressione delle «vite prive di valore» (esiste, se avete l’opportunità di vederlo, uno spettacolo molto emozionante di Marco Paolini sul tema: Ausmerzen, che qualche tempo fa è stato trasmesso in telvisione). L’operazione Aktion T4 ordinata da Hitler nell’ottobre 1939, che portò alla sperimentazione della camera a gas e allo sterminio di oltre 70.000 disabili. Altre decine di migliaia di internati nei manicomi furono sterminati dai nazisti in Germania dopo la fine di questa operazione, e altre durante l’occupazione nazista dell’Unione Sovietica. A questi fatti le Società tedesca e italiana di Psichiatria hanno dedicato recentemente una mostra, che ha girato per molte città in Italia e nel mondo
La sterilizzazione obbligatoria degli individui considerati disgenici (che cioè avrebbero potuto trasmettere alla prole i caratteri che si ritenevano alla base della disabilità, della malattia mentale, della criminalità o dell’alcoolismo), iniziò a essere praticata negli USA nel 1899 e si stima abbia interessato lì circa 65.000 persone. Fu adottata anche in Canada, Svizzera, Danimarca, Svezia, Norvegia, Finlandia, Giappone dove interessò altre migliaia di persone. In Germania fu uno dei primi provvedimenti adottati dal nazismo già nel 1933 e si stima che abbia interessato oltre 400.000 persone. Qui di seguito la lettera drammatica di una madre a Hitler perché sua figlia fosse dispensata dalla sterilizzazione obbligatoria, che non ottenne mai nessuna risposta:
«Mia figlia considera la sterilizzazione un trattamento umiliante e si sentirà una cittadina di seconda classe espulsa dalla società. Preferirebbe morire che fare esperienza di una tale umiliazione. (…) E’ disponibile a accettare ogni altra misura preventiva protettiva da una discendenza indesiderata. Il 14 novembre 1935 ha ricevuto una lettera dal nostro ufficio sanitario che prescrive la sterilizzazione. Il 18 novembre 1935 mi sono rivolta all’ufficio sanitario chiedendo di rimandare l’intervento ma la mia istanza è stata respinta e le è stato detto di presentarsi senza indugio, oppure sarà portata là sotto scorta della polizia. Preoccupata per la sua vita e la sua salute mi rivolgo a voi come la nostra ultima risorsa, mein Furher!».
Dorothea Sophie Back- Zechlin fu una delle vittime della sterilizzazione obbligatoria operata dal nazismo, poi negli ultimi anni è stata uno dei leader mondiale delle associazioni di pazienti psichiatrici.
Nonostante l’ordine dell’Aktion T4 fosse segreto, le numerose sparizioni dai manicomi e dalle cliniche furono notate, e cominciarono a piovere critiche. Tra gli altri Clemens August Graaf von Galen, arcivescovo di Muntzen, il quale dedicò ad esse tre prediche che respingono la soppressione delle «vite prive di valore» facendo sentire che il malato di mente e il disabile sono persone come tutte, sono tra i documenti più belli, io credo, della storia della psichiatria. Ecco un estratto:
«A quanto mi si dice, dalla casa di cura e dal manicomio di Warstein sono state portate via già cento persone. Così dobbiamo presumere che i poveri pazienti privi di aiuto prima o poi saranno uccisi (…). Perché, nell'opinione di qualche dipartimento, sul parere di qualche commissione, sono divenuti "vite senza valore", perché, secondo questa perizia, sono “connazionali improduttivi". Si giudica: non possono produrre più, sono come una vecchia macchina che non funziona più, sono come un vecchio cavallo che è divenuto inguaribilmente zoppo, sono come una mucca che non dà più latte. E cosa si fa cosa con quella vecchia macchina? È demolita. Cosa si fa cosa con un cavallo zoppo, con una mucca improduttiva? No, io non voglio continuare il paragone fino alla fine – perché sono terribili la sua pertinenza e la sua forza illuminante (…). Qui si tratta di esseri umani, i nostri consimili, nostri fratelli e sorelle. Povere persone ammalate, se vi piace, anche improduttive! Ma non meritano per questo di essere uccisi. Avete, ho il diritto di vivere solamente finché siamo produttivi, finché siamo riconosciuti da altri come produttivi? Se si ammette il principio, ora applicato, che l’uomo “improduttivo” può essere ucciso, guai per tutti noi quando diverremo vecchi e decrepiti! Se è permesso uccidere le persone improduttive, guai per coloro che sono invalidi perché hanno sacrificato e hanno perso le loro ossa sane nel processo produttivo. Se è permesso sopprimere un connazionale improduttivo, guai per i nostri bravi soldati che ritornano in patria seriamente invalidi e mutilati. Se si arriverà ad ammettere che delle persone hanno diritto di uccidere dei consimili “improduttivi” – anche se ora ciò colpisce solamente poveri malati di mente senza difesa – poi per principio sarà permesso l’assassinio di tutte le persone improduttive, in altre parole i malati incurabili, gli invalidi di lavoro e di guerra, e noi tutti quando diveniamo vecchi, decrepiti e perciò improduttivi. È solo necessario ordinare con un decreto segreto che la procedura sviluppata per i malati di mente sia estesa ad altre persone “improduttive” (…). Poi, nessuno è più sicuro della propria vita. Qualunque commissione potrà includerlo nell'elenco degli “improduttivi”, che nella loro opinione sono divenuti vite prive di valore» Clemens von Galen, 3 agosto 1941.
Nel video allegato, Ausmertzen. Vite indegne di essere vissute di Marco Paolini
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