Due ore e mezzo di film si reggono se il film è fatto bene. The Fabelmans indubbiamente lo è, tanto da essere già stato proclamato il film dell’anno, con relative candidature agli Oscar. La verità è che le due ore e mezza scorrono piacevolmente e velocemente, ed alla fine ho sentito anche qualcuno esprimere sconforto per la comparsa della parola fine sullo schermo.
Gli aspetti formali del film sono ineccepibili, vale a dire la bravura registica di Spielberg nel non lasciare mai tempi morti, la fotografia un po’ fredda che rimanda ai colori netti degli anni ’50, e la musica del maestro John Williams, il compositore cinematografico più famoso degli Stati Uniti. Ciò che avvince è comunque la storia, di per sé piuttosto semplice, ma densa del pathos (qualcuno ha anche parlato di indulgenza) che Spielberg ha voluto dare ad una vicenda sostanzialmente personale.
La storia è quella di una crescita del bambino Sam fino all’adolescenza all'interno di un ambiente ebraico dove le regole erano indicate da un padre comunque affettuoso, ma vi era anche tanta libertà legata alla sensibilità ed al carattere estroverso della madre (una splendida Michelle Williams). L’antisemitismo è un altro riferimento importante, con la necessità di farsi valere a dispetto dell’ostilità ricevuta dall’ambiente circostante.
Ma evidentemente il fulcro del film è la celebrazione del cinema, a partire dalla passione che il giovane Sam-Spielberg trasmetteva agli altri. Le diverse valenze che il cinema possiede sono espresse attraverso il rapporto (e a volte lo scontro) con la realtà della vita. C’è ad esempio il bel ragazzone americano, bullo e conquistatore di cuori che, quando si vede rappresentato sullo schermo esattamente come egli è, non si riconosce e si arrabbia con Sam perché lo ha filmato così, rivelando come l’immagine con cui appare dall'esterno non è quella che ha di sé. C'è poi il cinema che ci fa vedere cose che l'occhio umano non aveva visto, specificamente alcuni comportamenti della madre, così che la celluloide finisce per mettere a nudo sentimenti che si volevano nascosti. E d’altra parte il cinema rappresenta anche il mezzo di riscatto di Sam, strumento attraverso il quale si attiva la sua capacità inventiva e la possibilità di essere considerato ed anche ammirato e corteggiato.
Ma mi piace vedere questo film anche attraverso l’interpretazione di due momenti, iniziale e finale, che racchiudono il film. L’inizio è quello di uno shock dovuto alla visione di un film (non poteva mancare una citazione cinematografica): Sam a sei anni viene portato dai genitori a vedere il famoso film “Il più grande spettacolo del mondo”, diretto nel 1952 da Cecil B. DeMille, dove in una scena appare il disastroso scontro tra due treni e la macchina che si era frapposta tra di essi. Sam rimane traumatizzato dall’evento e lo riproduce continuamente a casa con i trenini che suo padre gli ha regalato.
La madre risolve la situazione capendo che la ripetizione ossessiva dell’incidente ha per Sam la finalità di poter arrivare a padroneggiare ciò che ha visto. Regala perciò a Sam una telecamera con cui filma la scena e può poi rivederla più volte fino a tranquillizzarsi. Sarà quella la prima di tante telecamere che lo porteranno a fare il regista.
La fine del film avviene invece con l’incontro tra Sam e il grande e scorbutico regista John Ford (interpretato da David Lynch). Anche qui c’è la soluzione di un problema di Sam, del quale ci ha parlato lui stesso qualche scena prima: sta facendo una cosa che gli piace molto, fare il regista, ma ha la testa confusa e non sa cosa vuole in realtà. Non rivelerò cosa gli dice esattamente John Ford per non rovinare il piacere a chi deve ancora vedere il film, ma sostanzialmente il messaggio è di rappresentare scene guardando al mondo da una nuova prospettiva. L’insegnamento è allo stesso tempo un consiglio tecnico su come fare un film, ma anche sottilmente l’invito a proseguire una strada condotta dalla passione, essendo originali rispetto agli schemi proposti da altri. Dopo questo incontro Sam sembra liberarsi di tutti i suoi dubbi, si sente autorizzato a proseguire e si avvia verso quella carriera che gli porterà così tanto successo.
Vi sono molti altri elementi di riflessione nelle tante scene di questo intenso film, ma soffermandosi in particolare su questi due momenti fondamentali della vita di Sam, uno spunto da cogliere è che la vita è raramente lineare, mentre più spesso è fatta di blocchi o rallentamenti della crescita a causa di grovigli interni, a cui seguono nel migliore dei casi riprese del cammino grazie allo scioglimento o allentamento dei nodi accumulati. Come questo avvenga, per capacità propria od altrui, fortuna od occasione, in fondo è relativamente importante, ma certo bisogna essere capaci e pronti a recepire positivamente i messaggi ricevuti, e questo più frequentemente avviene quando i legami affettivi all’interno della famiglia hanno creato sicurezza. Non certamente a caso Spielberg ha voluto con gratitudine rendere un omaggio affettuoso ai suoi genitori. E questo messaggio nostalgico e consolatorio arriva diretto allo spettatore, rendendo questo film così speciale.
Gli aspetti formali del film sono ineccepibili, vale a dire la bravura registica di Spielberg nel non lasciare mai tempi morti, la fotografia un po’ fredda che rimanda ai colori netti degli anni ’50, e la musica del maestro John Williams, il compositore cinematografico più famoso degli Stati Uniti. Ciò che avvince è comunque la storia, di per sé piuttosto semplice, ma densa del pathos (qualcuno ha anche parlato di indulgenza) che Spielberg ha voluto dare ad una vicenda sostanzialmente personale.
La storia è quella di una crescita del bambino Sam fino all’adolescenza all'interno di un ambiente ebraico dove le regole erano indicate da un padre comunque affettuoso, ma vi era anche tanta libertà legata alla sensibilità ed al carattere estroverso della madre (una splendida Michelle Williams). L’antisemitismo è un altro riferimento importante, con la necessità di farsi valere a dispetto dell’ostilità ricevuta dall’ambiente circostante.
Ma evidentemente il fulcro del film è la celebrazione del cinema, a partire dalla passione che il giovane Sam-Spielberg trasmetteva agli altri. Le diverse valenze che il cinema possiede sono espresse attraverso il rapporto (e a volte lo scontro) con la realtà della vita. C’è ad esempio il bel ragazzone americano, bullo e conquistatore di cuori che, quando si vede rappresentato sullo schermo esattamente come egli è, non si riconosce e si arrabbia con Sam perché lo ha filmato così, rivelando come l’immagine con cui appare dall'esterno non è quella che ha di sé. C'è poi il cinema che ci fa vedere cose che l'occhio umano non aveva visto, specificamente alcuni comportamenti della madre, così che la celluloide finisce per mettere a nudo sentimenti che si volevano nascosti. E d’altra parte il cinema rappresenta anche il mezzo di riscatto di Sam, strumento attraverso il quale si attiva la sua capacità inventiva e la possibilità di essere considerato ed anche ammirato e corteggiato.
Ma mi piace vedere questo film anche attraverso l’interpretazione di due momenti, iniziale e finale, che racchiudono il film. L’inizio è quello di uno shock dovuto alla visione di un film (non poteva mancare una citazione cinematografica): Sam a sei anni viene portato dai genitori a vedere il famoso film “Il più grande spettacolo del mondo”, diretto nel 1952 da Cecil B. DeMille, dove in una scena appare il disastroso scontro tra due treni e la macchina che si era frapposta tra di essi. Sam rimane traumatizzato dall’evento e lo riproduce continuamente a casa con i trenini che suo padre gli ha regalato.
La madre risolve la situazione capendo che la ripetizione ossessiva dell’incidente ha per Sam la finalità di poter arrivare a padroneggiare ciò che ha visto. Regala perciò a Sam una telecamera con cui filma la scena e può poi rivederla più volte fino a tranquillizzarsi. Sarà quella la prima di tante telecamere che lo porteranno a fare il regista.
La fine del film avviene invece con l’incontro tra Sam e il grande e scorbutico regista John Ford (interpretato da David Lynch). Anche qui c’è la soluzione di un problema di Sam, del quale ci ha parlato lui stesso qualche scena prima: sta facendo una cosa che gli piace molto, fare il regista, ma ha la testa confusa e non sa cosa vuole in realtà. Non rivelerò cosa gli dice esattamente John Ford per non rovinare il piacere a chi deve ancora vedere il film, ma sostanzialmente il messaggio è di rappresentare scene guardando al mondo da una nuova prospettiva. L’insegnamento è allo stesso tempo un consiglio tecnico su come fare un film, ma anche sottilmente l’invito a proseguire una strada condotta dalla passione, essendo originali rispetto agli schemi proposti da altri. Dopo questo incontro Sam sembra liberarsi di tutti i suoi dubbi, si sente autorizzato a proseguire e si avvia verso quella carriera che gli porterà così tanto successo.
Vi sono molti altri elementi di riflessione nelle tante scene di questo intenso film, ma soffermandosi in particolare su questi due momenti fondamentali della vita di Sam, uno spunto da cogliere è che la vita è raramente lineare, mentre più spesso è fatta di blocchi o rallentamenti della crescita a causa di grovigli interni, a cui seguono nel migliore dei casi riprese del cammino grazie allo scioglimento o allentamento dei nodi accumulati. Come questo avvenga, per capacità propria od altrui, fortuna od occasione, in fondo è relativamente importante, ma certo bisogna essere capaci e pronti a recepire positivamente i messaggi ricevuti, e questo più frequentemente avviene quando i legami affettivi all’interno della famiglia hanno creato sicurezza. Non certamente a caso Spielberg ha voluto con gratitudine rendere un omaggio affettuoso ai suoi genitori. E questo messaggio nostalgico e consolatorio arriva diretto allo spettatore, rendendo questo film così speciale.
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