L’arrivo del web ha reso la vita umana più interconnessa, più trasparente, più sovraesposta e di conseguenza più paranoidea. Nonostante il titolo del presente lavoro possa alludere all’inaffidabilità dei nuovi media, non mi iscrivo certo tra le schiere degli apocalittici, di coloro che disprezzano questa mutazione umana a causa di questo ultimo “effetto collaterale”, le conseguenze paranoidee del web appunto, ma vorrei mantenermi sul piano del comprendere prima che del giudicare.[1]
Intendiamoci, chiunque è libero di non comparire sul web, di non lasciare tracce o se vogliamo anche di scomparire e disperdere le proprie tracce qualora già comparso, suo malgrado o meno. Si è liberi di non acquistare mai un computer, uno smartphone o un tablet, di non stipulare alcun contratto con aziende telefoniche per ottenere mai una connessione wifi o altro tipo di collegamento. Si è liberi, insomma, di non esistere e di rimanere anonimi e opachi per il mondo del web.
La libertà di autodeterminazione deve, ancora oggi, poter essere considerata una prerogativa dell’uomo, seppur solo teorica, nonostante l’iperconnettività di questa parte ricca del pianeta, nonostante le regole implicite che governano l’infosfera che vorrebbero rendere tutto e tutti ubiquitariamente trasparenti senza possibilità di divieti di accesso né dal basso né dall’alto.
Ma chi abita la rete è viceversa destinato ad illudersi della propria opacità e della propria irrintracciabilità ancora per poco. A lungo andare giocare a nascondino abitando con continuità la rete è praticamente impossibile.
Siamo lontani dall’esilarante caso, collocato però in epoca televisiva e ancora pre-internet, di Chance Giardiniere, il surreale personaggio del film Oltre il giardino, il quale, per una serie di fortuite ragioni, era rimasto del tutto isolato dal mondo reale e rinchiuso tutta la vita in una casa padronale nella quale faceva il giardiniere. L’unico suo contatto con il mondo esterno era la TV di cui usufruiva ininterrottamente e compulsivamente in ogni momento della giornata ed in ogni stanza della grande casa.
Morto il padrone, Chance è costretto ad uscire suo malgrado di casa e, a seguito di alcune rocambolesche vicende, si ritrova a diventare, grazie all’inconsapevole uso sibillino del linguaggio televisivo di cui era infarcito, un influente e ascoltato consigliere del presidente degli Stati Uniti. In realtà era solo una persona deprivata, un fatuo idiota adattato al linguaggio piatto e ripetitivo della TV. Ma quando il presidente incarica i servizi segreti di indagare sulla sua vita, nulla essi riescono a scoprire di lui: nessun passato, nessuna carta di credito, nessun conto, nessuna carta di identità, nessun parente, nessun amico, i suoi vestiti erano vecchi e costosi regali del padrone, era comparso in quella casa dal nulla. Nessuna traccia, nulla che facesse comprendere da quale passato provenisse costui, presumibile che fosse dunque un vero genio rimasto nascosto allo sguardo del sistema. Ma se sfuggi all’occhio lungo del sistema mediatico o sei un genio o sei un emarginato totale. Naturalmente nessuno aveva immaginato che Chance fosse un idiota. L’importante – si svelerà nel finale del film – era che egli si prestasse ad essere un utile idiota.
La storia di Chance Giardiniere ci suggerisce che il rapporto con i media pervasivi non possa essere “intermedio”, o si è dei geni conoscitori dei trucchi più fini per sfuggire al controllo o si deve essere degli idioti mai comparsi, o più probabilmente dei comunissimi utili idioti.
Essere dei comuni e utili idioti nel web è esperienza di massa e non è esperienza che oggi debba suscitare scandalo o scalpore e nemmeno riprovazione morale, è semplicemente ciò che ci è dovuto in un mondo che necessita della nostra intima collaborazione per condividere nostre informazioni sensibili per affinare i consigli per gli acquisti verso di noi. Le innumerevoli novità relazionali, identitarie, sociali e politiche che il web ha introdotto e continua ad introdurre con tutte le innovazioni tecniche che si affastellano in pochi anni, sono ancora molto al di là dell’essere esplorate, specie riguardo le ricadute sulla mente e sulla tipologia umana contemporanee.
Prendiamo in considerazione, ad esempio, la rivoluzione che ha comportato Facebook nella vita di tutti i giorni, tra le persone e, in particolare, nella sfera sentimentale, affettiva, amicale.
Facebook è il social network che per le sue caratteristiche di sintesi (immagini, chat, video, scrittura, lettura, diario di vita, memoria recente e remota sempre disponibile, interconnettività estrema col resto del web) compendia e supera, al momento, tutti gli altri social network e quindi lo utilizzo qui come attuale piattaforma mutagena dalla quale muovere una riflessione.
Si pensi ad esempio alla possibilità che esiste tra due contatti che non abbiano messo particolari vincoli di riservatezza:
- di controllare presenza online dell’altro, anche con quale dispositivo tecnico, quindi anche sapere presumibilmente se l’altro è in casa sul pc o è sullo smartphone,
- di controllare l’attività attuale (e pregressa prossima) tramite il flusso di news
- di verificare se e quando l’altro legge i messaggi da te inviati sulla chat privata
- di monitorare, attraverso l’attivazione delle notifiche, i movimenti e i commenti di qualunque post
- di controllare la frequenza di “like” di qualcuno sulle bacheche altrui, o degli altri sulla bacheca di qualcuno
- di controllare persino gli amici degli amici che non sono diretti contatti che non abbiano impostato particolari restrizioni di privacy
- di esplorare a fondo nelle bacheche altrui foto, preferenze, attitudini, cambiamenti significativi di umore, di emozioni
- di esplorare nelle bacheche altrui settimane, mesi ed anni precedenti della vita di qualcuno attraverso, post, foto, discussioni, commenti, like, etc.
- di sapere a volte con molta precisione cosa fa e dove si trova una persona (in alcuni casi anche cosa mangia)
- di verificare l’arrivo di nuovi contatti o, facendo semplici incroci, di verificare la fine di un contatto altrui
- di sapere talora, se segnalata, la geolocalizzazione precisa della persona dalla quale scrive il proprio post
- etc.
S’immagini dunque cosa comporti questa enorme e dettagliata massa di informazioni quotidiane, niente affatto neutrali, solo pochi anni fa inaccessibile, nella vita, ad esempio, di due amanti/fidanzati recenti o datati, di due ex amanti/compagni/coniugi, o di due aspiranti amanti. Un flusso di informazioni che spesso genera preoccupazioni, sospetti, ansie, se non proprio ossessioni e paranoie conclamate.
Nella mia pratica clinica più e più volte mi è capitato di incontrare pazienti che vivevano il loro abitare Facebook con una quota di angoscia anche piuttosto significativa, qualcuno passava gran parte del suo tempo a controllare la bacheca e le attività del/la suo/a ex a curiosare chi mette i “like” sui post, chi e cosa si commenta, qualcuno che aveva deciso per lo stesso motivo di cancellarsi, salvo poi ritornarvi e fare capolino, qualcun altro che attendeva anelante responsi e risposte dal proprio amato o ex amato, qualcun altro ancora che inseguiva interminabili chat o discussioni accese con un eccessivo sentimento di tragicità. Ciò che si dice e che avviene in chat viene di fatto assimilato e scambiato con una conversazione reale e si perde di vista l’aspetto virtuale e soprattutto autoreferenziale dovuto alla mancanza di un corpo e di un’alterità incarnata.
La pensa allo stesso modo il filosofo coreano, ma di cultura europea, studioso della contemporaneità, Byung-Chul Han quando afferma nel suo La Società della Trasparenza[2] che
“La massa di informazioni e di immagini è un accumulo nel quale si rende percepibile il vuoto. Un semplice aumento di informazioni e di comunicazione (e Facebook ne è l’artefice principale, ndr) non rischiara il mondo. Neppure l’evidenza agisce rischiarando. La massa di informazioni non produce alcune verità. Più informazioni vengono liberate, meno intellegibile diviene il mondo. L’iper-informazione e l’iper-comunicazione non gettano alcuna luce nella tenebra”
La quantità di informazioni, decisamente eccessiva, che finisce per simulare la realtà, cambia dunque le carte in tavola, gli individui finiscono talvolta per confondere i contesti e estendere ed applicare le regole di un contesto ad un altro. Ciò che accade nella vita reale, negli incontri reali, con tutto il corredo di comunicazione non verbale, corporea, sensoriale, può venire quindi erroneamente trasposto, o per meglio dire, rigidamente traslato, nella realtà di una conversazione o di una situazione relazionale su Facebook, dove lo scambio in chat o uno scambio di commenti su un post diventano più reali della realtà in quanto i processi di verifica attingono a criteri autoreferenziali e talvolta autosuggestivi, .
“Il medium digitale porta alla progressiva scomparsa della controparte reale, la percepisce come un ostacolo. In questo modo la comunicazione digitale diviene sempre più priva di corpo e di volto […] dischiude uno spazio narcisistico, una sfera dell’Immaginario nella quale rinchiudermi. Attraverso lo smartphone non parla l’Altro”.
Han ha dedicato molto spazio della sua recente ricerca agli aspetti mutageni dei nuovi media e alle ricedute sulla vita umana e sociale e anche mentale. Dopo la Società della Trasparenza, Han dedica altri due testi organici all’homo digitalis, Nello Sciame. Visioni del digitale[3], e Psicopolitica[4] (non ancora tradotto in italiano).
Facebook è diventato in pochi anni dal suo avvento una protesi identitaria insostituibile, esistere e agire su Facebook ha assunto quel carattere di doverosità e urgenza che solo l’appartenenza a gruppi sociali reali possiede.
Informare il proprio mondo sociale su Facebook di come stai, cosa fai, cosa pensi di questo o di quello, di che umore sei, e così via, per moltissimi utenti è diventato altrettanto doveroso quanto telefonare alla propria mamma o al proprio fidanzato.
La differenza però è che queste comunicazioni private-personali che prima non oltrepassavano il confine del famigliare o del ristretto network amicale, oggi sono estese a gruppalità molto più vaste, anche dell’ordine delle migliaia di persone. Per fare un parallelismo storico, è come se in un paese di 3-4000 persone del secolo scorso fossero esistiti più luoghi pubblici accessibili a tutti dove ognuno avesse potuto affiggere di continuo manifesti di ogni tipo nei quali avesse potuto descrivere il proprio stato d’animo o il proprio pensiero di quel preciso momento. Probabile che una cosa del genere un tempo non tanto remoto (solo fino a 15 anni fa) non sarebbe mai potuta accadere.
In buona sostanza molto (non tutto) di ciò che fino a pochi anni fa atteneva al privato-personale oggi si è esteso al piano del privato-socializzabile. Una delle tante rivoluzioni silenziose del web nella nostra vita.
Le domande che ci facciamo oggi sono dunque le seguenti: come mai oggi tutto ciò, dopo solo un decennio di “coltivazione web”, è diventato più naturale di bere un bicchiere d’acqua?
Facebook ha scoperto un bisogno sopito dell’uomo di comunicare e mostrarsi? Lo ha reso pensabile e possibile? Lo ha costruito e indotto? Lo ha artatamente gonfiato?
Ma se sul piano dell’identità individuale la protesi estensiva identitaria di Facebook rappresenta un nuovo dispositivo esistenziale che descrive un nuovo assetto sulla privatezza ed un nuovo rapporto individuo-sociale, anche sul piano dell’identità collettiva, Facebook istituisce nuove forme identitarie, che però risultano molto distanti da quelle descritte da Gustave Le Bon un secolo prima, laddove l’aggregato sociale “folla”, massa, seguiva un agire collettivo orientato, seppure irrazionalmente, seppure secondo “condensati”.
Secondo Byung-Chul Han l’aggregazione sociale che si forma su Facebook è di tipo “sciamante”, segue cioè forme occasionali e temporanee e non riesce mai a strutturarsi in una vera e propria “moltitudine” stabile, politicamente significativa. Segue piuttosto onde emotive, sensoriali, sentimentali particolarmente effimere e estemporanee tali da risultare politicamente irrilevanti e particolarmente manipolabili. Nessuna vera rivoluzione è prevista grazie a Facebook anche se molte onde sciamanti che risentono dei cambiamenti sociali passano ineludibilmente da qui inducendo l’illusione che la cassa di risonanza, quella sì enorme, prodotta da Facebook costituisca di per sé strumento di cambiamento efficiente.
Han sostiene che l’homo digitalis, piegato inconsapevolmente dalle ferree leggi psicopolitiche dei big data, è diventato atrofizzato anche nel suo modo di giocare ed agire sul web, un gioco ed un agire che lo alienano dalla consapevolezza del proprio essere strumentalizzato da una sorta di idealizzazione antropologica della propria nuova frontiera creativa rappresentata dall’allargamento della coscienza e delle possibilità tecniche e sociali del web.
La dispercezione euforica costituita da questa dilatazione dell’esperienza umana lascia sullo sfondo al momento il reale controllo mentale costituito dalla manipolazione attiva dei big data, laddove sono il nostro mondo emotivo, impulsivo, sensoriale ciò che interessa maggiormente a chi vuole piazzarci l’ultimo modello di led tv o l’ultimo last minute per Berlino.
Dice Han in un’intervista comparsa su Repubblica[5]:
“Il potere alla base del neoliberismo non è repressivo, ma ammaliante. E soprattutto, a differenza del passato, invisibile. Quindi non c'è un nemico concreto che limita la nostra libertà. Le figure di lavoratore sfruttato e libero imprenditore spesso coincidono. Ognuno è padrone e servo di se stesso. Anche la lotta di classe è diventata una lotta contro se stessi. Il neoliberismo fa sì che la libertà si esaurisca da sola: la società della prestazione prepone la produttività alla repressione proprio grazie a un eccesso di libertà, che viene sfruttata in tutte le sue forme ed espressioni, dalle emozioni alla comunicazione. Oggi la libertà è una costrizione. Il compito del futuro sarà proprio quello di trovare una nuova libertà”.
Controllabilità, prevedibilità e manipolatività ammaliante, una sorta di compiacente alienazione, sono i nuovi paradigmi della nuova forma di esistenza digitale in questa nuova fase del neoliberismo.
Seguendo il pensiero del filosofo tedesco-coreano nelle sue grandi linee, dapprima abbiamo reso fruibile, massiccia e trasparente l’informazione e la comunicazione; dopodiché abbiamo reso il web il luogo dello sciame danzante e giocoso, ma di un tipo di gioco solo apparentemente libero e creativo; ed infine abbiamo spostato sul mentale il controllo delle masse e del loro comportamento politico-economico grazie alla nuova frontiera dei big data.
Ma torniamo alla coppia di amanti, o coniugi, o aspiranti amanti che avevamo lasciato prima alle prese con i like, con l’orario di collegamento e con le geolocalizzazioni del proprio amato-controllato.
Se devo immaginare, da clinico, e quindi da lettore di senso, a quale economia del mentale serva questo gigantesco apparato difensivo in una qualunque relazione, specie se amorosa e sentimentale, non posso non pensare che una persona che utilizzi gran parte delle sue energie psichiche e talora del suo tempo a monitorare pagine Facebook, stia dirottando sciaguratamente la propria libido in direzioni contrarie al cambiamento, alla consapevolezza, alla creatività, alla genitalità.
Tale marchiana perdita del proprio tempo a chi giova?
Certo, forse giova a qualcuno nel prendersi il tempo di realizzare, in certe particolari fasi della propria vita, alcuni passaggi interiori, alcuni cambiamenti difficili e laboriosi. Perdere tempo su Facebook diventa perciò come temporeggiare, come sfuggire strategicamente all’appuntamento con se stessi e i propri desideri in attesa di tempi migliori.
Se però temporeggiare diventa l’unica forma di esercizio di libertà e modalità di esistenza rispetto ai propri sentimenti forse allora occorre farsi qualche domanda in più.
Occorre innanzitutto domandarsi come mai questa società fornisce a tutti a buon prezzo e così accessibile questo autosabotante lusso di ammalarsi di paranoie affettive o, meno gravemente, di fornire nutrimento ai propri timori emotivi.
Poi occorre domandarsi, sul piano del soggetto, quali siano gli appuntamenti mancati che il temporeggiare su Facebook o sul web in genere, colleziona. Osservando questi appuntamenti mancati (ferite affettive, compiti maturativi, integrazioni psichiche, revisioni interiori, etc.) forse cominceremmo ad avere una mappa precisa di cosa teniamo inconsciamente a distanza da noi allontanandoci dalla possibilità di salti evolutivi interiori e poi anche nelle nostre decisioni e scelte di vita migliorative.
L’avvento del web nelle nostre vite ci induce a ripensare l’idea stessa di libertà e del suo esercizio in forme che non siamo ancora abituati a immaginare.
Se esercitare la propria autodeterminazione, libertà e creatività consiste nel potere ampliare a dismisura il bacino di potenziali nostri fans o potenziali nostri compagni affettivi nella probabilistica speranza di imbroccare quello giusto, salvo poi indugiare all’infinito in innumerevoli, inutili, evitabili, tentativi intermedi, storie parallele et similia, allora il web non è altro che un raffinatissimo strumento di immobilismo, una protesi per perditempo elevata a potenza, a stile di vita.
Se invece l’esercizio della propria libertà e creatività passa dal web utilizzandolo con maggiore coscienza, maggiore corporeità e maggiore conoscenza, il controllo che il web fa inevitabilmente su di noi diminuisce verticalmente e in qualche momento s’inverte la gerarchia del controllo: siamo noi che usiamo il web e non viceversa.
Ma perché avvenga ciò è necessario sapere molto bene quali siano diventate le coordinate ecologiche in cui ci stiamo muovendo, occorre ciò un’opera di ri-soggettualizzazione che investa gli ambienti web e riformuli criticamente il rapporto individuo-social web in termini di conoscenza e scelta consapevole.
Attenta da gran tempo alle
Attenta da gran tempo alle modifiche / mutazioni che il web ha portato nel nostro vivere, ed inevitabilmente osservando anche le crescenti frequentazioni dei social network – facebook in primis – apprezzo e in buona parte condivido la prospettiva di questo articolo.
Come non essere d’accordo con D’Elia, quando evidenzia che la diffusa attitudine a cercare di “ampliare a dismisura il bacino di potenziali nostri fans o potenziali nostri compagni affettivi ..” non è esercizio di libertà e creatività.ma “strumento di immobilismo, una protesi per perditempo elevata a potenza”…? Lo sguardo dis-incantato diventa, così, capacità di critica e autocritica che ci giova: D’Elia sa scendere dalle speculazioni teoriche al territorio della prassi e ci dà indicazioni anche comportamentali per essere accorti nella fruizione del medium…. una piacevole rarità tra i tanti scritti che sorvolano dall’alto sul tema..
Dell’articolo, colgo ancora
Dell’articolo, colgo ancora uno spunto: “Se invece l’esercizio della propria libertà e creatività passa dal web utilizzandolo con maggiore coscienza, maggiore corporeità e maggiore conoscenza, il controllo che il web fa inevitabilmente su di noi diminuisce verticalmente e in qualche momento s’inverte la gerarchia del controllo: siamo noi che usiamo il web e non viceversa.” Credo che ci si possa muovere nel territorio del web, e nella fattispecie di facebook, senza necessariamente incorrere nel destino preconizzato da Byung-Chul Han, secondo il quale noi siamo inclusi nello ‘sciame’ di individui anonimi ed isolati, a rischio di essere travolti dalla ‘shitstorm’ (tempesta di escrementi) configurata dal proliferare di discussioni massive e fugaci attorno a disparate questioni di ordine pubblico…. Se ci troviamo su questa piattaforma possiamo proprio qui esercitare una azione di adeguato controllo, evitando di ricorrere alla droga dello ‘svago ‘light’ e non cadendo quindi nella dimensione di ‘addiction’.
Non credo che questo social network ci fagociti necessariamente.
Possiamo frequentarlo con adeguata cautela, consapevoli dei rischi e degli svantaggi ma cogliendone anche le opportunità.
Per contrastare la massificazione, il conformismo dilagante, nonchè la spasmodica ricerca del consenso che ci espone anche al rischio di essere spossessati della nostra privacy, ed alla fine della nostra libertà di scelta, noi possiamo decidere di usare il medium con senso della misura.
Un dosaggio che attiene sia al tempo di fruizione, sia alla quantità di informazioni fornite e recepite, sia alla nostra modalità interiore. Questa rubrica può essere già un esempio di fruizione ‘non drogata’….?