Non volevo scrivere di quest’anno perché non volevo scrivere della guerra. La guerra è sempre la stessa, da quella narrata da Omero a ogni altra: è distruzione, morte, sofferenza, dolore. Lo scriveva già Freud in Caducità: è il farsi cieca di ogni intelligenza. È propaganda, è menzogna. Lo abbiamo visto, per quello che ce l’hanno più o meno fatto vedere, in questi anni in Afghanistan, in Iraq, in Siria, in Libia, in Yemen, in Palestina. Tra le repubbliche nate dalla frammentazione dell’Unione Sovietica e della ex Yugoslavia; lo abbiamo visto in occasione della secessione del Kosovo dalla Serbia, in quella delle province orientali dall’Ucraina. Lo vediamo oggi nella guerra tra Russia e Ucraina, sostenuta e spinta dall’Occidente. La guerra è dolore. È effetti collaterali di palazzi e ospedali sventrati; donne, bambini, anziani e giovani, in armi spesso loro malgrado e senza convinzione, che muoiono. La guerra, è dolore: è fame, è miseria. La storia dell’Europa di un secolo fa avrebbe dovuto insegnarcelo (vai al link, vai al link, vai al link, vai al link). È un punto al quale ci si accorge sempre tardi, increduli, sgomenti che non si sarebbe dovuti arrrivare. Ma al quale l’uomo spesso fatalmente arriva, stupido come nei tempi antichi e solo reso più potente e più pericoloso dalla tecnologia. Ma oggi, che tutto parla di guerra, non volevo scrivere della guerra. Della guerra, c’è poco di originale da dire se non una grande tristezza: è la guerra.
Così va il mondo…
Male. Non credo che, fino all’anno scorso, avremmo pensato che dopo il tramonto delle ideologie l’Europa avrebbe ritrovato, su scala più ampia dopo la tragedia della ex Jugoslavia, la guerra – che vede di nuovo coinvolto in modo diretto o indiretto tutto il mondo – per i confini e per l’egemonia che porta indietro la storia di un secolo esatto. Si muore in Ucraina per il confine, come si moriva nella Grande Guerra. E questo bagno di sangue che era già iniziato come stillicidio dal 2014 e quest’anno è tracimato raggiungendo la dimensione della catastrofe della quale non si intravede la fine, non fa dimenticare gli altri conflitti che si trascinano da anni e proseguono, in qualche caso con la stessa intensità, in qualche altro più sottotraccia: l’oppressione in Palestina, Kurdistan, nel Sahara occidentale, e le guerre in Siria, Libia, Yemen tra altri luoghi. Tragedie alle quali si è aggiunta la feroce e insensata repressione interna scatenata dalla gerontoteocrazia iraniana. Né la guerra è, delle tre piaghe dalle quali l’uomo medioevale pregava Dio di liberarlo, la sola che funesta il nostro tempo: le nostre giornate continuano a essere complicate, come nei due anni precedenti, dalla pandemia, appena attutita nei suoi effetti nei nostri Paesi ricchi dalla disponibilità dei vaccini, ma comunque ancora presente come realtà incombente nella quotidinità e come minaccia, e in deflagrazione in altri luoghi come la Cina. Di essa e dei suoi effetti sul mondo della salute mentale ci siamo occupati in un volume collettaneo curato dall'associazione Effimera e con due colleghe su un numero monografico della rivista In circolo, entrambi disponibili open access.
Guerra e pandemia dovrebbero bastare a rendere le persone più sagge; invece la rapacità dei Paesi più ricchi continua ad acuire le disuguaglianze a livello globale e la spinta a sottrarsi a guerre e/o disuguaglianze continua a determinare intensi fenomeni migratori che il nord ricco del mondo s’impegna a respingere con politiche di una ferocia che, nei suoi effetti, ha poco da invidiare alla guerra (vai al link, vai al link, vai al link, vai al link, vai al link, vai al link).
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Così vanno i servizi…
Il 2022 ha visto due interessanti dibattiti, che vorrei qui segnalare, sullo stato e le prospettive dei servizi per la salute mentale in Italia. Uno di essi, ospitato dalla rivista open access Quotidiano Sanità, è stato lanciato da Ivan Cavicchi e ha visto 23 interventi eterogenei per stile e contenuti. Un altro ha avuto inizio sull’ultimo numero, uscito in questi giorni, della rivista Psicoterapia e scienze umane e proseguirà sui prossimi numeri. Altro materiale interessante è stato pubblicato su Pol. it, o sul sito del Forum per la Salute Mentale, su quello della SIEP, o è in corso di raccolta tra gli interventi presentati al congresso nazionale di ottobre della SIP per essere a disposizione.
Un lavorio, dunque, particolarmente ricco e intenso quest’anno come da tempo non si vedeva, che potrebbe avere esiti interessanti ma rischia però di essere vanificato da un fenomeno che desta allarme unanime, al quale nessun intevento di ordine qualitativo sembra poter porre rimedio. Ante vivere, deinde filosofare, ha scritto di recente Fabrizio Starace, e in effetti è la vita stessa dei servizi pubblici per la salute mentale a essere minacciata insieme al resto dell’assistenza sanitaria dalla tenaglia costituita dalla erosione progressiva delle risorse destinate alla sanità e dalla carenza di personale sanitario disponibile sul mercato del lavoro, medici e infermieri soprattutto. Si chiede sempre di più al sistema sanitario, si chiede sempre di più ai servizi per la salute mentale ma i livelli di organico ai quali molti servizi, soprattutto nelle zone periferiche delle regioni, sono costretti a lavorare – in una situazione nella quale sono ridotte anche le risorse dei Comuni contro la povertà e si studia di ridurre il reddito di cittadinanza – sono tali da non poter più essere ignorati e da necessitare di soluzioni urgenti, se non si vuole rinunciare alla conquista di civiltà di un sistema sanitario universalistico ed equo.
Ricorrenze
Nel 2022 sono stati celebrati cent’anni dalla morte di Giovani Verga e di Marcel Proust, quattrocento dalla nascita di Molière e cento da quella di Beppe Fenoglio e di Pier Paolo Pasolini. Almeno di lui vorrei ricordare, accanto all’ammirazione che almeno in un’occasione manifestò per il lavoro che stava facendo Franco Basaglia, due film ciascuno dei cui fotogrammi è il verso di una poesia: Il vangelo secondo Matteo (1964) e Uccellacci e uccellini (1966). Sono trascorsi cent’anni, anche, dalla marcia su Roma: su questa rubrica abbiamo raccontato quello che succedeva, in quei giorni, nel manicomio genovese di Prato Zanino, piccolo esempio di ciò che succedeva in tutta Italia (vai al link) e ricordarlo credo sia il modo migliore per non correre il rischio di dimenticare.
Ci hanno lasciato
Tra coloro che ci hanno lasciato quest’anno vorrei ricordare, con un criterio certo soggettivo, tre persone. Una è il professor Pier Maria Furlan, nato a Torino nel 1943 e figlio del giornalista Dino Segre (Pitigrilli), che è stato docente di psichiatria e preside della facoltà di medicina all’Università di Torino e primario del reparto di psichiatria all’ospedale San Luigi di Orbassano, dove ha lavorato al superamento dell’Ospedale Psichiatrico di Collegno e poi alla conservazione della sua memoria storica. È stato dirigente per molti anni della SIP e animatore delle Società di Psicoterapia Medica e di Psichiatria di Emergenza, convinto e fermo sostenitore della Legge 180 e di una psichiatria colta, che trovava nella psicoterapia il suo fondamento. Mi piace ricordare l’affetto e la stima che mi pare abbia nutrito per me fin dalle prime occasioni nelle quali ci siamo incontrati, quando ero ancora molto giovane.
Vorrei poi ricordare due protagonisati diversi della scena culturale genovese degli ultimi decenni. Il primo è il sociologo Alessandro Dal Lago (1947-2022), che dal 1996 al 2002 è stato Preside della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova, studioso di fenomeni che vanno dalle migrazioni, al tifo calcistico, al web, collaboratore di riviste come Alfabeta o Aut Aut. Ha curato e introdotto le traduzioni italiane di autori di riferimento come Georg Simmel, Hannah Arendt, Hans Jonas, Zygmunt Bauman e Michel Foucault. Ha scritto di lui Sandro Mezzadra, docente di filosofia politica a Bologna, a proposito della loro collaborazione a Genova: «Insieme abbiamo costruito percorsi di ricerca, sulle migrazioni e sulla globalizzazione. Erano gli anni dell’Associazione Città Aperta, alle cui attività Sandro ha partecipato con entusiasmo. Oggi lo ricordo per la sua intelligenza, per la sua spregiudicatezza e per un libro come “Non persone” (1999), che ha contributo ad aprire una nuova stagione negli studi critici sulle migrazioni in Italia». È proprio partendo da quel testo che abbiamo pubblicato nel 2003, con Luigi Ferrannini, sui “Fogli di informazione” diretti da Paolo Tranchina uno scritto che amo ancora molto: Psichiatria transculturale e psichiatria della non persona. E come “non persone” continuano, a vent’anni di distanza, a essere trattati, appunto anche nell’ultimo provvedimento legislativo di quest’anno, i migranti, quando muoiono in mare nel tentativo di raggiungere le nostre coste, o asfissiati dentro i container, assiderati nei boschi o le montagne sulle quali inseguono il miraggio d’Europa.
La terza persona che voglio ricordare è la regista e attrice teatrale Anna Solaro, morta quest’anno a 59 anni e animatrice insieme al compagno nella vita Mirco Bonomi del Teatro dell’ortica. Formatrice teatrale negli ambiti della marginalità e del disagio, ha portato per anni l’esperienza del fare teatro tra gli utenti dei servizi di salute mentale genovesi, i detenuti, le vittime di tratta. Piccola, caparbia, entusiasta e generosa, durante la malattia ha scelto di farsi accompagnare anche in quell’esperienza dagli amici su Facebook, con i quali ha voluto condividere giorno per giorno fino all’ultimo quelle emozioni, come tante altre che prima aveva condiviso con il suo pubblico dalla ribalta teatrale. Ha raccontato la sua esperienza nel teatro in due libri scritti entrambi con Mirco Bonomi, Il teatro di cura (Chimienti, 2009) e Stranità oltre il cortile: il teatro dell’esistenza (De Ferrari, 2018).
Ex libris…
Quest’anno ci ha già dato l’opportunità di soffermarci su numerosi libri, rimasti indietro dal 2021 o pubblicati nel 2022. Ricordo, tra gli altri, la ripubblicazione del volume Le passioni fragili di Eugenio Borgna (Feltrinelli, 2021, vai al link) o la pubblicazione da parte dello stesso autore de L’agonia dela psichiatria (Feltrinelli, 2022, vai al link), o quella di Contro tutti i muri. La vita e il pensiero di Franca Ongaro Basaglia di Annacarla Valeriano (Donzelli, 2022, vai al link), o Storie dal manicomio di Francesco Paolella (Clueb, 2022) che abbiamo recensito insieme a CIM. Cento imperfetti mondi di Giacinto Buscaglia e Franca Pezzoni (Albatros, 2022) (vai al link), o ancora Lo stigma dei disturbi mentali di Antonio Lasalvia (Alpes, 2022, vai al link), e i due volumi Bisognava provarci. Parma e la malattia mentale: dal manicomio ai servizi psichiatrici territoriali di Valerio Cervetti, Ilaria Gandolfi e Paola Gennari (Grafiche Step, 2019) e La relazione che cura. Le voci della salute mentale a Parma a cura di Donatella Carpanese e Laura Ugolotti (Grafiche Step, 2021) (vai al link). Un’attenzione particolare, poi, ho dedicato al mio Ritorno a Basaglia? La deistituzionalizzazione nella psichiatria di ogni giorno (ERGA, 2022, vai al link, vai al link, vai al link). In una recensione di testi letterari e saggi eterogenei di diversi autori, poi, abbiamo segnalato testi di Buscaglia e Schiavon, Boido, Cocuzza, Castello, Cecchinelli, Storace, Scarsi, Lunardelli, Sammarruco, Bequiri, A. Guarnieri, Ercolani e Frisa, Milone, Maiore Tamponi, D’Ari, Fiori (vai al link).
Avevamo concluso quella recensione con l’impegno a ritornare sui temi della psichiatria e della sua storia in un’occasione successiva, e manteniamo questo impegno con la segnalazione, in questo bilancio, di quattro libri usciti negli ultimi due anni e inerenti la psichiatria, la sua storia, i suoi intecci con altre discipline come la storia generale, la sociologia, la filosofia. Per altri due, relativi alla lotta antiistituzionale a Fermo e a Perugia, come di un testo di recente pubblicazione della SIRP edito da poco e destinato a diventare riferimanto per la riabilitazione psicosociale, contiamo di occuparcene nelle prossime occasioni.
Il primo di essi è il testo collettaneo Massa e crisi dell'appartenenza. A cento anni da Psicologia delle masse e analisi dell’Io, scritto in occasione del centenario della pubblicazione del noto saggio che Sigmund Freud ha dedicato alla psicologia sociale. Il volume, curato dallo psicologo Mauro Croce – che è anche autore dell’introduzione – ed edito da Durango edizioni nel 2021, raccoglie saggi dello psicoanalista marchigiano Rodolfo Rabboni (Il rapporto soggetto-gruppo nel teatro del virtuale); dello psicoanalista svizzero Mauro Pedroni (Lacrime di Batavia. Illusione e disillusione nella costruzione di ideali per vivere); delle psicologhe Patrizia Meringolo e Moira Chiodini (Passività della massa, pensiero critico collettivo); di Gerardo Favaretto, psichiatra già direttore del DSM di Treviso e vicepresidente della SIP (La mente social: fortune e ombre della psichiatria fra testa e cuore); Miguel Garrido Fernandez, psicologo spagnolo specializzato nella terapia famigliare (La massa indifferenziata dell’Io e la paura dell’indifferenzazione nelle masse da S. Freud a M. Bowen). Il libro, che affonda le radici negli studi di psicologia delle masse dell’ultimo secolo – con Le Bon, Freud, Bion e altri, tra i quali il “doppio nipote” di Freud, Edward Bernays, e le sue geniali e angoscianti intuizioni nel campo della pubblicità – si sofferma sulle diverse forme che la psicologia delle masse ha assunto nell’ultimo secolo, dalla Grande Guerra e la Rivoluzione d’Ottobre, eredità rispettivamente dei conflitti nazionalisti e di classe del secolo precedente, all’avvento del fascismo e del nazismo, alla società dei consumi, alle forme inevitabilmente nuove che la psicologia delle masse assume con la diffusione del media televisivo e poi dei nuovi media. I saggi che compongono il volume, tutti di grande interesse, non sono forse talora privi di qualche applicazione un po’ disinvolta e talora quasi ingenua, almeno per la mia sensibilità, della psicoanalisi alla storia, come mi pare rischi di fare il saggio, per altri aspetti interessante anch’esso, di Pedroni.
In altre occasioni paiono invece più rigorosi nello stigmatizzare tale atteggiamento, come fa Favaretto a proposito del processo Halsman (che mi ha fatto tornare alla mente il momento nel quale, raccogliendo il materiale per la tesi di specializzazione in Criminologia clinica, mi imbattei in una sentenza nella quale un tribunale aveva considerato una particolare accentuazione del “complesso edipico” come infermità di mente della quale tener conto). Più in generale, ho trovato molto apprezzabile, nel saggio di Favaretto – che è arricchito dalla segnalazione di un romanzo poco noto di Paolo Mantegazza, Testa, originariamente dall’autore come contrapposto al ben più noto deamicisiano Cuore – il fatto di avere individuato nell’atteggiamento del positivismo, in particolare italiano a partire senz’altro da Lombroso che pure non fu il solo, l’origine del rischio di divulgare come “scienza” banali insegnamenti su come vivere basati sul buon senso, per il solo fatto che chi li impartisse fosse, per professione, da considerare “uomo di scienza”. Credo che tutti abbiamo presente colleghi non alieni da questo equivoco, attivi già negli scorsi decenni sulla stampa, nella televisione o in internet, e Favaretto ne ritrova e documenta esempi anche nel mondo “social” di oggi. Questo sconfinamento dalla scienza al buon senso del quale Favaretto porta esempi, mi pare tanto più interessante perché credo che debba essere considerato speculare a uno opposto, per cui persone invece magari esperte del modo in cui si dovrebbe vivere, o che pretendono di essere tali e in qualche misura tali sono riconosciute dal pubblico, che sono però estranee al mondo della ricerca come possono essere giornalisti e politici, pretendono di interferire con il dibattito scientifico; e di questo la pandemia mi pare abbia fornito e continui a fornire non pochi esempi.
Un altro testo interessante dal punto di vista della storia della psichiatria mi è parso 7 aprile 1926. Attentato al Duce. Violet Gibson, capace di intendere e di volere?, curato dallo storico della psicologia Giovanni Pietro Lombardo, anche autore dell’introduzione, del terzo capitolo L’oscuro “segreto” di Violet Gibson nell’indagine di Sante de Sanctis e Augusto Giannelli. L’infermità di mente di Violet Gibson nella perizia psichiatrica e nella storiografia e, insieme allo storico del diritto Giovanni Tessitore, del quinto capitolo Capace di intendere e/o di volere? Indizi e congetture sull’attentato, oltre che della Nota archivistica che introduce la perizia redatta all’epoca da Augusto Giannelli, direttore del manicomio romano di Santa Maria della Pietà, e da Sante de Sanctis, docente di psicologia all’Università di Roma noto per la fervente adesione al fascismo. Arricchiscono il volume, edito da Fefé Edizioni nel 2021, i saggi di Tessitore, I quattro attentati che cambiarono l’Italia; quello della storica Gabriella Romano, Le parole di Violet; e quello dell’altra storica Rosanna De Longis, Il gesto di Violet Gibson sulla stampa. Il libro è interessante per la storia della psichiatria perché illustra attraverso il modo nel quale i periti hanno affrontato questo caso imbarazzante e le testimonianze della Gibson sulla sua esperienza d’internamento, la cultura psichiatrica e il manicomio dell’epoca.
Ma è anche interessante per la storia generale, perché punta i riflettori su quel 1926, “anno degli attentati”, nel quale la riuscita anche di uno solo di essi – quello di Tito Zaniboni e Luigi Capello, quello della Gibson appunto, quello di Gino Lucetti e quello di Anteo Zamboni – avrebbe forse potuto cambiare il corso degli eventi almeno per l’Italia, liberandola di una presenza che si sarebbe rivelata poi ancora più ingombrante, quella del duce. Come è noto invece tutti e quattro fallirono – il caso a volte pare mettercela tutta per fare andar male le cose – ed ebbero per effetto quello di giustificare il suo vittimismo ed essergli utili per accelerare l’evoluzione repressiva che il regime si era riproposto. Un’altra ragione d’interesse, poi, sta nel fatto che il libro propone indizi – che certo necessiterebbero di essere ulteriormente suffragati – che, se lo fossero, potrebbero permettere una lettura di qualcuno almeno di questi eventi come frutto non solo della follia o dell’esasperazione, e certo del coraggio, di singoli individui, ma come il risultato dell’attività organizzata e determinata di gruppi volta a chiuderla violentemente con il fascismo con vent’anni di anticipo, risparmiando così all’Italia (e non solo) tanti lutti, ingiustizie e rovine.
È stato poi pubblicato nel 2022 da Quodlibet il saggio Il caso clinico del viaggiatore sonnambulo, una raccolta di saggi scritti dallo psichiatra francese Philippe Tissié (1852-1935) negli ultimi decenni dell’Ottocento, curata dalla storica bolognese della psichiatria Valeria Paola Bambini, della quale abbiamo recentemente commentato su questa rubrica l’esordio nella narrativa con il libro Gli alberi già lo sanno (La Tartaruga, 2022, vai al link) e che con questo testo ritorna invece alla saggistica che in tante occasioni abbiamo avuto modo di apprezzare. Il libro ha per oggetto un caso clinico di osservazione di Tissié, quello appunto del viaggiatore sonnambulo Albert Dadas, rientrante per molti aspetti in quel fenomeno sorprendente e suggestivo che Achille-Louis Foville (1799-1878) aveva battezzato qualche anno prima degli aliénés voyageurs, ma non corrispondente del tutto ad essi. L’incontro tra lo psichiatra e il paziente avviene nel 1886, quando sono entrambi molto giovani, all’ospedale di Bordeaux. Da allora, fino alla morte, Albert continuerà a essere richiamato da un impulso irresistibile alla fuga che lo porterà a viaggiare per l’Europa e il Mediterraneo, toccando Mosca, Istambul, Algeri.
E Philippe non potrà fare a meno di ritornare a interrogarsi sul suo caso così particolare da continuare a incuriosire e affascinare anche oggi. Valeria Paola Babini, nel commentare gli articoli nei quali Tissié affronta questo caso clinico, li inquadra nel dibattito di quegli anni sul sogno, il sonambulismo, l’ipnosi, la suggestione, le personalità multiple e altri fenomeni che si verificano senza che la coscienza sia coinvolta. In un periodo, quindi, affascinante della psichiatria francese animato da nomi illustri come quelli di Baillarger, Régis, Azam, Charcot, Ribot, Janet, Maury e altri con loro. Il risultato è un libro che è insieme interessante sotto il profilo storico e scientifico e piacevole alla lettura, una combinazione che non è tanto frequente riscontrare.
A questi tre saggi che hanno a che fare prevalentemente con la storia vorrei farne seguire un altro, che ha più a che fare con la filosofia ed è Dialogo con l’insensato. Introduzione storica e clinica alla psicopatologia fenomenologica, pubblicato da Luciano Del Pistoia – autore originale, vivace e sempre rigoroso che può a buon titolo essere annoverato tra i maestri della psicopatologia fenomenologica italiana anche per il tocco di originalità che gli conferisce il rapporto fecondo con la psicopatologia francese, e con Georges Lanteri-Laura in particolare – per Alpes nel 2021. Al centro del volume è il tentativo di attribuire un senso e un valore alla follia, evitando tanto la prospettiva demenzialista propria della psichiatria classica che quella oggettivante delle nuove classificazioni. Così, il mondo nel quale vive l’alienato e il dialogo con l’apparente insensatezza della sua parola, non sono colti dall’autore come qualcosa di deficitario, sbagliato, ma come un altro mondo, capace di evocare insieme sentimenti di pena e di curiosità, del quale il clinico attento si sforza di cogliere il senso segreto.
I riferimenti sono, appunto, quelli della tradizione filosofica e psicopatologica francese, da Bergson, a Minkowski, a Ey e Lantéri Laura, ma non mancano anche altri esponenti della psicopatologia, come Jaspers. I campi nella cui esplorazione Del Pistoia ci guida procedendo per ipotesi suggestive, che testimoniano lo sforzo affascinato di una ricerca, e per esempi tratti dalla clinica sono quelli propri della psicopatologia classica: delirio, paranoia, melanconia, mania e schizofrenia. Il risultato è un libro intenso che per essere difficile certo, lo è, come complesso è l’oggetto della sua indagine: la mente dell’uomo con le sue infinite possibilità, le condizioni eterogenee alle quali può dar luogo, il ripetersi – a volte – di fenomeni che possono però assumere, in rapporto a ogni storia singolare, diversi significati. E come, anche, sono complesse, vissute, intense le esperienze delle quali l’autore si sforza qui di render conto. Ma ciò che mi pare che il libro soprattutto testimoni è che questo sforzo di comprensione dell’altro non nasce da una spinta esclusivamente eistemofilica, o dal gusto di soddisfare la curiosità; si tratta, piuttosto, di volere esercitare, testare direi quasi, il dialogo fino al limite estremo della sua possibilità, là dove l’alterità può apparire appunto a prima vista “insensata”, ma a un orecchio generoso e attento può improvvisamente e inaspettatamente rivelare (o almeno permettere d’intuire) un senso suo, particolare, segreto. La vita dell’uomo, ciascuna vita umana quindi, anche quando a uno sguardo superficiale può apparire la più insensata e più inutile merita invece curiosità, vicinanza e attenzione perché dell’umano rappresenta, sempre, una possibilità.
Nel video allegato intervista ad Anna Solasro sull'esperienza teatrale di Stranità
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