Signor Direttore,
Quasi sempre pertinenti e condivisibili gli interventi "post-pandemici" sulle case di riposo, interventi pure tra loro conflittuali talvolta, che sempre più spesso capita di leggere, in particolare su riviste che si occupano di assistenza ma non solo.
A dire il vero la conflittualità non è sorprendente, costituendo le case di riposo un vero e proprio universo, un caleidoscopio in cui la molteplicità degli aspetti legati alla vita dei residenti (a partire dalla loro accettazione o meno della istituzionalizzazione) interagisce con la professionalità e la sensibilità dei singoli operatori, il che finisce per dare luogo (come potrebbe essere altrimenti) a valutazioni e giudizi anche molto differenti.
Avendo avuto a che fare con le strutture residenziali per anziani non-autosufficienti, in Paesi diversi, durante tutta la mia carriera di psichiatra sono stato preso – abbastanza logicamente credo – dall'intento di associarmi al dibattito.
Mi sono rapidamente reso conto tuttavia che il mio punto di vista si sarebbe aggiunto ad altri in maniera stocastica, forse più nella preoccupazione di riscuotere dell'attenzione e del consenso che di offrire un ipotetico migliore inquadramento dei problemi e una altrettanto ipotetica riformulazione delle prospettive possibili di soluzione degli stessi.
Mi sembra più interessante dunque, anche se le autocitazioni comportano sempre una certa dose di goffaggine, evocare in estrema sintesi le riflessioni sulla realtà delle case di riposo che ho avuto modo di formulare, poco tempo prima della crisi sanitaria, recensendo, sulle pagine della Rivista Sperimentale di Freniatria, il libro di Silvina Petterino: "Vecchi da morire. Anziani in casa di riposo" Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo (cf. RSF, Vol CXLIII, n°3, 2019).
Il pregio – a mio avviso – di questo libretto molto semplice è di descrivere la realtà delle istituzioni per anziani per quello che sono, cogliendo vividamente la dialettica infelice che intercorre in questi luoghi tra progresso tecnico, aspettative sociali crescenti e (se mi si passa l'espressione un po' ampollosa) umana finitudine.
Forse una parte dell'imbarazzo con cui si affronta (quando lo si affronta) il problema deriva, oltre a molte altre cose, dall'impossibilità (strutturale ?) di trovare una conciliazione tra questi tre poli e, aggiungerei, dalla sempre minore disponibilità sociale a tollerare di lasciare la questione in sospeso.
Penso a problemi che presto o tardi arriveranno anche in Italia (ma magari no) come la questione delle cosiddette direttive anticipate, ma non è beninteso che un esempio tra i tanti che si potrebbero fare.
Probabilmente la soluzione non è offerta (si tratta di un'opinione personale) dal frenetico aggrapparsi alla divulgazione scientifica, la quale, se non accetta di farsi strumentalizzare, non può che popperianamente restituire ulteriori dubbi e ulteriori congetture.
Allora, senza volere invadere terreni altrui – "offellée fà el to' mestée" si dice (ancora ?) a Milano – questo imbarazzo, questo disagio che in questa fase semi-post-pandemica la nostra società sembra trovare sempre più incresciosi non hanno forse a che vedere con il lebenswelt, con il mondo della vita in quanto tale ?
ENNIO COCCO
Quasi sempre pertinenti e condivisibili gli interventi "post-pandemici" sulle case di riposo, interventi pure tra loro conflittuali talvolta, che sempre più spesso capita di leggere, in particolare su riviste che si occupano di assistenza ma non solo.
A dire il vero la conflittualità non è sorprendente, costituendo le case di riposo un vero e proprio universo, un caleidoscopio in cui la molteplicità degli aspetti legati alla vita dei residenti (a partire dalla loro accettazione o meno della istituzionalizzazione) interagisce con la professionalità e la sensibilità dei singoli operatori, il che finisce per dare luogo (come potrebbe essere altrimenti) a valutazioni e giudizi anche molto differenti.
Avendo avuto a che fare con le strutture residenziali per anziani non-autosufficienti, in Paesi diversi, durante tutta la mia carriera di psichiatra sono stato preso – abbastanza logicamente credo – dall'intento di associarmi al dibattito.
Mi sono rapidamente reso conto tuttavia che il mio punto di vista si sarebbe aggiunto ad altri in maniera stocastica, forse più nella preoccupazione di riscuotere dell'attenzione e del consenso che di offrire un ipotetico migliore inquadramento dei problemi e una altrettanto ipotetica riformulazione delle prospettive possibili di soluzione degli stessi.
Mi sembra più interessante dunque, anche se le autocitazioni comportano sempre una certa dose di goffaggine, evocare in estrema sintesi le riflessioni sulla realtà delle case di riposo che ho avuto modo di formulare, poco tempo prima della crisi sanitaria, recensendo, sulle pagine della Rivista Sperimentale di Freniatria, il libro di Silvina Petterino: "Vecchi da morire. Anziani in casa di riposo" Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo (cf. RSF, Vol CXLIII, n°3, 2019).
Il pregio – a mio avviso – di questo libretto molto semplice è di descrivere la realtà delle istituzioni per anziani per quello che sono, cogliendo vividamente la dialettica infelice che intercorre in questi luoghi tra progresso tecnico, aspettative sociali crescenti e (se mi si passa l'espressione un po' ampollosa) umana finitudine.
Forse una parte dell'imbarazzo con cui si affronta (quando lo si affronta) il problema deriva, oltre a molte altre cose, dall'impossibilità (strutturale ?) di trovare una conciliazione tra questi tre poli e, aggiungerei, dalla sempre minore disponibilità sociale a tollerare di lasciare la questione in sospeso.
Penso a problemi che presto o tardi arriveranno anche in Italia (ma magari no) come la questione delle cosiddette direttive anticipate, ma non è beninteso che un esempio tra i tanti che si potrebbero fare.
Probabilmente la soluzione non è offerta (si tratta di un'opinione personale) dal frenetico aggrapparsi alla divulgazione scientifica, la quale, se non accetta di farsi strumentalizzare, non può che popperianamente restituire ulteriori dubbi e ulteriori congetture.
Allora, senza volere invadere terreni altrui – "offellée fà el to' mestée" si dice (ancora ?) a Milano – questo imbarazzo, questo disagio che in questa fase semi-post-pandemica la nostra società sembra trovare sempre più incresciosi non hanno forse a che vedere con il lebenswelt, con il mondo della vita in quanto tale ?
ENNIO COCCO
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