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TRATTARE I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE : LA PSICHIATRIA AL BIVIO FRA ETICA E AZIENDALIZZAZIONE

6 Gen 19

A cura di Giovanni Abbate Daga

INTRODUZIONE

di Giovanni Abbate Daga


La rubrica è dedicata alla problematicità della cura dei Disturbi dell’Alimentazione.

In tema di cura di anoressia e bulimia, siamo d’altronde in un campo dove i farmaci incidono poco sui sintomi, se non sulla comorbilità ansiosa e depressiva. Ed anche questo è poi da vedere. Siamo in un campo dove il vecchio armamentario dello psichiatra è la principale possibilità: ascolto, sospensione del giudizio, relazione empatica. E con questi strumenti di cura ci si ritrova invariabilmente nell’eterne domande della sofferenza umana: chi siamo e che cosa è la “malattia”, che cosa rappresenta la nostra identità, come si costruisce la speranza, come si fronteggiano paura e cambiamento.

Ma “mala tempora currunt”, nonostante le tante ed intense celebrazioni della 180 e della riforma della psichiatria appena terminate con il 2018. Nei nostri anni di crisi, la produttività conta più del tempo, la risorsa va ottimizzata più che impiegata, i risultati sono valutati prevalentemente in numeri e non in miglioramento soggettivo del paziente (come se poi l’oggettivo si potesse scindere dal soggettivo).

Lo psichiatra – se non è (d)eludente – non può non farsi allora domande etiche e scrupoli di coscienza, come leggerete nelle belle riflessioni di Nadia Delsedime.
Tobino, nel 1964, scriveva parole fiammeggianti di vis politica, che rispecchiano una psichiatria più fiduciosa in se stessa:
 

"Ora ci vorrebbero tanti più psichiatri, più infermieri specializzati, più dedizione, più accuratezza, più giornaliera pazienza, più denari, più denari […] ed è obbligatorio non dare soltanto il denaro, ma partecipare, sorvegliare, criticare, appassionarsi a ogni passaggio di questa meravigliosa impresa contro la pazzia, la più misteriosa che esista al mondo.“
 
Con la crisi economica sembra utopia… ma vorrei augurarci che le generazioni di psichiatri che verranno non dicano di noi: “Volevamo cambiare le Istituzioni e le istituzioni hanno cambiato loro” parafrasando una celebre frase di un film di Ettore Scola.

 
TRATTARE I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE : LA PSICHIATRIA AL BIVIO FRA ETICA E AZIENDALIZZAZIONE

di Nadia Delsedime


“Mangiavo senza pensarci, solo per riempire la ferita enorme che ero”
 “La storia della mi vita è volere, avere fame di quello che non posso avere, o forse volere ciò che non posso permettermi di avere” (Roxane Gay- Fame)

“Si è ciò che si guarda.”
“L’occhio è sempre in cerca di sicurezza…questo spiega l’appetito dell’occhio per la bellezza” (Brodskij – Fondamenta degli incurabili)

 

“Non esiste vita senza pazienza” (P. Roth)
 
I disturbi alimentari sono disturbi psichiatrici. Con la più alta mortalità fra i disturbi psichiatrici. Costosi da trattare. Dispendiosi a livello di tempo, energie di gruppo e individuali, di risorse economiche stanziate. I disturbi alimentari sono disturbi psichiatrici di cui pochi psichiatri si vogliono occupare o si sanno occupare o si possono occupare.
Trattare un disturbo alimentare – che si chiami Anoressia Nervosa, Bulimia, Binge Eating, Disturbo Evitante Restrittivo – significa confrontarsi con un problema complesso che non si può e non si deve affrontare da soli (che si sia Psichiatri, Psicoterapeuti o Nutrizionisti) ma nell’ambito di una equipe multidisciplinare e di una rete che a volte richiede la collaborazione fra Servizi diversi (anche diversificati fra Pubblico e Privato) e figure diverse, che devono interfacciarsi e confrontarsi costantemente, onde evitare vuoti di comunicazione in cui la malattia possa “infilarsi” e far saltare il progetto terapeutico.

Trattare un disturbo alimentare significa tenere sempre presente che quello che noi consideriamo un “disturbo”, per i pazienti è in realtà una “soluzione”, l’unica possibile a sollevare da un malessere profondo, e pertanto va trattata con rispetto.
E questa è la prima parola che inserirei in un “vocabolario etico” per l’approccio ai Disturbi Alimentari. Rispetto per la Persona che sta dietro alla malattia; per la malattia stessa, che non è solo un insieme di sintomi da estirpare ma un linguaggio da ascoltare; per la famiglia che in qualche modo viene segnata dal passaggio della malattia, travolta da emozioni che non è in grado di gestire e spesso è incapace di comprendere. Una famiglia che va sempre sostenuta e aiutata, talvolta curata, per poter far parte efficacemente di quella rete d’aiuto, unico strumento di cura nelle sue diverse e multiformi specificità.
Il secondo concetto etico che desidero introdurre è quello di Tempo. Tempo fa parte integrante del concetto di Cura; dedicare tempo significa dedicare Attenzione, saper aspettare (tempo di attesa), dare modo che si apra un varco nella corazza della malattia e che venga formulata una domanda di cura autentica, da cui partire per instaurare una proficua relazione terapeutica, vero core del processo di cura. Quindi, Tempo, Attenzione, Attesa, Autenticità, Relazione terapeutica, sono tutti concetti etici fondamentali che costituiscono l’essenza stessa della Cura.
Il contrario di queste caratteristiche dell’agire bene (vero significato del termine “etica”) sono la fretta, il non ascolto, la superficialità, la scarsità di risorse in termini di personale e di denaro, che non permetta il formarsi di quella rete multisfaccettata e di quei percorsi diversificati ad personam (ambulatoriali, semi-residenziali o residenziali) che possono garantire ai pazienti un processo di autonomizzazione dalla propria malattia.
Tempo quindi. Tempo per la motivazione alla cura, tempo di attesa, tempo del dialogo, tempo della psicoterapia o della comunità, tempo del distacco dalla famiglia, dalla scuola, e infine – molto graduale – dalla propria malattia. Tempo per imparare a fidarsi e affidarsi soprattutto.
Trattare un disturbo alimentare significa confrontarsi con il tempo, che è estremamente soggettivo. Il tempo soggettivo non è fatto per sottomettersi ai DRG aziendali, alle scadenze, ai tempi massimi di ricovero, ai giorni concessi dai finanziamenti delle ASL per curarsi in ambito residenziale. Il tempo soggettivo è quello necessario per crescere.
Ed è su questo punto che massimamente si scontrano la “filosofia della cura” – basata sul rispetto della persona e dei suoi tempi – con la “filosofia aziendale”- basata sugli interessi economici, sul bilancio costi-benefici, sulle perdite, sul DRG (giorni di ricovero pagati in base alla diagnosi; 50 giorni per esempio è il massimo previsto per il ricovero per un/a paziente con Anoressia nervosa) e che sempre meno ha al centro la Persona nella sua complessità.
Occuparsi di disturbi alimentari è poco redditizio perché significa dedicare molto tempo e molto personale sanitario (quindi molto denaro) a fronte di risultati incerti e di frequenti ricadute.

Quanto costa il tempo? Il tempo di ascoltare, di aspettare che un paziente abbia meno paura di cambiare, di abbracciare nuovi stili di vita meno patologici ma più temibili, proprio perché sconosciuti… Ciascuno di noi tende a reiterare ciò che lo fa sentire più sicuro, a muoversi nella propria comfort zone. Esplorare nuovi territori fa sempre paura. E questa esplorazione non può essere forzata da nessuno. Il/la paziente deve trovare il proprio passo e il proprio tempo per lanciarsi in questa esplorazione. A volte, spesso, ci vogliono mesi prima che il soggetto esprima una autentica e propria domanda di cura, non mediata da altri. E questo tempo si allunga nel caso di adolescenti, forzati dai genitori a curarsi inizialmente, e che devono essere lentamente ingaggiati nella cura, accompagnati in una lenta maturazione che prevede una presa di consapevolezza di sé e del disturbo. E una graduale costruzione di una nuova identità.

Si parla di un lavoro di anni e raramente le Istituzioni pubbliche hanno le risorse per sostenere quello che dovrebbe essere un percorso di cura “ideale”, che poi si identifica con un percorso di accompagnamento alla crescita.

Laddove crescere significa prendere consapevolezza che qualcosa non va, che c’è un disturbo da curare, significa distaccarsi dalla famiglia e trovare la propria indipendenza, significa prendere contatto con il proprio essere, con le proprie fragilità, con il proprio vuoto; e a partire da quello iniziare a costruire una propria identità.
Questo lungo percorso implica tempo e rispetto. Implica un insegnare ad accettarsi a partire dall’Accettare. Implica un Vedere, uno sguardo benevolo, uno sguardo neutro rispetto al giudizio, ma rispecchiante rispetto alle emozioni. Accettare e vedere sono altri due pilastri di questo “vocabolario etico” applicato alla cura dei DCA o forse alla cura in generale.
Al centro del Disturbo Alimentare, di qualsiasi diagnosi si tratti, c’è il corpo o meglio ancora l’immagine del corpo. O ancora meglio lo Sguardo sul corpo, che riflette lo sguardo su se stessi in generale. Uno sguardo soggettivo e oggettivo impietoso, uno sguardo che giudica, che non perdona, che riempie di sensi di colpa e fa sentire indegni. Uno sguardo che è quello di chi è malato ma non si vede come è realmente, o quello degli altri esterni (famiglia, amici, fidanzati, insegnanti), vissuto come giudicante e richiedente. Uno sguardo che esaspera la sensazione di non bastare mai. Di insufficienza e inadeguatezza. Uno sguardo che non rimanda mai una visione di bellezza.

Quanto tempo allora ci può volere a cambiare questo sguardo (poiché di questo tratta la terapia)? Che non è solo un sintomo ma una Weltanschauung, una visione del mondo. L’Azienda sanitaria che è avida di dati e di risultati (come spesso lo sono, ma più comprensibilmente, le famiglie dei pazienti) ci impone di cambiare in uno/due/massimo sei mesi – cioè in tempi brevissimi – dei vissuti profondi, perché questo sono realmente i sintomi che noi vediamo come la punta di un iceberg.
Come ai pazienti viene richiesta dalla società e dai loro stessi standard perfezionistici una performance, così anche a noi sanitari viene chiesta una performance di risultato. E non importa se ci vogliono magari anni per cambiare un modo di vedere e vedersi, uno sguardo…questa “lentezza”(che poi è solo rispetto per i tempi del paziente) è concessa solo se è il paziente a pagarsi le cure privatamente.

E infine introduco un ultimo concetto etico, quello di Identità. Strettamente connesso ai due concetti precedenti di Corpo e Sguardo, nell’Identità troviamo anche la risposta alla domanda “Perché è così difficile curare un disturbo alimentare?”….risposta : perché il Disturbo Alimentare crea un’identità. Laddove la personalità è fragile o ancora in formazione, laddove ferite narcisistiche e mancanze precoci o traumi hanno creato dei vuoti e delle mancanze, il disturbo riempie, crea qualcosa, un Sé patologico, ma che è comunque meglio di niente. Si può essere orgogliosi della propria identità anche se malata (e questo capita spessissimo nell’Anoressia) e questo è il nucleo della Resistenza al cambiamento.
Allora la “cura” può stare solo nel rispetto di questa prima pelle che il/la paziente si è costruito per difendersi da altro o dall’Altro e nel sapere guardare al di là, oltre, saper vedere il vero dolore nascosto sotto, e renderlo capace di esprimersi.

Esprimere il dolore e le emozioni non attraverso il corpo, i sintomi, i tagli o le abbuffate, è il vero scopo della terapia, dare parola al corpo e al dolore, far sì che il corpo diventi parola e non linguaggio materico o simbolico. E la parola si elicita attraverso l’ascolto, la comprensione, l’attenzione dedicata, il tempo…L’ascolto di ciò che dice o non dice il paziente, del suo non verbale, dei suoi acting, ma anche l’ascolto di sé, di cosa suscita in noi il paziente quando si esprime a suo modo di fronte a noi. Ascoltare le nostre risonanze emotive dice molto anche sul paziente; ma anche per questo ci vuole tempo.
Ascolto e Sguardo allora sono i due sensi più coinvolti nella cura, quelli di cui dovremo avere più cura e più “manutenzione”, e quelli che dovremmo sempre opporre a chi vuole troppo in poco tempo, con risorse insufficienti e metodi sbagliati.
Il diritto di essere ascoltati e visti è anche quello che dovremmo reclamare sempre e in generale come esseri umani, come persone vive, come soggetti etici. Non è possibile crescita, maturazione, sviluppo di una identità individuale, senza questi due elementi, o forse dovrei dire “alimenti”.

Imparare a nutrirsi, ad alimentarsi, significa imparare a prendersi cura di sé; tuttavia il vero nutrimento non è il cibo, ma il riconoscimento che si fonda sull’essere autenticamente compresi nella propria alterità, nella differenza, nei propri bisogni, nella voce unica che ciascuno ha.  
 

“L’intervento terapeutico non va inteso come cura, ma come motore del processo di soggettivazione, dell’esperienza cioè di sentirsi se stesso, di sperimentarsi nella propria attività psichica, nei propri sentimenti, nelle proprie condotte come vivo e reale in un mondo percepito come tale e viceversa” (R. Cahn, L’adolescente nella psicoanalisi, 2000)
 
“Se è impossibile instaurare una vera alleanza terapeutica con chi apparentemente non ha nulla da chiedere e trae importanti vantaggi dalla malattia, occorre accettare ciò che per ora ci viene concesso: una distratta disponibilità all’ascolto, una vaga curiosità, una certa preoccupazione per le conseguenze fisiche del digiuno…non certo per la magrezza scheletrica, che a lungo ancora rimarrà fonte di rassicurazione”. (E. Riva, L’arte del Kintsugi, 2016)
    

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