Se siete giunti fin qui alla ricerca di quei fattori che hanno reso tutti vincitori e vi state chiedendo chi siano questi “tutti”, seguitemi, cercherò di tessere la trama di una storia che si perde nella notte dei tempi della psicoterapia.
Era il lontano 1936, quando Rosenzweig, saggio e lungimirante psicoterapeuta, lanciò il primo sassolino nel mare apparentemente calmo della psicoterapia. Egli ebbe l’ardire di sostenere che i risultati terapeutici fossero dovuti soprattutto ai fattori in comune alle diverse terapie, piuttosto che ai fattori specifici che le differenziano: non sarebbe precipuamente il modello di riferimento a fare la differenza, quanto piuttosto alcuni elementi che risultano diffusi nella prassi clinica. Il monito, lanciato ai colleghi, di dare il giusto peso a codesti fattori comuni, suonò come un anatema, scatenando una serie incredibile di studi che culminarono nella metafora del “verdetto di Dodo” (Luborsky, Singer & Luborsky, 1975): “Tutti hanno vinto e tutti meritano un premio”, (Carroll in “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie”), usata per descrivere la sostanziale equivalenza fra tutte le forme di psicoterapia. Tale esito, detto anche “paradosso dell’equivalenza”, anticipò profeticamente i risultati delle “ricerche di esito” dei successivi trent’anni, per giungere fino ai giorni nostri.
Ma vediamo come si giunse a questo risultato: sulla scia di un altro evento significativo – l’articolo provocatorio di Eysenck (1952) sull’efficacia della psicoterapia, che tentava di minare le basi dell’establishment psicoanalitico, a onor del vero, con un inganno nel riporto dei dati che fu, in seguito, appurato da diversi ricercatori – si giunse alla nascita della “ricerca sul processo” in psicoterapia. Sebbene questo nuovo approccio alla ricerca diede nuovo impulso alla ricerca sui fattori comuni, esso rappresentò, implicitamente, un simbolo di un’agguerrita controversia relativa al privilegio di specifici approcci per specifiche patologie basati sugli RCTs (trials clinici controllati e randomizzati).
Questa posizione, nata nell’ambito del modello medicalizzato della psicoterapia (EBM) (Sacket, 1997) e che sfociò nel movimento degli empirically supported treatments (ESTs), si basa sull’assunto che ciascun modello di terapia ha effetti differenti su disturbi differenti, e conduce all’inferenza che alcuni modelli siano più efficaci di altri con un certo tipo di pazienti.
Sul versante dei fattori comuni, nel frattempo, fiorivano sempre più numerose liste di fattori comuni tra cui spiccavano i seguenti (Luborsky et al., 2002):
Era il lontano 1936, quando Rosenzweig, saggio e lungimirante psicoterapeuta, lanciò il primo sassolino nel mare apparentemente calmo della psicoterapia. Egli ebbe l’ardire di sostenere che i risultati terapeutici fossero dovuti soprattutto ai fattori in comune alle diverse terapie, piuttosto che ai fattori specifici che le differenziano: non sarebbe precipuamente il modello di riferimento a fare la differenza, quanto piuttosto alcuni elementi che risultano diffusi nella prassi clinica. Il monito, lanciato ai colleghi, di dare il giusto peso a codesti fattori comuni, suonò come un anatema, scatenando una serie incredibile di studi che culminarono nella metafora del “verdetto di Dodo” (Luborsky, Singer & Luborsky, 1975): “Tutti hanno vinto e tutti meritano un premio”, (Carroll in “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie”), usata per descrivere la sostanziale equivalenza fra tutte le forme di psicoterapia. Tale esito, detto anche “paradosso dell’equivalenza”, anticipò profeticamente i risultati delle “ricerche di esito” dei successivi trent’anni, per giungere fino ai giorni nostri.
Ma vediamo come si giunse a questo risultato: sulla scia di un altro evento significativo – l’articolo provocatorio di Eysenck (1952) sull’efficacia della psicoterapia, che tentava di minare le basi dell’establishment psicoanalitico, a onor del vero, con un inganno nel riporto dei dati che fu, in seguito, appurato da diversi ricercatori – si giunse alla nascita della “ricerca sul processo” in psicoterapia. Sebbene questo nuovo approccio alla ricerca diede nuovo impulso alla ricerca sui fattori comuni, esso rappresentò, implicitamente, un simbolo di un’agguerrita controversia relativa al privilegio di specifici approcci per specifiche patologie basati sugli RCTs (trials clinici controllati e randomizzati).
Questa posizione, nata nell’ambito del modello medicalizzato della psicoterapia (EBM) (Sacket, 1997) e che sfociò nel movimento degli empirically supported treatments (ESTs), si basa sull’assunto che ciascun modello di terapia ha effetti differenti su disturbi differenti, e conduce all’inferenza che alcuni modelli siano più efficaci di altri con un certo tipo di pazienti.
Sul versante dei fattori comuni, nel frattempo, fiorivano sempre più numerose liste di fattori comuni tra cui spiccavano i seguenti (Luborsky et al., 2002):
- sviluppo della relazione terapeutica e dell’alleanza di lavoro
- opportunità di catarsi/discussione
- acquisizione e pratica di nuovi comportamenti
- aspettative positive sull’esito da parte del paziente
A fronte di questi risultati, tuttavia, diverse critiche – provenienti soprattutto dal versante del movimento EST – rimbombavano nei confronti di questa prospettiva:
- una specifica tecnica può caratterizzare e influenzare il ruolo degli altri fattori;
- la consapevolezza dei clienti di essere trattati (fattori legati al placebo/ aspettative dell’utente) non è l’unico elemento che può tener conto del funzionamento della componente placebo. Perché il placebo funzioni è necessaria anche “la valutazione della credibilità del rationale del terapeuta e delle relative tecniche” (Duncan, 2002, p. 40);
- criticità metodologiche circa i contributi delle metanalisi: le conclusioni di Luborsky dovrebbero essere riconsiderate per le seguenti ragioni: errori nell’analisi dei dati; esclusione dalla sperimentazione di molte tipologie di pazienti; lacunosa generalizzazione di paragoni fra terapie che mai sono state realizzate; i trials dall’esito negativo spesso non sono riportati in letteratura e perciò possono non essere considerati dalle metanalisi.
Chambless (2002) dal canto suo, tuonò, osservando: “L’interesse per il benessere dei clienti richiede che gli psicologi siano molto diffidenti dall’accettare il verdetto di Dodo”.
Ma anche dall’interno si levarono delle considerazioni critiche. Weinberger faceva notare che i sostenitori di modelli differenti attribuiscono ai vari fattori un’importanza di grado diverso, affermando la centralità di un determinato fattore e relegando gli altri in una posizione secondaria. Ad esempio, gli aspetti relazionali hanno un ruolo centrale negli approcci psicodinamici e umanistico-esperienziali, mentre i modelli cognitivo-comportamentali enfatizzano l’importanza delle teorie dell’apprendimento e dell’esposizione agli stimoli ansiogeni e disturbanti. Egli concluse che pur se i vari fattori comuni sono valutabili, non è più sufficiente affermare che la gran parte dei trattamenti sono egualmente efficaci e che ciò che si dovrebbe fare è valutare empiricamente i vari modelli terapeutici studiando periodicamente la presenza di questi fattori, durante il corso del trattamento.
A tale proposito Messer & Wampold (2002), con un approccio più cauto, osservarono che, probabilmente, ciò che andrebbe fatto non è abbandonare gli specifici modelli, ma valutarli all’interno di una prospettiva contestualista, in cui ciò che conta realmente è il significato che ciascun paziente attribuisce a ciò che accade in terapia. Se infatti ciò che sembra agire in terapia non è tanto la procedura ma il significato che il paziente attribuisce alla procedura (metaprocedura), la ricerca in psicoterapia dovrà muoversi per individuare gli aspetti metaprocedurali presenti all’interno delle terapie reali, per come esse vengono quotidianamente praticate, e non in quegli artefatti rappresentati dalle terapie manualizzate richieste dalla ricerca sperimentale.
Come avrete ormai dedotto, sulla scia di queste controversie, la prospettiva dei fattori comuni è diventata lo scenario in cui si è consumata, negli ultimi decenni, la più agguerrita battaglia culturale nel campo della psicoterapia che ci ha condotto alla dicotomia “trattamento versus relazione” (Norcross, 2011).
Di fatto, ci fa osservare Norcross, la conseguenza più deleteria e pericolosa di questa dicotomia è stata il suo effetto di polarizzazione sulla disciplina; sono sorte numerose fazioni rivali e innumerevoli critiche sono state pubblicate da ciascuna delle parti in causa. “Da una parte la fazione del trattamento, degli RCTs e del modello medico-scientifico, dall’altra il partito della relazione terapeutica, degli studi sull’efficacia e sul rapporto processo-esito e del modello relazionale-contestuale” (Norcross, 2012 p. 13).
In questo contesto polarizzato, per riavvicinare clinica e ricerca, fornendo loro un terreno di dialogo, nel 1999, la Division 29 dell’American Psychological Association (APA) ha costituito una Task Force, denominata “Empirycally Supported Therapy Relationships”, per individuare, rendere operative e diffondere le informazioni sulle “relazioni terapeutiche supportate empiricamente” (Empirycally Supported Relationships – ESR); i risultati ottenuti sono stati riportati, nel dettaglio, nella prima edizione dell’ormai celebre volume: “Psychotherapy relationships that work: Therapist contributions and responsiveness to patient needs” (Norcross, 2002).
Scopo della Task Force era quello di proporre una lista/graduatoria degli elementi relazionali efficaci. In breve, è stato promosso, a livello empirico, ciò di cui i terapeuti sono sempre stati convinti a livello clinico: la dimensione curativa della relazione, che divenne, in tal modo, il medium dei fattori comuni; un mezzo attraverso il quale differenti aspetti del processo terapeutico operano in differenti momenti della terapia.
Ancora più significativa è l’idea centrale veicolata da questi studi: l’alleanza rappresenta una componente fondamentale della relazione terapeutica, insieme ad una serie di altri costrutti interpersonali come le caratteristiche del terapeuta, la dimensione empatica, le caratteristiche del paziente, il tipo di attaccamento paziente-terapeuta e numerose altre (Norcross, 2002). Essa non è statica, né unidimensionale, non si sviluppa solo dal clinico al paziente ma è co-costruita da entrambi e si negozia durante tutto il corso del trattamento, attraverso processi di rottura e riparazione.
Per stabilire i fattori specifici, tenendo in debito conto quelli aspecifici, così da poterne dimostrare l’interdipendenza, i ricercatori ESR (Lambert e Barley, 2002) hanno compiuto una revisione della letteratura e, calcolando medie su migliaia di studi di esito e su centinaia di metanalisi, hanno identificato quattro fattori terapeutici come i principali elementi per ottenere miglioramenti in psicoterapia:
- fattori extraterapeutici relativi al paziente 40% (gravità del problema; tipologia del problema; disponibilità al cambiamento; eventi fortuiti ostacolanti o facilitanti, per es. un incidente o trovare un nuovo lavoro; grado di sostegno fornito dalla rete sociale della persona)
- fattori comuni relativi alla relazione terapeutica 30%
- aspettativa del paziente sull’esito o placebo 15% (consapevolezza da parte del paziente di ricevere un trattamento e la sua fiducia nella logica e nei metodi del trattamento)
- tecniche specifiche (15%)
Ognuno di questi fattori rappresenta, più precisamente, un costrutto costituito da diverse variabili. Questo modello presenta solo la varianza spiegata e separa fattori comuni e fattori specifici. I fattori extraterapeutici relativi al cliente rappresentano circa il 40% del successo con un peso superiore anche alla relazione terapeutica che rappresenta, ad ogni modo, la conditio sine qua non dei fattori comuni assieme ai fattori riguardanti il cliente e il terapeuta. Un’ulteriore revisione, portata a termine da Norcross, Beutler & Levant (2006), ha definito con maggiore precisione quali siano i fattori che sembrano essere determinanti per l’esito, indipendentemente dallo specifico approccio, confermando la preponderanza dei fattori extraterapeutici relativi al cliente:
- fattori extraterapeutici (ecosistema di supporto sociale; eventi di vita favorevoli o avversi) 45%
- contributo del cliente (aspettative, predisposizione al cambiamento, gravità disfunzionale) 25%
- relazione terapeutica 10%
- metodo di trattamento 8%
- personalità del terapeuta 7%
- interazione 5%
Scopo di questo studio era dimostrare che il paziente, il terapeuta, la relazione tra i due, il metodo del trattamento e il contesto, contribuiscono complessivamente al successo (o al fallimento) del trattamento e, che non si può prescindere dalla valutazione della combinazione ottimale tra tutti questi fattori strettamente correlati. Successivamente, un crescente corpo di ricerche, muovendosi nella stessa direzione, ha indicato che tutti gli approcci hanno un’efficacia comparabile, e non esiste evidenza di robuste differenze tra i vari trattamenti, se non la stretta necessità dell’incontro tra ricerca di esito e di processo: la relazione deve necessariamente essere al servizio della tecnica e la tecnica al servizio della relazione (Beihl, 2011).
A tale scopo l’APA (2006, p.273) ha avallato la seguente definizione: “la pratica basata sull’evidenza empirica in psicologia (EBPP) rappresenta l’integrazione tra le migliori ricerche disponibili e la competenza clinica, nel contesto delle caratteristiche, della cultura e delle preferenze del paziente”. Tuttavia le fazioni rivali si sono impossessate anche di questa definizione facendone uno strumento di divisione. “Da una parte, alcuni identificano erroneamente l’EBP con le migliori ricerche disponibili, e in particolare con tutti i risultati degli RCT sui metodi di trattamento; dall’altra alcuni esagerano in modo abnorme il primato delle competenze cliniche o relazionali trascurando le conferme della ricerca” (Norcross, 2012, p.13-14).
Che cosa conta allora per l’efficacia? Come si può dividere l’indivisibile complessità dell’esito della psicoterapia? Come uscire da quest’impasse?
Ve lo racconterò nella prossima puntata di questa rubrica.
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