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“Tutti hanno vinto e tutti meritano un premio” (seconda parte)

7 Ott 14

A cura di Miriam Columbro

Non è vero che il ricercatore insegue la verità, è la verità che insegue il ricercatore.
(R. Musil)

Ben tornati alla narrazione dei fili in-visibili che hanno decretato il successo di tutti i modelli di psicoterapia. Questo esito, come spiegato nella puntata precedente, è tuttavia avvolto in uno strato di nebbia in cui proverò a far emergere sprazzi di luce, affinché il contrasto tra luci e ombre non sia troppo netto e un cielo azzurro possa ancora ridestarci da credenze oniriche, o mitologiche che dir si voglia! Tuttavia, mi preme dirvi, che non dissolverò del tutto la nebbia, e non posso promettervi cieli sempre tersi; cercherò semplicemente di offrirvi una visione che ci consenta di non rimanerne intrappolati.
 
Riprendendo le fila, ricordiamo che, come ha osservato (Norcross, 2011), la diatriba che si è consumata, negli ultimi decenni, nel campo dei fattori comuni è diventata lo scenario che ci ha condotto alla dicotomia “trattamento versus relazione”. Mi chiedevo al termine del precedente articolo: che cosa conta per l’efficacia? Come si può dividere l’indivisibile complessità dell’esito della psicoterapia? Come uscire da quest’impasse?
 
Vediamo insieme cosa ci racconta la storia: nel 2009, in un campo ancora fortemente diviso rispetto a questi interrogativi, la Division 29 of Psychotherapy, insieme alla Division 12 of Clinical Psychology, ha commissionato una seconda Task Force interdivisionale (TFI), denominata “Evidence-Based Therapy Relationships” (i risultati sono riportati nella seconda edizione del volume di Norcross, 2011 “Psychotherapy relationship that work: evidence-based responsiveness”).
Il duplice obiettivo della TFI riguardava sia l’individuazione degli elementi efficaci della relazione terapeutica, sia la possibilità di stabilire metodi efficaci per adattare la terapia al singolo paziente, sulla base delle sue caratteristiche (transdiagnostiche), ribadendo ancora la stretta interdipendenza tra relazione e trattamento. In altre parole, è stata assegnata un’attenzione sempre maggiore all’utilità clinica dei dati di ricerca e al rigore metodologico degli studi: quelle che precedentemente venivano indicate come “relazioni terapeutiche supportate empiricamente”, sono state definite “relazioni terapeutiche basate sull’evidenza” e l’efficacia di ogni variabile relazionale è stata indagata attraverso indagini metanalitiche (Effect size, r ponderata, d ponderata – come definiti da Cohen, 1988). In sintesi, la TFI ha tentato di rispondere ai successivi interrogativi (Dazzi, 2012):

 

  1. Quali sono gli ingredienti della relazione clinica che devono essere oggetto costante di attenzione affinchè un trattamento sia efficace?
  2. Quali sono i fattori che vanno monitorati per adattare l’intervento alle esigenze specifiche dei vari pazienti e dei diversi momenti della psicoterapia?
  3. Cosa ci dice la loro esclusione?
 
E’ Norcross (2011), nel testo sopra menzionato, in cui sono stati riportati i risultati della meta-meta-analisi fatta dalla TFI, a darci le prime risposte: il valore terapeutico di questi fattori non ha ricevuto un sostegno empirico adeguato; le ricerche non hanno valutato in modo sufficientemente rigoroso il loro valore mutativo, lo hanno disconfermato o lo hanno supportato in modo equivoco e non conclusivo e sono necessari ulteriori studi per ovviare alle criticità emerse. Vediamole, insieme:

 

  • la relazione comporta un miglioramento o semplicemente lo riflette? Inferenze causali sono sempre difficili da trarre per ciò che concerne le variabili di un processo quale la relazione terapeutica. I problemi di interpretazione degli studi di correlazione li rendono meno convincenti degli RCT. È metodologicamente difficile soddisfare le tre condizioni che rendono possibile la dichiarazione di causalità: mancanza di variabili spurie, covarianza delle variabili del processo e misura dell’esito, precedenza temporale della variabile del processo. Deve essere ancora stabilito se e quando la relazione terapeutica è un mediatore, un moderatore o il meccanismo di cambiamento in psicoterapia.

 

  • Un inconveniente della ricerca in psicoterapia, nel suo complesso, è la scarsità di attenzione per la natura – specifica per disturbo e trattamento – della relazione terapeutica. Le ricerche non sono ancora in grado di spiegare come il disturbo principale del paziente o il tipo di trattamento impattino sulla relazione terapeutica; ma vi sono dei primi indizi: ad esempio, nel trattamento dei disturbi d’ansia (GAD e DOC), trattamenti specifici sembrano contribuire in misura maggiore all’esito rispetto alla relazione terapeutica, ma nei casi di depressione la relazione appare invece il fattore più forte. La relazione terapeutica agisce probabilmente meglio su alcune malattie e su alcune terapie piuttosto che su altre (Beckner et al., 2007).
 
Pur in presenza di queste criticità, dovute perlopiù all’elevata eterogeneità di strumenti, metodi e disegni di ricerca degli studi analizzati, e alla preponderanza della ricerca di esito sulla ricerca di processo (Manzo, 2010), sono emerse delle promettenti e fondamentali linee guida.
 
Per tenere conto dell’azione congiunta dei fattori specifici e aspecifici e valutarne il peso approssimativo sull’esito, la TFI, attraverso una revisione della letteratura, ha messo a punto un altro modello di fattori comuni (Norcross, 2011) che con buona approssimazione rappresenta lo stato dell’arte della ricerca in psicoterapia.
Questo modello presenta una differenza sostanziale rispetto al precedente (Lambert, Bartel, 2002): il primo modello presentava soltanto la varianza spiegata e separava i fattori comuni dai fattori specifici (risultati riportati nel precedente articolo); mentre questo secondo modello presenta la varianza totale (inclusiva della varianza non spiegata) e assegna fattori comuni a ciascuno degli elementi costitutivi.
 
Questo aspetto evidenzia il nuovo approccio di questa Task Force: è essenziale verificare se le percentuali attribuibili a particolari fattori terapeutici si basano sulla varianza totale o su quella spiegata e il ruolo che i fattori comuni assumono in un determinato trattamento:
  • fattori extraterapeutici/varianza non spiegata 40% (auto-guarigione, remissione spontanea, eventi fortuiti)
  • contributo del paziente 30% (aspettative, predisposizione al cambiamento, gravità disfunzionale)
  • relazione terapeutica 12%
  • metodi di trattamento specifico 8%
  • personalità del terapeuta 7%
  • interazione 3%

 

Nonostante le differenti percentuali, i due modelli convergono fortemente su una serie di punti fermi che hanno confermato che l’efficacia aumenta notevolmente quando il trattamento viene “cucito” – concetto noto come tailoring (Norcross, 2002, 2011) – sulle specifiche caratteristiche del cliente, attorno alle quali è necessario costruire una relazione terapeutica efficiente ed efficace (Norcross & Lambert, 2011):
1.  i pazienti rappresentano il fattore più importante del successo o del fallimento della psicoterapia (ad      esempio la predisposizione al cambiamento è un fattore determinante);
2.  la relazione terapeutica spiega il perché del miglioramento del cliente (o il perché del fallimento)            quanto lo specifico trattamento utilizzato;
3.  la relazione terapeutica apporta un contributo sostanziale al cambiamento del cliente in tutti i                  modelli terapeutici esaminati (psicodinamico, umanistico, cognitivo-comportamentale, sistemico);
4.  i metodi di trattamento specifici  hanno importanza in alcuni casi, soprattutto nei disturbi d’ansia            gravi curati attraverso le tecniche di esposizione (Lambert, Ogles, 2004);
5.  Adattare o “cucire” il trattamento e la relazione alle diverse caratteristiche del cliente (in aggiunta            alla diagnosi) migliora l’efficacia della terapia; probabilmente perché si agisce su diversi canali: il            paziente, la relazione, il metodo, le aspettative. la relazione migliora l’efficacia;
6.  la relazione agisce in sinergia con la tecnica, le caratteristiche del paziente e le qualità del                      terapeuta, nel determinare l’efficacia. Per comprendere in maniera esaustiva l’efficacia (e                      l’inefficacia) della psicoterapia i terapeuti dovrebbero considerate tutte queste determinanti e la loro      ottimale combinazione, non soltanto una o due tra le loro preferite;
7.  la pratica dei terapeuti dovrebbe essere abitualmente monitorata attraverso valutazioni sul                      trattamento e sulla relazione terapeutica da parte dei clienti. Tale pratica permetterebbe di riparare        le eventuali rotture dell’alleanza, migliorerebbe la relazione, consentirebbe di apportare modifiche          tecniche ed evitare interruzioni premature (Lambert, 2010).

 


Fattore determinante, in quest’ottica, risulta anche il monitoraggio del terapeuta da parte del paziente durante l’intero processo terapeutico: feedback che diventa fondamentale per aggiustare la terapia e far sentire il paziente attore protagonista nel processo terapeutico. Ciò è possibile solo con un approccio alla tecnica che influenza la relazione trasmettendo ai pazienti l’idea che essi hanno il merito di ogni miglioramento. Non tutti gli approcci trasmettono tale idea ai pazienti, soprattutto se l’epistemologia di fondo è più deterministica che costruttivista. Così, se il modello medico caratterizza i fondamenti teorici di un particolare approccio, il paziente non si sentirà più “l’eroico cliente”, ma solo un oggetto sottomesso all’azione di fattori esterni come i farmaci o l’abilità-esperienza di un “potente guru”.
 
Più precisamente, la tecnica al posto di essere un secondino del cambiamento, diventa un elemento della relazione cliente-terapeuta. Il modo in cui si usa la tecnica nel contesto della relazione (come) è più importante rispetto a quale specifica tecnica viene utilizzata (cosa). Ma per selezionare il miglior tipo di comunicazione e relazione, in accordo con lo specifico paziente, è necessario l’uso avanzato delle specifiche tecniche. “Alcuni clienti, per esempio, preferiranno una maniera formale o professionale rispetto ad una più “casual” o calorosa. Altri potrebbero preferire più apertura dai loro terapeuti o un atteggiamento più direttivo” (Duncan, 2002, p. 39). E’ un sottile, ma determinante, cambiamento di prospettiva che dovrebbe cambiare il focus della ricerca e della pratica facendo sì che l’avanzamento degli studi in un senso e nell’altro, renda la psicoterapia sempre più efficiente ed efficace  (Beihl, 2011).
 
 
Emerge chiaramente che, allo stato dell’arte, potrebbe non bastare più domandarsi: la relazione funziona? Ma, piuttosto: come funziona la relazione con uno specifico disturbo e con uno specifico trattamento? Si potrebbe aumentare l’efficacia della psicoterapia: “Attenendosi all’evidenza empirica; a ciò che contribuisce all’esito della psicoterapia. Si inizia facendo leva sulle risorse del paziente e sulle sue capacità di autoguarigione; si sottolinea l’importanza della relazione terapeutica e i cosiddetti fattori comuni; si utilizzano metodi di trattamento supportati dalla ricerca; si selezionano professionisti con abilità interpersonali e clinicamente motivati, e si adatta tutto questo alle caratteristiche, alla personalità e alla visione del mondo del paziente” (Norcross, 2012, p. 25).

 

Questo nuovo modo di approcciarsi, ci indica, chiaramente, qual è la direzione che oggi sta prendendo la ricerca in psicoterapia e quali saranno i possibili sviluppi. Da disciplina basata su modelli teorici e tecnici, più o meno validati empiricamente, la psicoterapia sembra destinata a diventare una prassi basata sulla collaborazione tra un paziente/cliente, in cerca dell’aiuto di un professionista, e un clinico che adatta la sua prassi sulla base dei desideri, delle aspettative e delle caratteristiche psicologiche, relazionali e culturali del paziente; un clinico attento a monitorare il modo in cui il cliente risponde ai suoi interventi e alla sua persona e il modo in cui lui stesso si relaziona con il suo cliente (Dazzi, 2012).
 
In definitiva, il punto di svolta che ci si attende da questa visione che coniuga le diverse modalità di ricerca in psicoterapia – pluralismo (EBP – i letti di Procuste) vs integrazione (EBR – il fuoco di Prometeo) in un’ottica complementare – è inquadrare la pratica terapeutica declinando con arte e sapienza la tecnica e la relazione terapeutica con un “approccio relazionale centrato sul cliente”, che enfatizzi l’importanza della sua percezione del processo terapeutico, trasversale a tutti i modelli di intervento.

 

Ed eccoci giunti alla fine di questo simbolico viaggio tra Procuste e Prometeo con la consapevolezza che, come ogni viaggio che si rispetti, esso è soltanto un nuovo punto di partenza. Avendo attraversato la nebbia, possiamo ora immaginare la posizione che il terapeuta e ogni professionista della salute mentale dovrebbe assumere nel campo della cura: una posizione che gli permetta di saper prendere le distanze dalla cornice concettuale per ritornare a un ascolto e un’osservazione liberi da ogni riserva mentale, privi di ogni sapere a priori, per evitare di fare come Procuste, adattando il paziente alla propria teoria e non il contrario, senza temere il tradimento della sua “fede” e la “scomunica”.

 

E allora il nostro terapeuta dovrà assumere, piuttosto, le sembianze di Prometeo, colui che restituisce il “fuoco” agli uomini, il tepore di una relazione che non sia né troppo intenso, né troppo fatuo; un tepore che cresca con costanza e amorevole pazienza e si insinui nella vita del paziente per scaldare gli “inverni” (disturbi) della sua esistenza. E ad ogni “stagione” (fase del trattamento) corrisponderà la scelta della legna giusta (tecnica), nel “camino” giusto (contesto): pioppo e betulla in fase di accensione, quercia e acacia per il mantenimento, castagno e faggio per un calore più intenso, e così via.
 

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2 Commenti

  1. charlie18

    Un terapeuta che miri tanto a
    Un terapeuta che miri tanto a diversificare tecniche afferenti da più orientamenti quanto a combinarle.
    Risulta dunque indispensabile che questi tenga conto dei diversi livelli della relazione e della complessità del paziente, il quale necessita, di conseguenza, di un intervento che alterni tecniche differenti in momenti differenti ed a livelli differenti della relazione.
    Ne consegue, così, anche la necessità di integrarle, offrirle al paziente e cucirgliele addosso sulla base del bisogno (in)espresso in quel contesto, in quel particolare momento, per quel particolare individuo con quella particolare problematica a quel dato livello.
    Di certo è una grande sfida per la psicoterapia, chiamata ancora una volta a rivedere il proprio operato, a mischiare nuovamente le carte in gioco e cambiare strategia di proposta.
    Se le cose stanno così, mi vien da chiedere il senso delle (sempre più) numerose scuole di psicoterapia in Italia: ormai è una lotta intracategoriale ben (troppo) consolidata, che, a mio parere, crea solo fratture che danneggiano destinatari dell’intervento e professione stessa.
    Ma allora, se l’efficacia della psicoterapia, indipendentemente dall’orientamento, è stata già provata, qual è l’obiettivo ultimo dello specifico intervento terapeutico? Forse dimostrare di essere il vincitore di questa assurda gara di orientamenti?
    Una gara, peraltro, già falsata in partenza, perchè non è possibile utilizzare i medesimi criteri di misurazione per tutti gli orientamenti – ad esempio la terapia cognitivo-comportamentale produce risultati subito accessibili, e comunque sicuramente più concreti e immediati di quanto non possa farlo una terapia psicoanalitica.
    Ma il Verdetto del Dodo, già oltre 60 anni fa, non ci aveva insegnato che non ci sono perdenti? E se tutti meritano un premio, forse è il caso di unire le forze per ottenerne uno più grande.
    Ad ogni modo, se le cose stanno così, abbiamo ancora da realizzare molto del vero potenziale della psicologia.

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    • miriamcolumbro

      Caro Antonio, la sfida è
      Caro Antonio, la sfida è partire dal contesto del paziente, dalla sua specificità e non dal metodo. Ribaltare la prospettiva a favore del paziente e della complessità del suo ambiente di vita. Non è facile, ma come osservi è la sfida che la psicoterapia è chiamata a cogliere, muovendo saperi dialoganti, e non in contrapposizione per raggiungere l’obiettivo più importante: penetrare in maniera più efficiente ed efficace nelle maglie del sociale. E’ verso questo che ci si muove, con tutte le criticità del caso.
      Non è poi così vero che la terapia cognitivo-comportamentale sia più concreta; anche la ricerca in questo settore presenta delle criticità. Magari ne parlerò in altre puntate.
      Grazie per le tue riflessioni.

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