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Tutto chiede salvezza. Una storia folle, più che una storia di follia

23 Dic 22

A cura di Matteo Balestrieri

La serie televisiva ”Tutto chiede salvezza” disponibile su Netflix è stata presentata come una buona rappresentazione di ciò che avviene nella realtà particolare di un reparto psichiatrico italiano. La serie deriva da un romanzo dallo stesso titolo scritto da Daniele Mencarelli, che ripropone una sua esperienza personale passata e che ha riscosso un buon successo ed una critica piuttosto positiva.
La storia è quella di Daniele che ha uno scompenso psicotico a seguito dell’uso di sostanze che culmina in una aggressione al padre. Per tale motivo viene ricoverato in un reparto, che dovrebbe essere un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC), luogo deputato al ricovero contro la volontà del paziente (un TSO). Dato che il protagonista non si rende conto del proprio stato e non accetta il ricovero, l’indicazione al TSO ci sta tutta. Nel corso della settimana di ricovero Daniele impara a conoscere i suoi compagni di stanza, l’incendiario Madonnina, l'emotivamente discontrollato Gianluca che si sente donna, Giorgio con disabilità intellettiva che non ha superato il lutto per la perdita della mamma, il saggio e bonario Mario che fa un po’ da papà a Daniele, e il catatonico Alessandro. A partire da una diffidenza iniziale verso la diversità degli altri, Daniele sviluppa nel corso della settimana rapporti sempre più intensi ed emotivi con tutti loro.
Il film può essere letto o visto a diversi livelli. Uno di questi è legato al messaggio che non bisogna avere paura della malattia mentale e quindi bisogna essere vicini a chi soffre, sia emotivamente che capendone le ragioni. Un altro punto di vista è invece lo sguardo che arriva dal film (e immagino dal libro, che non ho letto) su come funziona la psichiatria.
Non dubitando che quella raccontata sia una esperienza personale, non voglio sostenere che ciò che viene rappresentato è inverosimile. Penso però che dia, al giorno d’oggi, un’immagine della psichiatria critica e assolutamente fuorviante, direi perciò immeritatamente negativa rispetto a come vengono – o dovrebbero essere – gestiti i pazienti ricoverati in un SPDC.
Vado per punti.
Punto 1, il ricovero in TSO. Nella stanza sono ricoverati insieme a Daniele sei pazienti di tipo assai diverso, tutti apparentemente in regime di TSO. Ci si chiede quale sia il motivo per cui questi pazienti debbano restare ricoverati in TSO, dato che nessuno di essi manifesta stati di agitazione o contrarietà al ricovero. Ci si chiede in effetti per quale motivo essi siano stati ricoverati e cosa ci si aspetti che succeda per essere dimessi a parte il passare del tempo. Sappiamo che la legge prevede che il TSO perduri per un massimo di sette giorni, con l’obiettivo comunque di scioglierlo appena possibile grazie al convincimento del paziente. Viene qui invece dato per assodato che deve durare sette giorni senza nessuno sconto, e d’altra parte non mi sembra che ci sia nessuno psichiatra che voglia cercare di convertire il protagonista a un trattamento volontario. Quindi il messaggio che si riceve è che chi viene ricoverato dovrà stare in reparto per sette giorni, qualunque cosa succeda, perché la legge prevede che sia così. Messaggio falso.
Punto 2, il luogo. La stanza di ricovero appare decisamente più una stanza di un vecchio manicomio che una stanza di un SPDC. Quest’ultimo dovrebbe avere stanze con due letti, non certo camerate con diversi letti contrapposti. Il luogo è sito al primo o secondo piano e le finestre sono perennemente aperte. Di fatti, la tragedia si realizza, ed il colmo è che viene derubricata subito come un incidente di percorso, una disgrazia. Ma stiamo scherzando? Nella vita reale, il responsabile del SPDC verrebbe immediatamente indagato e probabilmente anche condannato per non aver messo in atto adeguate misure di sicurezza. E con lui sicuramente il medico di guardia. Qui invece ci si limita a rattristarsi su quanto è accaduto. Fatto del tutto inverosimile.
Punto 3, il personale. Qui siamo al cliché più stantio dell’ospedale psichiatrico. Gli psichiatri sono inizialmente scostanti e infastiditi dalla presenza del protagonista (ma perché?). Poi nel corso di sei puntate diventano “buoni” e quasi premurosi. Stiamo scherzando? Riduciamo ancora l’immagine dello psichiatra allo stereotipo del medico buono o cattivo? Oltretutto essi sono del tutto assenti nella stanza di ricovero, passando ogni tanto distrattamente. Sembrano ignorare completamente l’anamnesi di pazienti stessi: lo psichiatra, dopo il defenestramento del paziente, chiede correndo all’infermiere “ma aveva precedenti di suicidio?”. L’infermiere stesso (o supposto tale, svolge spesso mansioni da OSS) ha un atteggiamento umorale e svogliato. Si alterna con un infermierina gentile che appare alle prime armi e un’altra più di polso presente di notte e che si lascia convincere ogni tanto a dare qualche sonnifero in più (ovviamente tutto senza registrare niente sul diario clinico). E’ credibile che un reparto di SPDC possa contare su tre infermieri in tutto? Qualcuno ha idea che è necessario garantire i turni ed è necessaria la presenza di legge di personale infermieristico adeguato? Non ci si può credere.
Punto 4, la gestione dei pazienti. Le degenze maschili e femminili sono separate da porte chiuse. In realtà il protagonista fa quello che vuole, passa impunemente dalla propria sezione all’altra e insieme alla sua amica pure ricoverata organizza un’uscita fuori del reparto. E nessuno si accorge di niente. Inoltre nel momento di scompenso di Giorgio sembra di assistere ad un film dove il protagonista (o il cattivo) mette fuori uso medici, infermieri e compagni di ricovero man mano che ognuno si avventa singolarmente contro di lui. Fino a che lo psichiatra più forzuto lo blocca con un’abile mossa di arte marziale. Nessuno evidentemente ha fatto una formazione su come affrontare queste situazioni, e d’altra parte essendoci solo due-tre operatori in reparto è anche inutile pensare ad una azione congiunta, per non parlare di de-escalation. Riprovevole.
Punto 5, il messaggio. Qual è il messaggio di questa serie? Forse una denuncia contro la psichiatria? Se fosse così (e credo che questo fosse un intento del libro) dal film non emerge, poiché sembra piuttosto che sia presente un messaggio buonista. Forse allora che gli psichiatri in fondo non sono cattivi? Se fosse così, si sarebbe potuto ottenere lo stesso messaggio presentando psichiatri professionalmente preparati, che lavorano in condizioni previste dalle normative, e non psichiatri frustrati che lavorano da soli in condizioni di isolamento, senza nessun lavoro di equipe e supervisione. Facile poi dire che hanno il cuore buono. Forse, infine, che la malattia mentale non deve essere temuta, che le persone con disturbi possono essere avvicinate e comprese? Se fosse così, lo scopo potrebbe essere forse raggiunto, all’interno comunque di un contesto distorto che racconta di un gruppo di sopravvissuti (al ricovero), uniti perciò dalle avversità. Forse che un ricovero in psichiatria di una settimana cambia le persone? Che dire allora del fatto che, al di là del finale aperto e forse consolatorio, Daniele ritorna dopo la dimissione alle sue frequentazioni discotecarie, dove l’uso di cannabis è implicitamente incluso.
In conclusione, per amore di verità voglio dire innanzitutto che tutti quelli che hanno letto il libro mi hanno detto che era molto bello. Forse anche il film è formalmente interessante e ben recitato. La mia seria preoccupazione però è un’altra. Se vogliamo vedere questa serie come una telenovela possiamo accettare serenamente il percorso dei protagonisti dal male al bene, dalla ignoranza alla comprensione, dal rifiuto alla vicinanza. Ma se vogliamo assegnare a questa serie il compito di insegnare che cosa sia al giorno d’oggi la cura della malattia mentale e come lavorano quotidianamente gli operatori in questo campo, siamo completamente fuori bersaglio. Non si può ancora oggi pensare allo psichiatra in termini di buono o cattivo, non lo si può dipingere come un medico interessato oppure assente, egli non può essere concepito come colui che muta progressivamente il proprio atteggiamento diventando nel corso di una settimana disponibile. Al contrario, il fatto che gli psichiatri siano medici professionalmente preparati, attenti e responsabili, oltre che di buon cuore, è cosa che non emerge assolutamente. In questo senso non abbiamo fatto alcun passo in avanti rispetto a “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. E questo è molto grave.

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