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TUTTO COME PRIMA (O QUASI)

21 Ago 20

A cura di francescaspinozzi


Di Francesca Spinozzi, psicologa psicoterapeuta, Associazione Rete Italiana Noi e le Voci
 
Alla ripresa del gruppo dal 13 maggio, nel rispetto delle norme da seguire per l’emergenza coronavirus, ci si ritrova nella stanza in cerchio, più distanziati del solito, con l’igienizzante a portata di mano e il volto semicoperto dalle mascherine. L’atmosfera però è la stessa di prima del lockdown, il distanziamento fisico sembra non corrispondere ad una distanza emotiva.
Ritrovo Rosa con lo stesso sorriso anche dietro la mascherina, lei per quello che si poteva ha continuato ad uscire il più possibile di casa anche durante il lockdown, perché sa quanto può essere deleterio nel suo caso l’isolamento e la mancanza di contatto con gli altri.
Si sente però che manca qualcosa…la stretta di mano, i saluti con i baci sulla guancia e gli abbracci. Una nuova partecipante, che chiameremo Serena, e che aveva iniziato a frequentare il gruppo due settimane prima della chiusura totale, aveva l’abitudine di arrivare e andare via sorridente con la mano tesa per salutare tutti, stringendo mani e dispensando baci sulla guancia. Ora spontaneamente arriva e va via ancora con la mano tesa, bisogna ripeterle “Non si può” e il saluto viene sostituito dai gomiti che si sfiorano, tutta la vicinanza fisica che possiamo permetterci.
Ritrovo poi Paolo, che in realtà ho visto una volta a settimana regolarmente durante il periodo di pausa, depresso, sfiduciato, disinteressato. Durante gli incontri individuali era tutto concentrato sulla paura del virus, che era diventata una vera e propria fobia. Gli impediva di uscire di casa non solo per la spesa o altre necessità, ma perfino davanti la sua abitazione, dove c’è un grande spazio aperto e nessun contatto con altre persone. Questa paura di morire, questo periodo d’isolamento forzato lo hanno fatto ripiombare in sentimenti di tristezza rispetto alla propria condizione e di mancanza di speranza. Fino a prima dell’emergenza coronavirus Paolo aveva iniziato a vedersi come una persona con ancora qualche possibilità di ripresa, conduceva una vita sociale. Il trascorrere del tempo, l’avvicinarsi di certi traguardi di età erano il margine per il raggiungimento di obiettivi di “guarigione”. Ora questo trascorrere inesorabile del tempo non è più veicolo di raggiungimento di traguardi, ma è diventato il simbolo dell’avvicinarsi ad un declino fatale e ineluttabile.
È seduto, curvo, come se portasse addosso tutto il peso del mondo, ascolta, con gli occhi chiusi, non ha voglia di parlare. Si sente impotente, non può aiutare gli altri: “Che ti posso fare io?”
Non riesco a capire quando sia avvenuto questo cambiamento in negativo, è possibile che la fobia del virus ci abbia distolto da qualcosa che stava accadendo a Paolo nel profondo, e proprio causato dalle misure restrittive imposte dalla pandemia.
Paolo non sente più la voce: “Ho capito che è un fatto mentale e l’ho eliminata”. La chiama la vocetta, come a sminuirla e a distinguerla dalle altre voci, quelle degli altri, quelle con cui si può dialogare, mentre la sua arrivava quando lui non era cosciente. Probabilmente ritiene anche di non avere più molti motivi per partecipare.
Serena ha una vita familiare poco soddisfacente. La voce consolatoria dell’amato, che le si presenta anche visivamente nelle fattezze dell’uomo dei sogni, la catapulta in una realtà idilliaca, dove il suo amore è invidiato e suscita le gelosie di una donna molto importante. Serena vede e sente anche quest’ultima che la minaccia e le dà ordini sgradevoli. Il delirio strutturato di Serena la aiuta ad affrontare le difficoltà quotidiane ma la allontana dai suoi affetti reali e la isola dagli altri.
Claudio conduceva una vita ritirata anche prima e per lui le cose non sono molto cambiate, lo ritrovo comunque sereno, nonostante continuino le lotte con le sue ombre interiori.
Luigi arriva al gruppo nel periodo della fase 2, a fine maggio, quindi già in assenza di contatto; con lui non c’è la stretta di mano iniziale, ma lo sentiamo subito come uno di noi, come se fosse arrivato “prima”. Porta una storia di depressione profonda, di lutti inelaborati, e le emozioni che accompagnano le sue narrazioni si trasmettono agli altri, che dimostrano subito vicinanza e comprensione. Le sue voci sono un ronzio indistinto di sottofondo e, quando si distinguono, parla una voce svalutante, che a volte si relaziona con una voce positiva. Luigi è profondamente interessato a comprendere questi fenomeni, li collega alla sua depressione ed ha voglia di capirli al meglio, per fronteggiarli ed eventualmente eliminarli. È molto concentrato sulla razionalità, sul ragionamento, tende a tenere fuori dalle sue riflessioni le emozioni, come se non c’entrassero niente.
Nel suo caso, è stato il periodo della pandemia, con lo stop obbligato al lavoro e la chiusura forzata, a far peggiorare le sue voci (prima non erano fastidiose, le gestiva senza problemi) e a spingerlo a ricorrere all’aiuto del gruppo.
Luciana, durante il lockdown, ha avuto difficoltà a dormire, le sue voci si sono moltiplicate e l’hanno tormentata notte e giorno, spesso è venuta al Centro di Salute Mentale per colloqui in emergenza. Ha tanto bisogno di sfogarsi e scaricare una grande rabbia. 
L’emergenza coronavirus ci costringe, come abbiamo visto, a parlare di un prima e di un dopo. Prima del covid, dopo il covid… Ci costringe inoltre al cambiamento di setting, ci fa rinunciare alla stretta di mano iniziale che sancisce il contratto terapeutico, ci pone a distanza, con il pericolo del contatto come potenziale veicolo di contagio.
Questo cambiamento può preoccupare per un eventuale turbamento del campo analitico.
Dall’esperienza con il gruppo si evince che in realtà non influisce più di tanto sullo svolgimento degli incontri: come dicevo all’inizio, la vicinanza emotiva rimane. Emozioni, vissuti, narrazioni, ma anche scontri e conflitti fluiscono allo stesso modo di prima. Quando si parla e si dialoga con l’altro le distanze non sembrano esserci. 
Allora il setting modificato non è un elemento penalizzante, perché in fondo il setting non è solo quello esterno, degli ambienti allestiti al meglio per garantire uno spazio protetto e favorevole allo scambio, con le sue regole, ma è anche quello interno, è interiorizzato. Il setting interno riguarda l’assetto mentale dei partecipanti al gruppo, con l’inclinazione al lavoro di ricerca e studio delle voci, che coinvolge gli aspetti intellettuali ed emotivi, nelle dimensioni dell’ascolto, dell’empatia e dell’assenza di giudizio, necessari per la comprensione dei fenomeni. 
Dunque anche noi, come il setting, siamo cambiati, segnati dalle tensioni e dalle ansie dei giorni della chiusura e spaventati dal rischio di ammalarci, dall’incertezza quotidiana. Gli effetti a lungo termine di quest’esperienza di emergenza sanitaria si vedranno probabilmente solo col tempo, rispetto a ciò che essa avrà lasciato sulle nostre abitudini, sui nostri modi di vivere la quotidianità e di rapportarci agli altri. Sarà interessante vedere i risultati dei numerosi studi che si stanno effettuando su questi argomenti e sull’efficacia delle terapie secondo le nuove modalità di svolgimento.
Nel gruppo, però, la voglia di comprendere le nostre esperienze, precedente all’arrivo della minaccia coronavirus, rimane la stessa. La curiosità e la vivacità intellettuale accompagnano sempre i nostri incontri, scavando nelle esperienze di vita e nei vissuti emozionali. Certo, ci mancheranno gli abbracci, le pacche sulle spalle, le strette di mano, i gesti di affetto, ma sappiamo ora che le emozioni sottostanti ci sono e si trasmettono comunque, sia seduti in cerchio vicini sia in un cerchio più allargato e seduti a debita distanza.
È come se prima fossimo abitanti di una stessa isola e ora singole isole, però appartenenti allo stesso arcipelago, perché tra le isole c’è un legame e, in fondo, al di là delle tecniche e degli orientamenti terapeutici, è la relazione che cura.
 
 
 

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