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Un caso di transfert con acting out

18 Giu 14

A cura di Maurizio Montanari

Allego il caso clinico esposto al Convegno Nazionale della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, tenutosi a Roma il 14 e 15 Giugno 2014.
I dati sensibili del caso, esposto e in via di pubblicazione, sono stati modificati da un punto di vista geografico, anagrafico e altro, in omaggio alla legge sulla Privacy e al percorso personale.

A male parole
 
Non sto più bene nella coppia, così esordisce Lea al primo incontro. È fidanzata da un anno con un coetaneo che le propone la convivenza, spiazzandola ed acuendo stati d’angoscia presenti sin dall’inizio del rapporto. È tutto troppo quieto, così dà inizio al racconto di una vita nella quale la pace appare come un elemento di sorpresa destabilizzante. Quarantasei anni, nata per sbaglio, un’infanzia segnata da una madre il cui atteggiamento oscillava tra l’anafettivo e il sadico. La picchiava con gli utensili da cucina o con la cinghia per un nonnulla, la rinchiudeva in cantina se rincasava tardi. Punizioni crudeli senza motivo, se non il suo essere semplicemente viva. Rispondeva agli insulti accettando l’ingaggio perchè era il solo modo per farla parlare con me. Ecco emergere la sua questione cruciale: Come può una madre non amare la figlia?. Il padre, anch’esso vittima degli strali materni, mai la protesse. La relazione tra i genitori è un enigma: pur se segnata da violenza reciproca, Lea sa che si amavano e mai si divisero. Lei invece appena maggiorenne uscì di casa, chiamandosi fuori da un rapporto perverso nel quale era di troppo. Ebbe diversi uomini, identica fu la modalità di stare con loro: provocazioni infinite sino ad innescare nella coppia una litigiosità culminante nella degenerazione verbale, tale da indurre il patner o ad andarsene, o ad assumere atteggiamenti violenti. Fuggiva quando l’ira e le percosse dell’uomo, non gli insulti, oltrepassavano il limite dell’incolumità fisica. Oggi il mio compagno non accetta il litigio. Accetta? chiedo. Sì, non riesco a non cercare la lite, oggi mi manca la sofferenza. Due i tentativi terapeutici di lenire l’angoscia finiti male in quest’ultimo anno; i colleghi l’hanno cacciata infastiditi dalle provocazioni (fumo in sala d’attesa, richiesta di esibire i titoli accademici). Reagisce male quando freno il turpiloquio contro questi psicologi col quale riempie le prime sedute, maleparole che le danno un godimento che limito. Credo che l’errore dei colleghi, che hanno accettato l’ingaggio adirandosi, sia stato quello di non riconoscere la posizione transeunte assegnata dal transfert nella quale, come scrive Lacan, I fenomeni psichici si presentano per essere intesi da quell’Altro che è li, anche se non lo si sa[1]. Si sono ritenuti infatti i destinatari finali delle provocazioni, ripetizioni della richiesta d'amore distruttivo rivolta all’Altro materno, declinata ricercando il posto dell’oggetto maltrattabile. Cosa è successo nello studio dei colleghi? Lacan definisce l’acting out qualcosa della condotta del soggetto che si mostra all’Altro, un transfert selvaggio dove il soggetto sa benissimo quello che fa e lo offre all’interpretazione dell’analista che Ha nondimeno la responsabilità che pertiene al posto che ha accettato di occupare[2]. Si tratta dunque di male parole rabbiose che colpivano i colleghi trapassandoli, dirette a quella madre che trattenne per sè il segreto dello stare con un uomo. Tre gli enigmi di Lea: perché la madre non le ha svelato il segreto grazie al quale è riuscita a fare coppia col padre, dandole i codici di quella femminilità della quale si sente sprovvista? Come farsi una ragione della totale assenza di amore materno? Cosa ha tenuto uniti i genitori? A due di questi ha tentato di dare risposta: fare coppia con l’uomo significa scatenarne le ire, ripetendo lo scenario appreso. La sola posizione per essere amata dalla madre fu quella di occupare il posto dell’abusata ed insultata. Lea prende forma nella contrapposizione, fugge se l'Altro s’inferocisce, ma è invasa dall’angoscia quando il rapporto con l’Altro tende allo zero. Tanti sono i tentativi di provocazione ai quali non reagisco mai. Cerca di creare disordine, essere redarguita, ammonita, vista. Il mio no alla lite ha inizialmente messo al lavoro Lea, permettendole per la prima volta di raccontare la sua storia. Ma questo, unito alla pace di coppia non voluta, determina uno stato crescente di angoscia che diventa vieppiù invalidante e sembra preludere ad uno scompenso. La sofferenza aumenta come se la posizione di chi cerca la violenza dell’Altro, che oggi manca, non sia semplicemente il tentativo di risolvere l’enigma materno, quanto un abito cucito per sostenere il suo posto nel mondo. Ecco infatti il timore delle ultime sedute: essere un vuoto involucro senz’anima. Non cambia lavoro, pur desiderandolo, temendo che, di fronte ad un colloquio, si sveli il suo essere un automa senza contenuto. Un bluff che anche il fidanzato può scoprire. Sono vuota, mi sgretolerei se lo sapesse. Non ha mai avuto questo timore nelle relazioni trascorse? chiedo. Nessuno di loro ha avuto il tempo di conoscermi a fondo. Costituirsi come oggetto maltrattato dall’Altro sembra un sinthomo, un “elemento riparatore”, qualcosa che, come scrive J.A. Miller, Non è da guarire, ma si presenta perché se ne faccia uso[3]. La mia posizione dovrà mutare, diventando segretario meno silenzioso, più attivo, non complice, del modo col quale ella organizza il suo mondo cercando il dolore. Desidera mantenere la relazione di coppia, vincendo la sua tendenza a farla degenerare. Sente che qualcosa di distruttivo ed attraente deve restare alle spalle. Vuole provare ad occupare lo sconosciuto posto dell’oggetto del quale l’Altro ha cura, ma non senza un poco della sua sofferenza. Su questo caso, e la sua conduzione, posso dire una cosa.
E’ un caso che mi ha interrogato, per questo lo porto a dibattito.
La sola cosa certa che so, è da dove ne parlo.
Il solo motivo per il quale sono riuscito a resistere a questi attacchi riconscendone il messaggio che vi era celato, mettendomi da parte e non mettendo me stesso al centro delle invettive, è perché io incontarto il controtransfert rovinoso. A causa del quale le mie parole non potevano dirigersi al mio Altro,  perché lo spazio era occupato da una  presenza reale.  Grazie a quello che ho avuto la sventura di incontrare, ho capito solo a posteriori quale sia l'autentica posizone dell'analista. Che riesce ad essere li, senza fare entarele sue pulsioni, le sue paure, le sue parti non lavorate. 



[1]J.Lacan. Il Seminario VIII, Il Transfert.p 192
[2]J. Lacan. Seminario X, L’angoscia. P137-138
[3]J.A. Miller, Pezzi staccati. P 32

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