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Una bambina di 9 anni ammazza per sbaglio con una mitraglia il suo istruttore al poligono di tiro

28 Ago 14

A cura di Luigi D'Elia

Una bambina di 9 anni in Arizona uccide per sbaglio in un poligono un istruttore di armi che la stava addestrando all’uso di una mitraglietta da guerra Uzi mentre il padre riprende la scena. Non il solito incidente (diffusissimo negli USA) di bambini che trovano armi in casa e sparano per sbaglio mentre ci giocano. No, quella bambina faceva tutto con il consenso e la partecipazione di adulti, faceva tutto a causa degli adulti.

Il tono dei commenti in Italia oscilla tra l’indignazione per l’inflazione di uso di armi in America, la rabbia verso quei genitori incoscienti e irresponsabili, la compassione per la vittima e soprattutto per la bambina che porterà a vita un fardello psicologico enorme a causa di questo fatto. Molti, qui da noi, i commenti disfattisti del genere “ben gli sta a questi imbecilli di americani, se la vanno proprio a cercare”.

Personalmente ho capito che di fronte a fatti del genere la prima cosa da fare, almeno nel ruolo di osservatore di fenomeni psicosociali, è quello di sospendere momentaneamente le risposte emotive, specie quelle di indignazione. L’indignazione, diversamente da quanto sostenuto da molti, è un sentimento di inconcludenza e impotenza e non è per nulla trasformativo. Per questo è così diffuso e a buon mercato.

Diverso è tentare di comprendere. Comprendere ad esempio la catena di atti, pensieri, significati, senso, che conduce un genitore a pensare come attività educativa o semplicemente ludica quella di condurre la figliola di soli 9 anni a sparare proiettili veri in un poligono. Proviamo anche ad accantonare per un attimo tutte le griglie interpretative anch’esse facilmente preda del pensiero morale o moralistico: l’assenza di confini tra le generazioni con bambini adultizzati e adulti infantilizzati, l’escalation del mercato delle armi e il primato del commercio sul buon senso, l’assenza della funzione paterna, e così via. Sospendiamo tutto almeno per un attimo.

Capisco che per noi in Italia la cosa sia davvero difficile da comprendere o solo ammettere come plausibile che un padre porti la figlia di 9 anni a giocare al poligono invece di accontentarsi di sparare alla consolle del videogioco, ma leggendo i primi 4-5 articoli (trovati su google) relativi a questa funesta notizia nei principali network americani (CNN, NYT, etc.) mi si è spalancata tutt’altra realtà.

Nel riportare la notizia questi organi di informazione sottolineano poco, se non per nulla, la questione dell’opportunità che una bambina così piccola svolga un’attività del genere e ancora meno sottolineano il ruolo di responsabilità dei genitori in tutta la vicenda. Si soffermano molto invece sugli aspetti tecnici dell’ “incidente” intervistando esperti di armi che si limitano a rimproverare l’imprudenza e l’imperizia dell’istruttore nel governare quella sessione di tiro. Casomai l’errore è stato quello di non usare armi proporzionate con l’età (che in America le industrie di armi dispensano abbondantemente con accattivanti colori e gadget di supporto).

Grande il mio stupore iniziale di fronte a questo festival dell’irresponsabilità, ma presto mi viene in soccorso questo altro articolo del Time che mi fa capire il nesso. Esso si domanda infatti: “Come si può ad una persona così giovane consentire di sparare con un'arma ad alta potenza? La risposta: Perché lei è stata accompagnata da un adulto”. La legge federale lo consente, la presenza dell’adulto è la garanzia, gli americani devono poter godere liberamente della possibilità di usare le armi a scopi ludici e difensivi come, quando e quanto desiderano, senza vincoli di sorta. Ogni possibile restrizione di questa libertà sancita costituzionalmente è una forma di repressione.

La domanda quindi non è “come consentire ad una bambina di sparare” tout court, ma “come consentire di sparare con quell’arma inadatta”. Sembra pazzesco ma è così.

Certo, anche in America esiste un fronte contrario alla pervasività delle armi e che magari punta il dito verso quel padre incosciente, fronte la cui presenza si nota soprattutto nei commenti su Facebook e forse in organi di controinformazione. Io credo però, che per come la questione viene presentata, raccontata, rappresentata nel mainstream quel genitore si limiterà forse a dispiacersi della morte dell’istruttore Charles Vacca, ma non si porrà minimamente il dubbio dell’inopportunità della sua scelta a monte.

La legge lo consente, i media lo consentono e non lo criticano, i valori educativi lo prevedono, per quale motivo mettere in discussione questa libertà? Nessun motivo.

Chi avesse ancora dubbi su quali siano i meccanismi di obnubilamento, dispercezione, manipolazione dei piani sociali e mediatici nella società odierna su ogni piega della nostra psiche e su come essi incidano profondamente su ogni atteggiamento, comportamento quotidiano, morale, educativo, relazionale, credo che dopo episodi come questo probabilmente ne avrà qualcuno di meno.

Ed allora, dismesse e depositate in terra tutte le armi interpretative psicologiche, sociologiche e filosofiche a mia disposizione non mi resta che appellarmi all’unica fonte attendibile per comprendere episodi del genere, e cioè la serie cartoon dei Simpson che meglio di ogni altro tentativo di comprensione, descrizione e narrazione, rappresenta il non-sense della cultura americana.

Buona visione a tutti.

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