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Una cura per il rifiuto di vivere: la “Llaneza” di Borges

11 Feb 20

A cura di Sabino Nanni

Una delle esperienze peggiori è accorgersi di colpo d’essere sempre stati accettati non per quel che si “è”, ma per quel che si “fa”, ossia per quel che “si serve” ad altri. La vivono coloro che, a seguito di malattia cronica o di vecchiaia, non sanno più “fare” le cose di una volta, e gli altri li emarginano perché, a torto o a ragione, ritengono che costoro non posseggano più capacità residue, e che quelle del passato non siano più recuperabili. Ci si sente come uno strumento che “vale” solo finché funziona e serve; uno strumento che, quando si rompe e diviene inutile, viene gettato in un canto senza rimpianti. Ci si sente come un bambino che, rifiutato dalla mamma, non trova più altre braccia che lo stringano, che lo “tengano” (lo “holding” winnicottiano ha anche il significato di “tenere” nel senso di accettare). Trovo che questa sia una delle possibili motivazioni del rifiuto della vita e delle cure di certi malati (quella che, in psicoterapia, si chiama “reazione terapeutica negativa”, ed in farmaco-terapia si chiama “reazione paradossale” o “resistenza” all’azione dei medicamenti, anche di quelli d’importanza vitale): “Non mi avete mai accettato per quel che sono, ed ora pretendete che io guarisca perché ritorni a servirvi? E allora quel che vi meritate è che io resti ammalato, o anche che io muoia!”. Anche il medico viene vissuto come fosse al servizio delle esigenze altrui, come se lo scopo della cura non fosse restituire il paziente ad una vita per lui vivibile, ma piuttosto farlo tornare a lavorare, o ad occuparsi delle faccende domestiche, o a sostenere i familiari, o a lenire i loro sensi di colpa, o a soddisfare le ambizioni terapeutiche del curante stesso.



 
Come affrontare queste difficili situazioni? Credo che, come in altri casi, occorra un’esperienza correttiva, ossia un rapporto umano che corregga e neutralizzi l’esperienza mortifera del rifiuto; un’esperienza i cui vari aspetti sono sintetizzati nel vocabolo spagnolo “llaneza”. Questa meravigliosa parola contiene i significati di “semplicità”, “spontaneità”, “familiarità”, “confidenza”. Descrive l’esperienza della piena accettazione per quel che si è, indipendentemente da quel che si fa. A questo vissuto, Jorge Luis Borges dedicò una poesia, di cui riporto alcuni versi:

No necesito hablar
ni mentir privilegios;
bien me conocen quienes me rodean,
bien saben mis congojas y mi flaquenza.
Eso es alcanzar lo màs alto,
lo que tal vez nos darà el Cielo;
no admiraciones ni victorias,
sino sencillamente ser admitidos
como parte de una Realidad innegable,
como la piedras y los arboles.

(Non ho bisogno di parlare / né di mentire privilegi; / bene mi conoscono coloro che mi attorniano, / bene sanno le mie ansie e le mie debolezze. / Ciò è raggiungere il più alto, / quello che forse ci darà il Cielo: / non ammirazioni né vittorie / ma semplicemente essere ammessi / come parte di una Realtà innegabile, / come le pietre e gli alberi).
Un rapporto fatto di vera familiarità e confidenza rende possibile la spontaneità. Non occorre nascondere le proprie angosce e debolezze, non occorre vantare privilegi, né fare alcunché di speciale per conquistarsi l’ammirazione e l’approvazione altrui: si può essere tranquillamente quel che si è, senza doversi confrontare con le sollecitazioni, spesso contraddittorie, che provengono dal mondo esterno; e tutto questo è così certo che non occorre neppure parlare. Ritorna, così, quell’esperienza che per prima ci legò alla vita: essere tenuti fra le braccia della mamma, accettati per quel che siamo, e non per quel che facciamo, o siamo destinati a fare. Un’esperienza che, nei casi fortunati, un terapeuta o una persona sensibile riesce ad offrire per un poco a chi soffre per l’esclusione e il rifiuto; ed è forse ciò che ciascuno di noi s’attende dal Cielo, per l’eternità.

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