Una delle esperienze peggiori è accorgersi di colpo d’essere sempre stati accettati non per quel che si “è”, ma per quel che si “fa”, ossia per quel che “si serve” ad altri. La vivono coloro che, a seguito di malattia cronica o di vecchiaia, non sanno più “fare” le cose di una volta, e gli altri li emarginano perché, a torto o a ragione, ritengono che costoro non posseggano più capacità residue, e che quelle del passato non siano più recuperabili. Ci si sente come uno strumento che “vale” solo finché funziona e serve; uno strumento che, quando si rompe e diviene inutile, viene gettato in un canto senza rimpianti. Ci si sente come un bambino che, rifiutato dalla mamma, non trova più altre braccia che lo stringano, che lo “tengano” (lo “holding” winnicottiano ha anche il significato di “tenere” nel senso di accettare). Trovo che questa sia una delle possibili motivazioni del rifiuto della vita e delle cure di certi malati (quella che, in psicoterapia, si chiama “reazione terapeutica negativa”, ed in farmaco-terapia si chiama “reazione paradossale” o “resistenza” all’azione dei medicamenti, anche di quelli d’importanza vitale): “Non mi avete mai accettato per quel che sono, ed ora pretendete che io guarisca perché ritorni a servirvi? E allora quel che vi meritate è che io resti ammalato, o anche che io muoia!”. Anche il medico viene vissuto come fosse al servizio delle esigenze altrui, come se lo scopo della cura non fosse restituire il paziente ad una vita per lui vivibile, ma piuttosto farlo tornare a lavorare, o ad occuparsi delle faccende domestiche, o a sostenere i familiari, o a lenire i loro sensi di colpa, o a soddisfare le ambizioni terapeutiche del curante stesso.
No necesito hablar
ni mentir privilegios;
bien me conocen quienes me rodean,
bien saben mis congojas y mi flaquenza.
Eso es alcanzar lo màs alto,
lo que tal vez nos darà el Cielo;
no admiraciones ni victorias,
sino sencillamente ser admitidos
como parte de una Realidad innegable,
como la piedras y los arboles.
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