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Una per una. Madri, azioni violente e diagnosi mediatiche

29 Dic 14

A cura di Maurizio Montanari

Nel proliferare di articoli, opinioni e dissertazioni che hanno inondato i media dopo l’omicidio Stival,  piani diversi  (la reazione emotiva della pancia del paese, italianamente divisa tra colpevolisti ed innocentisti,  e l’analisi ‘clinica’ sul movente che avrebbe spinto l’ipotetica omicida ad agire) paiono fondersi in unico discorso: un polpettone  di sensazionalismo paesano e criminologia abbozzata, condito con luoghi comuni capaci di torcere elementi di clinica al fine di validare scientificamante questa o quell’altra ipotesi. Nulla di nuovo sotto il sole. Questa santeria è uso comune in un paese  nel quale agli esperti televisivi viene concessa una delega quasi totale su vari argomenti, tra i quali gli omicidi che lasciano interdetto il corpo sociale.
E’ superfluo dire, ma va detto, che non è certo una disquisizione sulla colpevolezza o meno della madre sospettata l’oggetto di queste righe. Io so che ancora nulla si sa nel merito.
Quello che credo meriti una riflessione, al di la dunque del caso specifico, è la constatazione che in questo grand guignol si vanno ingrossando le fila
 di coloro i quali, mancando quasi sempre delle minime (e necessarie) nozioni di clinica differenziale (che però utilizzano),  partono da una base di colpevolezza data  per scontata (sic),  sulla quale si imbastiscono discorsi che  tracimano  pericolosamente,, e involontariamente,  in una sorta di giustificazionismo a-critico.
 
Alla base del gesto ci sarebbe una sorta di stato di ‘malattia’ attribuito alla donna, deflagrato in concomitanza con il suo essere diventata madre.    Questa ‘malattia’ ( che però in alcuni articoli viene invece posta come precedente e dunque latente alla fase della maternità)    è un plinto che funge da punto di appoggio sul quale vengono raffazzonati  elementi teorici presi qua e là.  
Questa linea di discussione, fondata su di un’evidenza indiscutibile, vale a dire la sempre più difficile condizione del mettere al mondo un figlio nella contemporaneità, scivola più volte nei commenti giornalistici in una conclusione tutt’altro che conseguente. Da molti approfondimenti  apparsi sui quotidiani si evince che sarebbe la condizione stessa di maternità  ad essere strutturalmente  ‘invalidante’, generatrice ‘de fatco’  di uno stato di patogeneticità. In un discusso articolo dell’Huffingont Post (nel quale si dà ovviamente per scontata la colpevolezza) a ‘commetterlo (l’omicidio) è stata una donna diversa: una donna piena di problemi. Una malata’. Nel medesimo filone troviamo, tra le varie sofferenze delle quali la madre avrebbe sofferto, l
’incapacità di gestire le emozioni', ' la ‘mancanza di rete', il 'padre non trovato’ .
 Più sofisticato il 'suicidio cercato attraverso la morte del figlio', l’immancabile  'infanzia difficile e dolorosa' 
e altre cose così.
Quando l'analisi si fa più 'sofisticata' allora entra in gioco l'onnipresente 'depressione',  che naturalmente conduce in modo   quasi diretto all’azione omicida verso il figlio. La depressione che colpisce le madri e che a vari livelli riguarda tutte’ è la causa di ciò che è avvenuto’, si legge nelle righe di una nota scrittrice a commento dei fatti. 
 In tal modo, depresso diventa in automaticamante omicida, come da vulgata mediatica ormai consueta (‘stermina la famiglia, era in cura per uno stato depressivo’ ci ricorda ogni tanto la tv).  
Una aberrazione diagnostica, un non sequitur, un calderone  di termini clinici, credenze e adagi popolari. Non ho ancora sentito 'lo sradicamento territoriale', o il 'vedere la propria femminilità sfiorire nella maternità' o 'il marito troppo preso dal lavoro' tra le spiegazioni dell'agire della mano omicida. Ma so che sono in agguato di penna. 
Sono stati usati in casi simili, torneranno fuori.
Nessuno, dico nessuno, ancora ha abbozzato un minimo di indagine critica,
 di approfondimento strutturale (poiché la colpa è ancora da provare) solo ci sono in giro stralci presunti della vita della suddetta, dedotti ora da una dichiarazione di un congiunto , ora da ' conversazioni telefoniche' (sic) In questo modo frasi quali ' quella la era violenta sin da piccola, aveva sensi di persecuzione.. ' vengono prese come verità oggettive, ( l'hanno detta senza sapere di essere intercettati, dunque è vero')  che sfociano in elementi diagnostici indiscutibili. Tutto questo fissa un precedente, secondo il quale il diventare madre in stato di difficoltà porta tout court a passaggi all’atto violenti verso i figli.    Lasciando per strada colpevolmente elementi quali la capacità di intendere e di volere, la possibilità di scelta del soggetto, la sua responsabilità.
Un altro filone alquanto  detestabile che sgorga mediaticamante  da questa buia vicenda, è l’insensato paragone con episodi relativi alla violenza dell’uomo,  solitamente omicida e dunque più normale, supportato da frasi quali ‘ (..)  una società antropocentrica e maschilista che si scrolla le spalle davanti all'inevitabile peso della genitorialità e ne fa una questione di istinto femminile. Perché quando un padre uccide un figlio è solo un uomo violento, un barbaro osceno ma accettabile. Ci sta, è nel conto delle cose: il maschio ammazza, la donna cura’.
 
Ormai tutto è espertologia, è baccano mediatico.
 Tutto deve trovare una giustificazione clinica.
 Anche quando questa o non c'è, o nessuno ancora si è dato da fare per trovarla.
 
Esistono delle barriere tra la capacità di intendere e di volere, e la non capacità di farlo. 
Gli stati dissociativi, le psicosi, i passaggi all'atto non riconosciuti esistono. Esistono eccome.
 Ma stanno in luoghi ben precisi. E con altrettanto scrupolo e precisione devono essere accertati.
 Con perizia e indagine. E, nel caso, usati non per infliggere pene al malato. Ma per salvare se stesso e i propri congiunti dalle conseguenze di questi agiti incontrollabili.
 Per tutto il resto, lo insegna la clinica, si sceglie.
 Nella difficoltà, nella tragicità di certe vite. 
Nella povertà materiale, morale e spirituale  nella quale molte donne vivono e diventano madri, si sceglie.
 Nella solitudine feroce causata molte volte dall’avere un figlio, nella impegnativa e tribolata missione di crescerlo, si sceglie.  Di vivere o morire.
 Di dare la morte, o di accudire. Si stima che, in Italia, negli ultimi 10 anni  siano stati uccisi in ambito familiare 243 bambini ( fonte : associazione Meter Onlus). Non è possibile pensare che ci sia il comune denominatore della follia dietro a ciò.
Alcuni mesi fa, ho partecipato ad un seminario sulla violenza contro le donne. Al mio fianco c’era la madre di una ragazza massacrata dal marito il quale, con una trappola, la condusse nel sottoscala uccidendola con un corpo contundente, seguito da un sms all’amante ‘ho ucciso mia moglie, non possiamo sentirci per un po’. Lo strazio nelle parole di questa madre coraggiosa, era superato in sala solo dallo stupore suscitato dal suo racconto, nel quale descriveva anni di calvario personale e giudiziario, al termine del quali fu uno ‘scompenso emozionale’ legato ‘all’inadeguatezza per il ruolo di padre’ a fornire al reo un sostanzioso sconto di pena. La platea fu unanime nel condannare l’equazione paternità­= malattia=violenza verso la moglie, convinta che quell’uomo fosse un individuo libero e responsabile (oppure passibile di giudizio di infermità mentale) al di là del suo essere padre.
Mentre scrivo, le cronache dicono di due madri le quali, una a colpi di coltello, l’altra gettandolo nel fiume, sembra abbiano ucciso il figlio. Spero che non si ingrossino gli stessi fiumi di inchiostro che hanno invaso le pagine dei quotidiani in queste settimane. Ma qualora  si inneschi di nuovo il dibattito in rete, auspico che si possano considerare queste donne una per una. Ciascuna con la propria storia, le proprie difficoltà. La propria capacità di scelta. Le eventuali turbe della psiche.  

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