Cari Paola, Giorgio ed Ettore,
Ho pensato molto se scrivere questa mail ma penso che sia utile per Voi e soprattutto per me poter gettare su carta quello che è diventato oggi il nostro lavoro e che Voi certamente siete in grado di cogliere, comprendere e condividere.
Sono ormai due mesi che, a seguito della riduzione dei “medici guardisti” mi trovo ad affrontare ben sette turni al mese; turni che si aggiungono ovviamente alla attività ambulatoriale che ogni giorno si deve affrontare.
Sono 20 anni di psichiatria, 16 da specialista, e ciò che ancora rimane della passione che mi muoveva all’epoca dell’università è un grande senso del dovere ed un sufficiente impegno umano verso i nostri utenti. Dico sufficiente perché la stanchezza a cui siamo esposti affievolisce l’energia, la disposizione emotiva e la curiosità che dovremmo tener sempre viva nella nostra professione.
Ecco il turno pomeridiano, che succede alla consueta giornata di CSM.
Un CSM a cui afferiscono utenti inviati da una medicina del territorio esausta, insufficiente, incapace di distinguere gli invii ed i bisogni, schiacciata dalla burocrazia e dalla responsabilità. Classi I e classi 2 diventano la routine ed il paziente spesso valutato al telefono ed inviato “in urgenza” senza alcuna conoscenza dell’organizzazione dei servizi psichiatrici ambulatoriali. I nostri servizi che hanno garantito tempi di attesa sempre ben al di sotto delle richieste regionali, anche durante la pandemia. Servizi che non si sono fermati nemmeno quando gli altri servizi specialistici chiudevano i battenti.
Salgo in reparto ed ecco che mi trovo a condividere con il responsabile SPDC l’ennesimo ricovero “rifiutato” dallo SPDC di riferimento territoriale per le consuete motivazioni risibili; l’ennesimo paziente affetto da politossicomania e tratti antisociali, ceduto dalla psichiatria universitaria alla rianimazione e poi svenduto alla rianimazione di Borgomanero. Ed ecco, in un letto, un uomo aggressivo nei toni, ancora disturbato da sintomi astinenziali, privo di una “psicopatologia endogena” ma ben più impegnativo nella gestione farmacologica ed assistenziale dei nostri “vecchi folli”.
E probabilmente la questione è più complessa e profonda: dove sono i nostri pazienti? Quelli dei libri di psicopatologia, gli “psicotici” , i maniaci, i depressi…sono rimasti pochi, forse in parte raccolti dalle maglie del privato, maglie slabbrate che li vomitano sui servizi per l’emergenza quando ingestibili nei propri cabinet dall’orario definito e dalla disponibilità limitata.
E così i reparti per le urgenze diventano l’imbuto di un territorio sconfitto, fallito, sfaldato.
Quando percepisco le difficoltà e le condivisibili richieste di aiuto dei servizi ospedalieri ripenso alla riforma psichiatrica e penso ad una 180 che probabilmente ha fallito o non ha saputo evolversi con i cambiamenti dell’utenza.
La psichiatria dell’urgenza soccombe al rigurgito di un controllo sociale che si fa tanto più forte tanto alle FFOO è stato vietato di intervenire nelle situazioni che “puzzano” di psichiatria; senza considerare che la maggior parte di queste situazioni mutua dalla diffusione ormai epidemica delle sostanze psicoattive. Utilizzate sempre prima e sempre più potenti, agendo sul cervello, modificano i “comportamenti”. Ed ecco che alla psichiatria viene chiesto di nuovo di occuparsi delle “anomalie del comportamento”, ovviamente di quelle disturbanti e clamorose.
Esiste un SerD, esistono servizi che si dedicano al trattamento delle dipendenze ma non sono disponibili in urgenza né tutti i giorni. “Accesso diretto dalle 8 alle 20 ed anonimato” citava la legge che definiva per prima i SerD; ci interfacciamo con sportelli vuoti, dediti ad una puntualizzazione amministrativa ineccepibile e che gettano sulla psichiatria dell’urgenza gli utenti incontrollabili. A loro modo i tossicodipendenti sono degli “ultimi” come i folli ma hanno certamente un supporto ben meno robusto dai servizi preposti. La psichiatria è nuda ed impotente e li abbraccia ed ingloba obtorto collo quando case, comunità, strade e DEA non tollerano i comportamenti disturbanti.
Finisco quindi il turno in “presenza attiva” ma la notte ancora non è iniziata e mi auguro che il telefono non squilli mai vista la mia stanchezza.
Mai augurio fu meno accolto, ecco la prima chiamata: “ Sono la collega del Dea, c’è una anziana seguita nel privato che da due giorni aggredisce i propri parenti, l’abbiamo sedata col midazolam perché ha menato i nostri infermieri”. Il freddo è pungente, mi rivesto, arrivo in DEA e trovo la paziente sedata, non risvegliabile, vegliata da un parente che esplicita che non avrebbe riportato la madre a casa.
Il DEA è un ospedale da campo, 48 pazienti in attesa di essere valutati, barelle disposte in file disordinate ed i medici urgentisti concitati nel cercare di accorciare quella infinita lista d’attesa.
Le mie motivazioni sono tanto forti sul piano clinico quanto deboli in questo scenario. Ricovero d’ufficio contro il parere dello specialista psichiatra (impossibilitato a visitare la paziente sedata) in accordo con la direzione sanitaria. Non condivido, comprendo, rimetto il cappotto e vado in SPDC.
Ed ecco le consuete lamentele del personale infermieristico…è l’ennesima demente, siamo la spazzatura, dove è la neurologia, il CDCD etc etc. Comprendo, condivido ma ricovero.
Sono ormai le 23 e, a piedi, me ne torno a casa e provo a mettermi a letto. Sbaglio a guardare l’agenda condivisa con il CSM e vedo che il giorno dopo avrò 14 pazienti che mi vorrebbero sufficientemente riposato, sufficientemente disponibile e sufficientemente attento e sensibile alle loro differenti sofferenze.
Non faccio in tempo ad addormentarmi ed ecco ancora la consueta suoneria; sono 20 anni che capita ma ogni volta il battito cardiaco aumenta mentre impugno il telefono e rispondo.
E’ un’altra chiamata alle armi dell’emergenza, una nostra paziente, una “folle vera” che chiede di poter parlare con me. Propongo alla Collega DEA di trattenere la paziente, a suo dire tranquilla e collaborativa fino al mattino, ma mi viene ricordato quale era lo scenario di guerra in cui stavano lavorando quella notte.
Esco, visito, ascolto paziente e parente. Invento una maniera equilibristica ed artigianale per posporre al mattino il ricovero (nel frattempo il paziente ex RIA si era appena addormentato dopo aver messo in difficoltà il turno infermieristico nonché altri ricoverati) al fine di mantenere in equilibrio codegenti e infermieri.
E’passata la mezzanotte, il freddo sulla pelle è ancora più pungente e, tornando a casa sempre a piedi, mi chiedo dove stia andando la psichiatria. E’la stanchezza che schiaccia la passione, gli orizzonti futuri poco rassicuranti che annacquano l’entusiasmo. E’la sconfitta della medicina del territorio. Generale e specialistica. E’l’enorme richiesta che viene fatta alla psichiatria dell’urgenza; che soffre e che si costruisce su pochi letti, pochi medici, ancora baluardo di una attenzione all’Altro che va ben oltre i DRG e le liste d’attesa ma che sta per soccombere sotto il peso dell’esaurimento delle energie.
E’ una psichiatria esanime, dispnoica che comunque regge. Grazie a quelli che restano. Sperando che proprio quelli non siano sempre meno, attratti da sirene più redditizie e meno totalizzanti.
Mi scuso per la prolissità ma sono solo pensieri sparsi, emozioni, riflessioni a caldo, di un ormai “esperto” medico del territorio prestato troppo spesso all’emergenza-urgenza.
Vi ringrazio, buon fine settimana
Carlo Ignazio Cattaneo
Responsabile CSM Borgomanero
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