Se c’è un rapporto che l’arte da sempre indaga e rappresenta, e che il cinema, sin dal suo esordio, narra, proponendosi infinite variazioni sul tema, è indubbiamente il rapporto tra i fratelli.
…Anzi il cinema si deve proprio all’inventiva di due fratelli, Auguste e Louis Lumière, che il 28 dicembre 1895 presentarono al pubblico il loro esperimento scientifico nel Gran Café del Boulevard des Capucines a Parigi. L’invenzione consisteva in un apparecchio brevettato chiamatocinèmatographe, in grado di proiettare su uno schermo una sequenza di immagini distinte, impresse su una pellicola stampata con processo fotografico, in modo da creare l'effetto del movimento. Prima c’era stato Thomas Edison nel 1889 con la sua cinepresa (Kinetograph) e la sua macchina da visione (Kinetoscope), ma spetta ai fratelli Lumière l'idea di proiettare la pellicola, sorprendendo con la forza dell’artificio tecnico un pubblico ignaro, affascinato dalla verosimiglianza delle immagini, fino al punto di alzarsi sgomento davanti ad un treno, che sembrava avanzare inarrestabile di fronte ai loro occhi.
Paternità a parte. Il tema dei "fratelli" si delinea già all’alba dell’immaginario dell’uomo: Caino e Abele, Romolo e Remo, Castore e Polluce, Seth e Osiride, Giacobbe ed Esaù. Miti di fondazione di città, civiltà e culture. Nati forse, come sosteneva Vico, dall'incapacità/impotenza dei primi uomini di formulare concetti astratti per spiegare razionalmente il mondo, per individuare le ragioni esatte di ciò che li circondava, ma anche espressione di un’esigenza di interpretazione del reale, possibilità di ritrovarsi, insieme ad altri e per gli altri, in narrazioni complesse con immagini figurate e poetiche. Mito come arte del racconto, orizzonte di libertà, che traduca in narrazione le tensioni più profonde e gli affetti più intollerabili. Etimologicamente il mito non è altro che la parola, il discorso, la più ricca fonte di informazioni della storia umana, che svela i misteri e dà la risposta a molti interrogativi degli uomini. Il mito dalla tradizione orale si ricolloca nella lingua scritta e diventa storia letteraria. Dai tempi della tragedia greca, fratelli (…e sorelle) sono al centro di vicissitudini, drammi, saghe, leggende, racconti popolari. Gemelli identici o diversi, figli di una stessa madre e di padri differenti, figli della medesima coppia, comunque fratelli. Con il loro tormentato vincolo di sangue e, psicologicamente complesso, legame parentale hanno prodotto molta letteratura, tanta drammaturgia, attivando la fantasia di scrittori e artisti, suscitando quesiti profondi, spesso ripetendo una tragica ineluttabilità. Un’opera su tutte: I Sette contro Tebe di Eschilo, dove ai fratelli, Eteocle e Polinice, è affidata la sorte di una città e il destino di una stirpe. Essi si fronteggiano con le armi in pugno, combattono, si uccidono, salvo poi essere condotto l’uno dentro le mura della città, l’altro abbandonato in pasto alle belve. Sul cadavere di quest’ultimo, poi, si stenderà la mano pietosa della sorella Antigone, che, trasgredendo la legge, ovvero dando sepoltura al fratello, dichiarato nemico, si renderà colpevole di fronte al volere del re Creonte. Uno dei racconti più spaventosi che l’antichità ci abbia tramandato, intessuto di elementi tragici e di interrogativi sul problema della colpa, della responsabilità individuale, della fatalità umana, che in sé riassorbe molti elementi di un tempo ancor più remoto e mitico: il sangue, la violenza, la frontalità dello scontro, il mors tua, vita meache diventa inevitabilmente mors mea. Ma il tema dei fratelli non viene declinato solo tragicamente, ma anche comicamente, lo farà Plauto, in una delle tessiture più animate del teatro classico, Menaechmi (I Menecmi), gioiosa commedia degli equivoci dovuti all’incredibile somiglianza di due gemelli, Menecmo I e Menecmo II, che, separati fin dalla fanciullezza, ignari l’uno dell’altro, eppure in "contatto" tra loro, poiché si cercano tra molte peripezie, solo dopo essere stati decretati pazzi, alla fine si scopriranno fratelli gemelli. Lo faranno liberamente ed elegantemente Shakespeare ne I due gentiluomini di Verona e ancora Goldoni nella commedia realistico borghese I due gemelli veneziani
Naturale che il tema sia caro al cinema; molte le opere di rilievo, solo qualche titolo: Duello al sole di K. Vidor, Fronte del Porto di E. Kazan, Ordet di C.T. Dreyer, Rocco e i suoi fratelli di L. Visconti, I pugni in tasca di M. Bellocchio o, dello stesso autore, il più recente L’Ora di religione.
E arriviamo ad oggi. Recentemente sono uscite due interessanti pellicole sull’argomento. Chi non le avesse ancora viste in sala, le potrà recuperare in dvd.
La prima è Proprietà privata di Joachim LaFosse. Film belga, low budget, ambientato in Vallonia, girato in cinque settimane, ampio consenso della critica al Festival di Venezia dell’anno scorso. Opera scabra, essenziale, a tratti ruvida, non per mancanza di denaro (che è evidente, non deve essere stato molto), ma per scelta stilistica. Il regista venticinquenne, lui stesso nella vita gemello, lavora nel solco dei Dardenne, ma dal punto di vista del linguaggio cinematografico lo fa con una maggiore fissità della macchina da presa, privilegiando la dimensione del Kammerspiel, il realismo assoluto, l’asfissia degli ambienti e delle situazioni, la ripetitività meccanica dei gesti quotidiani e delle piccole ossessioni. Ed è proprio tale ancoraggio al "reale", che emerge in particolare nell’understatement recitativo degli interpreti, a restituire a questo piccolo film la stessa inquietante concretezza di certi drammi quotidiani, che sfociano nella violenza e nella morte, senza alcuna ragione apparente. Decisamente autoriale lo sguardo, che, non indugiando in alcuna costruzione psicologica, ma proprio affidandosi al "verismo" della rappresentazione, ottiene dai personaggi, tutti scatti e rituali, consuetudini e deragliamenti, inquietudini sottili ed esplosioni di rabbia, una autenticità che va ben oltre la linearità del racconto. Non a caso il regista ha scelto due fratelli reali per interpretare i due gemelli eterozigoti. Uno è un…. attore, caro ai Dardenne, l’altro è per l’appunto suo fratello esordiente ( nome) e incarnano i personaggi con una verità ed una autenticità che impressiona, tra collusioni e sfioramenti, sproloqui e sospensioni, insulti e silenzi, spesso più carichi di significato delle parole. La conduzione artistica è magistrale.
Jeremie Reniers, è il fratello rabbioso, rancoroso, violento, dinamico, probabilmente identificato con il padre, che si è creato una nuova famiglia a pochi chilometri dalla prima e non ha rinunciato al controllo della vecchia, grazie a laute elargizioni di denaro. Yannick Reniers, è il fratello introverso, depresso, solipsista, inerte, solitario, probabilmente identificato con la madre, che vive con i figli nella casa di proprietà, badando a loro, malgrado abbiano già superato da tempo l’adolescenza e misurando i giorni che vengono in un’intimità eccessiva. Alla madre, Pascale, interpretata da Isabelle Huppert con vigore drammatico, i figli non consentono di vendere la casa di proprietà, né le permettono di inventarsi una nuova vita, gelosi del suo amante. La assediano, la controllano, la umiliano, le impediscono una relazione sentimentale, che ha tutta l’aria di un tentativo di "rinormalizzazione" di una donna divorziata. Tutto il giorno giocano a ping pong o con la play station, fanno il bagno in vasca insieme, dormono e mangiano. Agiscono da parassiti, tenendosi a galla in una quotidianità fatta di lotte intestine, insulti, motociclette rotte, ragazze, colpi di fucile a improbabili topi immersi nello stagno. Vivono in un rapporto simbiotico e promiscuo, aggrappandosi alle quattro mura domestiche come alla pelle della madre, non agiscono, non decidono, non cambiano, semplicemente sopravvivono alle sue spalle. Non vogliono che la casa di campagna si venda, non tanto perché questo segnerebbe una presunta difficoltà economica per le loro grigie vite, quanto perché rappresenterebbe il crollo della routine, del mondo consolidato, dell’abitudine all’inerzia, li distoglierebbe da una patologica coazione a ripetere, obbligandoli al distacco dall’alvo materno, a cui sono tenacemente attaccati, lontano da ogni responsabilità e formazione personale. Il fallimento della madre, che non riesce a sviluppare la sua identità di donna e bruscamente fugge dalla casa e dal controllo filiale, determina il collasso della già precaria esistenza dell’ambiguo terzetto e lo scontro inevitabile tra due alterità che anziché delinearsi, continuamente si assorbono e confondono. Non è un caso che i fratelli rotolino a terra insieme, indistinti, difficili da riconoscere, incerti sul piano della fisicità come se fossero privi di una loro identità specifica, non è un caso che uno sopperisca all’altro, a conferma di quel mors tua, vita mea che viene raccontato come dinamica ineluttabile tra fratelli, sin dall’alba del mondo, non è un caso che i genitori, responsabili del dramma e della patologia, nel finale si pieghino a raccogliere i cocci di un’esistenza fallimentare.
Di taglio diverso l’altro film, di recente uscita, "Mio fratello è figlio unico" di Daniele Lucchetti. Commedia amara, nel filone della grande commedia all’italiana, tratto da romanzo "Il fasciocomunista" di A. Pennacchi, anche se l’autore ne ha preso le distanze, sceneggiato da Rulli e Petraglia, che con il regista hanno più volte collaborato; selezionato per la sezione Certain Regard a Cannes, dove ha trovato un certo consenso e ha supportato i toni piccati, di chi si è risentito per la mancata selezione di film italiani dal concorso. Ambientato negli anni 70, precisamente a Latina, città voluta da Benito Mussolini nella bonifica dell’Agro pontino, il film è volutamente impolitico: glissa con amabile sorriso sulle speranze e le idealità in gioco nel sessantotto, elude qualsiasi affondo sulla realtà italiana del boom economico, scarta con simpatica maestria sulle vicissitudini del mondo operaio e del movimento studentesco. La vita politica è un pretesto, una cornice entro cui si muovono le vite di due fratelli, Accio, Elio Germano, e Manrico, Riccardo Scamarcio. Le loro scelte, di destra e di sinistra, servono drammaturgicamente a definire in una compatta struttura unitaria il rapporto tra fratelli e visivamente danno al regista l’opportunità di sondare due psicologie in conflitto tra loro.
Accio, il fratello minore, che è anche la voice off del film ( espediente narrativo a cui gli sceneggiatori ricorrono ormai con sottile maestria), dopo una fugace esperienza di seminario, diventa picchiatore fascista, sotto la guida di un "cattivo maestro", nostalgico del duce e dei suoi motti, ben interpretato da Luca Zingaretti. E’ il reietto, l’inetto intelligente, colto, poco sicuro di sé e impacciato con le donne. Manrico, il maggiore, decide presto da che parte stare, entra in fabbrica e diventa comunista. Fascinoso, appassionato quando si tratta di tenere comizi in fabbrica e proclamare scioperi, è il prescelto, un leader, amato dalla famiglia e dalle donne. Naturalmente le loro divergenze finiscono per metterli l'uno contro l'altro, anche più tardi perché quando Accio, mutando parere, diventerà un extraparlamentare, Manrico, andando oltre, sceglierà la lotta armata ed entrerà in clandestinità con esiti tragici. Anche in questo caso l’aspetto che più sorprende non è tanto la semplificazione per cui gli estremismi, in politica come nella vita, finiscono con tangersi ed essere uguali, quanto il senso di autenticità che gli incontri/scontri tra i due fratelli producono sullo spettatore. La forza del film, anche in questo caso, è nel tema che viene affrontato, che è un tema universale, portato avanti, fino all’ineluttabile conclusione, con la forza dei corpi, della recitazione, dei volti ( magistrale l’interpretazione del protagonista Elio Germano). I fratelli si insultano, all’italiana stavolta, si inseguono, si picchiano, si abbracciano, si stringono fino a farsi male. Complici e nemici, lontani per ideologia e vicinissimi negli affetti, con i loro furori adolescenziali e l’aspirazione condivisa ad una giustizia sociale che non è di questo mondo, l’intensità degli sguardi, gli scarti inattesi, le contraddizioni di tutti e la loro cialtroneria giovanile, i due fratelli emozionano e nobilitano il genere della commedia. Anche qui, come in "Proprietà privata", l’uno determina, inconsapevolmente la fine dell’altro, anche qui si combatte per una donna, meglio ancora per un amore, anche qui la fisicità in campo, maschile e animalesca, virile e giocosa, conferisce al racconto una forza vitale e sincera e ai personaggi una profondità che rende l’opera personale e davvero sentita. Insomma un buon motivo per realizzare un film…
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