Segue da Parte I – Ubicazione, dimensioni, alternative (clicca qui per andare all'inizio)
Costruire manicomi più vicini e più piccoli, adottare il sistema di Geel dove possibile; ma c’è anche chi si accontenterebbe di molto meno, solo di avere la possibilità di trattare umanamente i malati loro affidati senza dovere scontare condizioni insopportabili di sovraffollamento, degrado e penuria di organici e risorse. E sono ad esempio i medici del manicomio di Genova, i quali insorgono coraggiosamente il 28 aprile 1909 contro l’amministrazione (e non so se oggi, nelle nostre Aziende sanitarie sottoposte a rigorosa disciplina aziendale, qualcosa del genere potrebbe avere luogo): «I sottoscritti Medici del Manicomio Provinciale di Genova, riuniti in una sala dell’Istituto, dopo avere seriamente ponderato il loro atto cui intendono dare tutta l’importanza che richiede l’attuale dolorosa situazione DICHIARANO di deplorare vivamente lo stato in cui si trovano alcune Sezioni dell’Istituto dove gli ammalati gettati alla rinfusa e stipati senza alcun conforto, senza assistenza adeguata, sono condannati a deperire fisicamente e mentalmente, e di non volere più oltre rendersi complici di così grave offesa ai più elementari sensi di civiltà e di pietà umana, INVITANO solennemente l’On. Deputazione a non tergiversare più oltre nel provvedere agli urgenti bisogni degli infermi prima, a sistemare una buona volta il servizio Sanitario e quello di assistenza immediata E SI RISERVANO preso atto della deliberazione della On. Amministrazione, di denunciare alla pubblica opinione le ragioni del loro atteggiamento presente e di quello avvenire».
E non so quanti tra noi, nella nuova sanità disciplinata dal modello aziendale, si sentirebbero di usare questo tono con l'amministrazione per difendere interessi e diritti dei propri pazienti…
In altri casi, la commissione d’inchiesta su Quarto attiva nel 1910-11 svela anche episodi interessanti, come quello riferito dal dr. Francesco Prigione nel quale non sono i medici a ribellarsi, ma i malati: «Un camerone intero di tranquilli una sera si ammutinò barricandosi, per il fatto che uno di essi aveva tentato di evadere e, sorpreso, era stato portato fra gli agitati (…). Udito quello che essi domandavano, e cioè la restituzione del compagno alla loro sezione, io diedi ordine in tale senso e tutto fu finito. Gli ammutinati erano una trentina». Del resto, scriverà nel 1915 a proposito di ergoterapia Giuseppe Vidoni, un altro dei giovani psichiatri confluiti a Genova nei primi anni del ‘900: «Più volte, per ricoverati provenienti da centri nei quali più diffusa è la propaganda per l'organizzazione operaia di resistenza, ho dovuto constatare il rifiuto al lavoro che vien giudicato dal malato o come un vero ed assoluto sfruttamento operato a suo danno da parte nostra o dell'Amministrazione, oppure – con espressione attenuata dello stesso concetto – quale compenso delle spese incontrate per la sua cura alla quale, invece, ha diritto gratuitamente». E poi ancora, già cogliendo quella che sarà una delle più frequenti critiche all’ergoterapia per come veniva abitualmente praticata, nel 1922: «Il lavoro deve essere esteso larghissimamente, ma l'ammalato non deve esservi costretto. Questo il corollario spontaneo di quanto abbiamo detto. Ma ciò non è forse vano ripetere, perché il lavoro forzato può assumere, in verità, parvenza e realtà di sfruttamento». E chissà se quando Franco Basaglia parlava di “reciproca contestazione” tra medici e malati aveva in mente episodi come questi che, pur sporadici, sono certo dissonanti con l’immagine stereotipata che noi abbiamo in genere del manicomio.
Così, quando pensiamo alla necessità di advocacy dei malati fanno riflettere – e ci pare valgano a monito per la psichiatria di ogni tempo – le parole che Luigi Maria Bossi, bizzarra ma assai sensibile figura di ginecologo e consigliere provinciale, pronunciava sempre nell’ambito dei verbali della Commissione d’inchiesta su Quarto, del 1910-11: «In Istituti di questa natura è cosa di massima importanza che la vita si svolga nella perfetta armonia di tutti gli ordini del personale. Si tratta di ambienti di delicatezza estrema. Si debbono nel Manicomio curare e tutelare uomini e donne che non possono tutelarsi da sé e nemmeno possono testimoniare del modo che sono trattati. In un ambiente di altra natura, pur funzionando male i servizi, l’infermo può reagire o quanto meno denunciare le manchevolezze».
Un consigliere Bossi – figura complessa, certo, ma non possiamo qui soffermarci su questo – che s’impegna concretamente nel 1913 per ottenere, in aperto conflitto con gli psichiatri, la liberazione sotto sua responsabilità dal manicomio di donne il cui internamento non gli pareva indispensabile, utilizzando a suo conforto una lettura letterale dell’art. 1 della legge del 1904, che è corrisposto invece nella maggioranza dei casi all’aver spalancato la porta d’ingresso al manicomio: «Parrebbe cioè dall'esposto dell'articolo in esame che le motivazioni del sequestro manicomiale non fossero, nel caso della O. Maria, di tale entità e sovratutto di carattere tale di continuità, da mistificare l'urgenza di ricovero e tanto meno una così tenace resistenza alle domande di liberazione inoltrate dal marito. La legge ha enunciate chiaramente le condizioni di ricoverabilità nell'Art. 1 col dichiarare che debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale quando siano pericolose a sé od agli altri, o riescano di pubblico scandalo, o non siano o non possano essere convenientemente curate e custodite fuorché nei manicomi. Ora il ricovero coattivo della O. Maria, se fosse proceduto unicamente dalle motivazioni che in quell'articolo si espongono, sarebbe parso a me, come a qualunque cittadino, ordinato da cause molto tenui per giustificare la gravità della misura».
Ma c’è un fenomeno nel quale soprattutto l’istituzionalizzazione psichiatrica si fa visibile, concreta, violenta, ed è la contenzione, cartina di tornasole che più di ogni altra cosa ci dice della qualità dell’assistenza psichiatrica prestata in una data situazione. E ne era già consapevole Luigi Verdona, direttore per una quarantina d’anni del manicomio di via Galata, il quale scrive nel 1876 (ed è il riferimento più antico tra quelli che abbiamo utilizzato): «E si raggiunse prima d’ogni altro, in Italia soprattutto, la scomparsa quasi completa della classe dei sudici in addietro così numerosi, e si poté ridurre l’impiego dei mezzi di coercizione materiale in limiti così ristretti, soprattutto nella divisione degli uomini in cui si può avere un servizio più regolare e intelligente, da equivalere poco meno che alla loro abolizione». Lo stesso anno, peraltro, Carlo Livi raccoglieva a Reggio Emilia gli strumenti di contenzione in uso negli anni precedenti per appenderli nel “museo delle anticaglie” e consegnarli alla storia. Una storia che però, su questo specifico punto, sembra davvero ancora difficile far scorrere in avanti.
E il tema viene affrontato, come ho più volte avuto occasione di ricordare, dal genovese Ernesto Belmondo, direttore del manicomio di Padova e professore in quell’ateneo, nel 1904 in occasione del XII congresso della Società Freniatrica, nel corso del quale propone l’abolizione dei mezzi di contenzione nei manicomi italiani sostenendo tra l’altro che: l’uso di metodi violenti produce violenza nei pazienti; la scelta del “no restraint” è in sé un atto terapeutico (mentre l’uso della contenzione è in sé il contrario); la scelta, formazione e valorizzazione del personale influenza la qualità delle cure; le ragioni etniche e quelle economiche addotte dai sostenitori della contenzione erano inconsistenti; non è vero che il rifiuto della contenzione produca un indiscriminato ricorso alla “camicia di forza chimica” (così definita nel suo testo); la contenzione è ammissibile solo per esigenze mediche, ma con “chiare norme e limiti precisi"; la contenzione deve essere rifiutata anche quando richiesta dal paziente, perché corrisponde in quel caso al colludere con un sintomo; l’isolamento protratto è dannoso. E ancora, da buon conoscitore evidentemente degli ambienti psichiatrici di allora e non solo, che: «Quando fasce e corpetti esistono nella ben fornita guardaroba del Manicomio ed, allineati in belle pile o sapientemente rotolate nelle ampie scansie contribuiscono all’orgoglio della Suora che attende il visitatore, troppo facile sarà l'adoperarli anche in casi meno gravi e scivolare dall'uso all'abuso».
Le parole del Belmondo trovarono ascoltatori attenti in due dei giovani medici operanti a Genova, Mario Umberto Masini e Giuseppe Vidoni (figlio di Giacomo, direttore del S. Daniele del Friuli, e quindi proveniente dall’area veneta, dove grande e duratura è stata l’influenza di Belmondo), i quali ebbero la responsabilità di occuparsi del manicomio di Prato Zanino nei primi mesi di funzionamento, e poi del piccolo manicomio di Paverano. E così Masini scrive di Prato Zanino nel 1912: «Fu abolito nel modo più rigoroso ogni mezzo coercitivo. Non è mai esistita nell’istituto neppure una benda nel senso più assoluto della parola; ricordo che furono trasportati dal manicomio di Quarto gli infermi più agitati avvezzi da tempo ad essere coerciti a letto anche per molto tempo e che il personale di assistenza era del tutto nuovo al delicato servizio dal punto di vista pratico. Nessun incidente ebbe mai a verificarsi, ma non fu neppure avvertito il bisogno di ricorrere alla contenzione meccanica. Questo felice esperimento è la prova più eloquente che la coercizione mantiene anziché attenuare le condizioni di eccitamento degli infermi». Ma certo non legare non è facile, e ne è consapevole ancora Masini il quale scrive in una lettera dello stesso anno alla Provincia, nella quale chiede un rinforzo dell’organico medico: «L’istruzione e la sorveglianza del personale richiede l'opera continua dei due sanitari poiché il personale proveniente da via Galata non educato all'assistenza di ammalati non coerciti tende di continuo a dimostrare l’impossibilità di mantenere il NO-RESTRAINT assoluto e richiede in ogni occasione l'intervento del medico». Dinamiche istituzionali che si ripetono nel tempo, e che sono state descritte molto più recentemente da Giovanna Del Giudice, nel caso cagliaritano[i]. Difficoltà avvertite anche da Vidoni peraltro, il quale lo stesso anno scrive: «Non dico che la cosa sia stata facile. Nei primi tempi ha tra l'altro richiesto una permanenza continua nei padiglioni insieme al personale, ma dopo qualche tempo, in grazia della viva eloquenza del fatto da tutti contestabile, il no restraint nel Manicomio di Cogoleto era entrato nel patrimonio del personale, che aveva imparato, oltre la bellezza della solidarietà umana nel trattamento del paziente, l'efficacia del sistema su quelli stessi ammalati ritenuti un giorno irriducibili». E coglie, criticamente, uno spaccato della realtà manicomile italiana in quegli anni: «In certi Manicomi d'Italia ad una data ora del pomeriggio si vedono intere schiere di ammalati tranquilli porgere le mani per la quotidiana contenzione che oramai nell'istituto viene considerata come il pane nella normale razione di vitto […]. Sopra 50 risposte pervenute nel 1905 al Prof. Antonini, che aveva interrogato i direttori dei Manicomi italiani sull'applicazione del no-restraint, 33 dicevano che nei rispettivi istituti era in vigore il no-restraint relativo, 17 invece attestavano la pratica del no-restraint assoluto, ma fra questi ultimi 17 erano compresi diversi Istituti per cronici tranquilli, per ammalati cioè nei quali relative sono le difficoltà per l'applicazione del no- restraint».
E ancora: «Il «no-restraint», pertanto, non corrisponde soltanto ad una finalità idealistica di più elevato sentire umano, ma anche ad un bisogno terapeutico, che realizza i suoi benefici mostrando come con un vero sistema curativo degno di tal nome si possa abolire i mezzi coercitivi. Il «no-restraint», poi, anche indirettamente, giova al paziente, perché esige dal personale un'opera maggiore di assistenza e anche perché obbliga il sanitario ad una più vigile e costante sorveglianza medica, che deve essere assiduamente diretta anche alle condizioni fisiche dell'ammalato, le quali, bisogna pur dirlo, fino a qualche anno fa venivano, in più di un Manicomio, troppo dimenticate, mentre sono elemento non trascurabile per la diagnosi e la prognosi della malattia e, ciò importa specialmente al nostro tema, per il trattamento del malato».
Ed espone poi, con orgoglio, due casi: «Ricordo un certo G.B. ansioso, fisssato da mesi e mesi e certo M.G., demente precoce, che da mesi pure era legato al letto con bende alle mani ed ai piedi e camicia di forza a noi trasmesso con le note più paurose. L'ammalato doveva pure da tempo esser alimentato artificialmente. Fatto sciogliere, attualmente da oltre quattro mesi libero da ogni contenzione meccanica, sottoposto soltanto ad assidua sorveglianza del personale, sorveglianza che bisognava del resto mantenere anche quando l'ammalato era fissato, avendo esso una spiccata tendenza all'automutilazione, per la quale non erano di certo sufficienti tutte le bende ed i sistemi di contenzione, che può escogitare l'abilità del più capace tra i seguaci del restraint. La prova più bella è data dalle lividure e dalle escoriazioni, che nelle parti più varie del corpo presentava il paziente al momento dell'ingresso nel nostro Manicomio. Tolta la contenzione l'ammalato ha incominciato a mangiare da solo ed in tutto questo tempo non vi è stato bisogno di ricorrere alla sonda. Il B. pure dopo la liberazione dalle bende ha migliorato in modo tale, da rendere i parenti disposti ad accogliere in casa in prova il paziente».
E, spostatosi con Masini a Paverano, scrive ancora Vidoni nel 1913: «Noi siamo tanto convinti che il saper legare e la violenza sieno elementi così lontani dai veri requisiti per l'assistenza del malato di mente che stiamo organizzando in questo Manicomio l'esperimento (a mia conoscenza il primo per tal genere d'ammalati) dell'assistenza femminile per alienati uomini […]. Da quanto siamo andati vedendo a me sembra che appaja spontaneamente come anche nei Manicomi al vecchio ufficio di difesa sociale sia andato e vada sempre più aggiungendosi un vero scopo terapeutico, che si propone non solo la sorveglianza, ma anche, come per ogni altra malattia, la guarigione o il miglioramento dell'ammalato». E sottolinea: «Ho chiesto deliberatamente ospitalità alla Liguria Medica [cioè alla rivista di quello che corrispondeva allora grossomodo all’Ordine dei Medici] per questa nota di tecnica manicomiale essendomi proposto infatti […] anche di richiamare l'attenzione del medico pratico, il quale più di ogni altro può aiutarci nella formazione di una coscienza psichiatrica fra il popolo […]».
Così, Paverano merita le lodi dello psichiatra russo Souchanov, in visita a vari manicomi italiani, il quale scrive nel 1913: «Nelle sale degli ammalati si fa largo uso della clinoterapia e dell'idroterapia; il no restraint assoluto è applicato col massimo scrupolo. Quello che però più mi ha colpito a Paverano è la mancanza assoluta di quei locali di isolamento di cui si fa generalmente abuso nei manicomi italiani. Fra le mura di questo vecchio edificio anche il personale inferiore è imbevuto di idee moderne, che vi sono così largamente applicate […]. Ho visto in Italia numerosi manicomi costruiti in questi ultimi tempi, dove però la vita manicomiale ricorda troppo la caserma o la prigione, ma accanto a questi istituti ho visto anche qualche vecchio manicomio, dove il personale sanitario rivolge tutti i suoi sforzi per raggiungere l'attuazione dei più moderni sistemi d'assistenza: e qui devo segnalare, a titolo d'onore, il simpatico istituto di Paverano».
Ma i due giovani e coraggiosi psichiatri non si limitano al “no restraint”; si sforzano di applicare anche l’open door, scontrandosi immediatamente con lo stigma; la direzione di Prato Zanino scrive così in una lettera del 9 gennaio 1911 alla Provincia: «Colgo l’occasione per protestare vivamente presso la S.V.I. contro il contegno incivile ed assurdo di una parte della popolazione circostante la quale avrebbe la strana pretesa di dettarci i criterii ai quali dovrebbe ispirarsi l’assistenza degli infermi. Si pretenderebbe che i ricoverati non fossero adibiti ai lavori dei campi, non fossero inviati quotidianamente a passeggio, non fossero inviati ai pubblici divertimenti e non si concedesse loro quella libertà relativa che è il caposaldo della nostra assistenza. Ciò dipende dal fatto che non si vuol fare alcuna differenza tra l’alienato comune e quello pericoloso e criminale».
E Vidoni incalza, ricordando nel 1915-16 i primi mesi di Prato Zanino: «Non posso davvero dimenticare che nei primi tempi, non funzionando ancora la lavanderia interna dell’Istituto, le lavandaie del paese rifiutavano la loro opera per paura del contagio della pazzia (altro che gli untori dei Promessi Sposi!) e che si voleva impedire la circolazione degli infermi entro il confine del Manicomio. Piovevano le proteste che trovarono, per di più, eco nelle autorità cittadine, che inviavano all'amministrazione provinciale i loro lagni e provocavano l'intervento di un ufficiale dei carabinieri, il quale, discutendo con me, pretendeva di trasportare i suoi criteri carcerari nell'organizzazione del nuovo manicomio. Non mancava, poi, la stampa, la quale, sia pur senza volerlo, aizzava le persone che, eccitate, non risparmiavano contumelie e minacciavano sassi contro gli infermi, che avessero varcato i confini dell'Istituto».
Varcare i confini, insomma: alcuni, tra amministratori e medici – ad essi si è limitata la nostra ricerca – lo hanno in un modo o nell'altro desiderato, in qualche caso ci hanno anche provato.
Costruire manicomi più vicini al contesto di vita e più piccoli, adottare il sistema di Geel dove possibile, pensare a una psichiatria che, andando incontro alla persona nella città, prevenga dove possibile il ricovero manicomiale, una psichiatria che non leghi, che s’impegni ad aiutare il malato a varcare il confine – concreto e/o ideale – che lo separa dalla società cui appartiene. Sono idee che pare impossibile ma hanno circolato nella quarantina d’anni della storia dei manicomi genovesi a cui abbiamo fatto riferimento, dagli anni ’70 dell’800 ai primi anni ’10 del ‘900, forse anche prima.
Che cosa sarebbe successo se nel pensare all’esempio di Geel ci fossero stati più originalità e più coraggio? Se Dario Maragliano non fosse morto tanto giovane, e avesse potuto proseguire la sua battaglia contro il manicomio-città impedendo la nascita di Prato Zanino e favorendo soluzioni più attente alla vicinanza al contesto di vita e all’individualizzazione delle cure? Se dell’entusiasmo di quei due psichiatri che hanno aperto Prato Zanino all’insegna del non legare e dal far circolare il più possibile liberamente non si fosse persa memoria, ma esso avesse costituito il punto di partenza per tutti gli psichiatri che, da allora in poi, si sono succeduti per oltre ottant’anni in quell’istituto?[ii]
Certo, con i se e i ma la storia non si fa, ma non c’è dubbio che la vita e il destino di migliaia di malati che hanno conosciuto i manicomi genovesi sarebbero stati diversi. Per questo, mi pare fondamentale che di tutti questi tentativi di strappare le cinghie, individualizzare la cura e varcare i confini, che sono forse gli obiettivi più importanti in psichiatria, ci ricordiamo. E che ci ricordiamo che il manicomio comincia a rivelare anche in Italia il suo carattere antiterapeutico molto prima che, nel 1964 a Londra, Franco Basaglia lo denunci pubblicamente e cominci a perseguire con determinazione la chiusura. Certo, rispetto a lui questi medici e amministratori hanno avuto forse la sfortuna di vivere un tempo meno favorevole, dove il principio di disciplina e autorità non avevano ancora ricevuto gli scossoni che hanno ricevuto in seguito[iii] e la psichiatria non era ancora vitalizzata dal contributo della fenomenologia e della psicoanalisi e resa forse più facilmente praticabile dagli psicofarmaci. E insieme il limite senz’altro di una minore capacità di focalizzazione dei problemi e di visione strategica, di un minore coraggio di portare fino in fondo il ragionamento. Ma credo che vada loro riconosciuto il merito di avere guardato, chi più chi meno, almeno per un momento nella stessa direzione.
Nel video allegato: simone Cristicchi: Lettere dal manicomio di San Girolamo a Volterra.
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