Articolo dedicato da V. Trione al libro di Arturo Pérez-Reverte "Il cecchino paziente" (Rizzoli, 2014)
E se i writer fossero gli inconsapevoli eredi delle avanguardie primonovecentesche? E’ questa la domanda che ci insinua Arturo Pérez-Reverte in Il cecchino paziente (Rizzoli). Un libro che potrebbe essere letto anche come un brillante saggio di critica d’arte. Mescolando finzione romanzesca e adesione alla realtà , Pérez-Reverte parla di un personaggio immaginario ma dice anche che quel personaggio ha molti aspetti in comune con Banksy; descrive performance mai compiute e figure inventate ma cita anche i nomi veri di artisti, di studiosi e di scrittori; compone un racconto che che recupera gli artifici propri del thriller e, al tempo stesso, si comporta come un abile cronista, che attinge a un ricco archivio di informazioni e di notizie; modula un plot avventuroso, che rivela una precisa conoscenza di ambienti marginali e impenetrabili, governati da riti e da consuetudini difficili da decifrare. Sulla soglia tra sapienza narrativa e urgenza testimoniale si articola Il cecchino paziente, dunque. Gli attori principali: Lex, studiosa di arte urbana; e Sniper, invisibile e leggendario maestro del writing. Su incarico di un cinico editore, Lex si mette sulle tracce di Sniper, autore di “pezzi” singolari e sinistri. Se riuscirà a scovarlo, gli offrirà la possibilità di entrare nel sistema dell’arte ufficiale: gli proporrà di pubblicare i suoi lavori in un catalogo generale e di esporli in una personale al MOMA. Ma come arrivare a quel divo la cui identità è avvolta nel mistero? Inizia un pedinamento attraverso l’Europa: da Madrid a Lisbona, da Verona a Roma, fino a Napoli. Indizi, voci di fondo, colpi di scena. Inatteso l’epilogo. Questa storia dà a Pérez-Reverte la possibilità di scrutare dall’interno l’esoterica costellazione dei writer. Egli sembra agire come un antropologo attratto da una geografia culturale, estetica e sociale aspra e anarchica ma dominata da leggi rigide; e, insieme, come un involontario critico d’arte, impegnato a svelare le regole sottese alla sgrammaticata sintassi dei writer. I quali, in maniera istintiva, riprendono e radicalizzano alcuni principi su cui si erano fondati i gesti delle avanguardie. Essi – sembra dire Pérez-Reverte – sono epigoni di Marinetti, di Tzara, di Breton, di Majakovskij. Come i futuristim i dadaisti e i surrealisti, preferiscono lavorare in gruppo. Si ritrovano dentro sette, simili a gang. Un po’ monaci, un po’ guerriglieri, sono “lupi notturni, cacciatori clandestini (…), bombardieri impietosi”. Ambiziosi, tenaci e atletici, indossano divise: felpe nere con cappucci, scarpe da ginnastica, zainetti pieni di bombolette. Comunicano con uno slang poco comprensibile agli altri. La loro liturgia: “Fare i contorni, riempire, colorare”. Pianificano incursioni notturne: “Terroristi dell’arte”, condividono adrenalina e amore per la trasgressione. Espressione di un “cameratismo inusuale”, sono come una “legione straniera clandestina”. Trincerandosi dietro nomi di battaglia, cercano fabbriche abbandonate, vagoni di treni, muri liberi o anche muri già saturi, da “crossare” a oltranza. Sono tribù, che sognano di fare bombing (= coprire numerose superfici con throw-up [interventi realizzati velocemente] o tag) e di invadere con le loro tag (=firma del writer realizzata con spray o marker [pennello indelebile]) facciate di palazzi e cartelli autostradali. Inoltre, sulle orme delle strategie marinettiane, tendono a operare in un’ottica internazionale: servendosi del web e ricorrendo a un originale esperanto, lanciano tra di loro messaggi, per programmare interventi in giro per il mondo. Post-romantici, figli delle culture hip hop, sono affascinati – anche in questo evidenti le consonanze con le avanguardie – soprattutto dall’idea secondo cui arte e vita devono unirsi indissolubilmente e sovrapporsi. E, analogamente ai futuristi che avevano celebrato la guerra come “sola igiene del mondo” e come evento estetico totale e sin estetico, concepiscono ogni spedizione come un rito bellico. Una forma di guerriglia urbana, in cui è anche possibile morire: “L’arte ha un lato pericoloso”. Per imporre le loro convinzioni, forse influenzati dalla lezione di Tristan Tzara (“la protesta a suon di pugni di tutto il proprio essere teso all’azione distruttiva”), i writer si affidano a un ostinato “antagonismo”. Innanzitutto – osserva Pérez-Reverte – rifiutano la stupidità dell’arte della nostra epoca. Che è una menzogna, “una finzione per privilegiati milionari”. In polemica con questa “frode gigantesca”, fatta di “oggetti senza valore sopravvalutati da idioti o da negozianti d’élite che si chiamano galleristi”, i writer sembrano avvertire le medesime inquietudini di Marinetti, il quale aveva descritto i musei come templi cimiteriali e asfittici. E rinviano ad alcune suggestioni di Majakowskij, che aveva scritto: “Le strade sono i nostri pennelli e le piazze le nostre tele”. In consonanza con questi echi lontani, insofferenti nei confronti degli spazi chiusi, Sniper e i suoi allievi auspicano un superamento della cornice dell’opera d’arte: addio quadri, addio disegni. Dipingono dove non è consentito, sfuggendo al controllo della polizia. Li esalta “il pericolo in arrivo”. La “fottuta città” è l’immensa pinacoteca nella quale depositano cartografie abitate da figurazioni e da segni. Elaborano una drammaturgia allestita in fretta: come sequenze di una Cappella Sistina diffusa e imperfetta, che può essere fruita da tutti. Mirano a inserire ogni loro affresco in quella vasta tela che è il paesaggio urbano. Sniper: “La strada è il posto in cui sono condannato a (…) passare i miei giorni”. Questo antitradizionalismo si accompagna a un aggressivo “agonismo” e si manifesta attraverso una veemente iconoclastia: i writer violentano le riproduzioni di capolavori della storia dell’arte; si infiltrano nelle sale di importanti musei; sostituiscono la figurazione con uno stile basato sulla centralità assoluta della loro firma. L’intento: risvegliare i sensi e l’intelligenza. Infine, i writer non accettano i dettami e le “perversioni” del mercato: anche in questo, si rifanno a un atteggiamento tipicamente avanguardista. A differenza dei graffitisti e degli street artist – che tendono sempre più a farsi assorbire dalle istituzioni – si sottraggono in modo netto e irrevocabile a ogni tipo di compromesso con musei, gallerie, case d’asta, perché sono solo mistificazioni. Non si fanno irreggimentare: “Il writing è l’opera più onesta perché chi la fa non la sfrutta”. L’illegalità è la cifra di queste missioni: “Se è legale, non è writing”, spiega Sniper. Questi irrequieti creatori di diari disseminati ovunque, non amano definirsi “artisti”: non inseguono il consenso critico, né il riconoscimento mediatico e commerciale. Contestano la logica del copyright: non rivendicano mai la proprietà dei loro happening. Sono vandali, che non si spingono mai fuori dal loro circuito. Dipingono sui muri per dar voce a un’urgenza espressiva primaria e irrefrenabile. “Se io sono un artista e sto per strada, qualunque cosa faccia o inciti a fare sarà arte. L’arte non è un prodotto, ma un’attività”, dice il cecchino paziente. Forse memore di quel che avevano sostenuto Balla e Depero nella Ricostruzione futurista dell’universo: “L’arte diventa arte-azione, cioè volontà, ottimismo, aggressione, possesso, penetrazione, gioia, realtà brutale”.
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