Addio Emily Dickinson e Jane Austin, oggi il nuovo modello da emulare è Vivian Maier. Non più comunicare all’esterno il sogno romantico di donna, ma procedere con una ricerca del tutto personale e intima, volta a se stessa, taciturna, essenziale. Il tanto amato Diario si evolve con i processi consci e inconsci che coinvolgono la nostra percezione moderna.
Le parole sono divenute troppo lente, troppo impegnative, sacrificio di tempo e spazio. Oggi il diario al femminile è fatto di immagini reali e non, di fotografie, di autoritratti, di oniriche illusioni e speranze visive. Un tempo si scrivevano parole su pagine profumate, e l’incipit era sempre lo stesso: “Caro Diario”. Erano i pensieri di emozioni che non si riuscivano a contenere, amori passeggeri e paesaggi inspiegabili. Si raccontava di una vita che sfuggiva via giorno dopo giorno.
Erano parole e fogli e ricordi e lunghe sere passate a scrivere prima di andare a dormire, un modo per rielaborare e metabolizzare dispiaceri e invidie, per comunicare l’indicibile, per conservare la parte più veritiera di se. Ora, le pagine si sono trasformate in supporti mnemonici, le righe sono state sostituite dalle tracce digitali, le parole dalle fotografie. Quelle che scattiamo e condividiamo, e forse, forse quelle che custodiamo nell’intimità. Quelle che non mostriamo a nessuno, quelle che compongono progetti segreti e quelle che vanno disperse giornalmente.
La Maier e la sua Rolleiflex, come una ragazza e il suo diario, uscivano insieme e scrivevano giornalmente righe e righe sul mondo…appunti precisi e costanti, conservati, preservati. Un diario che non ha mai lasciato i cassetti di casa. Indubbiamente una risorsa eccezionale che ci permette di riguardare alla cultura della società americana. Anziane impellicciate che guardano stizzite l'obiettivo, uomini con i cappelli che fumano sigari, bambini che piangono accuditi da mammine eleganti. Venti anni di storia americana, fotografata per le strade di Chicago. Ma di Vivian oltre il riflesso che cosa ne resta? Lei faceva la tata e quando accompagnava i bambini fuori fotografa. Stop, non c’è passato né futuro, non ci sono progetti, non c’è amore, passione, tristezza, noia, speranza. Nessuna emozione le appartiene realmente se non vissuta come risonanza attraverso ciò che vede. Forse le bastava guardare per fare proprie quelle giornate piene di vita, forse le bastava osservare e fermare l’attimo in una fotografia, per fare suo quel frangente che gli si proponeva davanti. Non possiamo saperlo ed è questo il suo mistero: le bastava davvero la fotografia?! Le bastava comparire sulla scena, tra le sfumature del bianco nero, un po’ come Alfred Hitchcock con le sue brevi apparizioni, must dei suoi film. Una firma visiva, una necessità di esserci a tutti i costi. Un esserci qui e ora privo però di una reale progettualità, di confronto, di responsabilità del tempo vissuto.
Tutto appare avvolto semplicemente da un grigiore, dall’assenza dei colori vivaci e vividi di una vita emotivamente vissuta in prima persona. Osservatrice esterna ed estranea. Oggi può bastarci la fotografia? Può bastarci il diario di instagram a delineare tutti i nostri desideri e voluttà? Può bastare un selfie con una biottica per fare di una figura femminile una donna fascinosa piena di poesia? Restare sullo sfondo, figura piatta di un mondo troppo veloce, appiattita e anedonica sembra quasi un alibi all’impegno attivo e in prima linea, alla vita che scorre, coinvolge e stravolge. Certamente le fotografie raccontano senza mezzi termini bellezza e meschinità della nostra epoca: dicono molto di questo appiattimento triste che ci rende virtuali e irreali, sempre più in rete e meno in relazione, sempre più fotografi e sempre meno poeti. Caro Diario, può davvero bastarci la fotografia?
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