Vizi morali, mediche passioni: la medicalizzazione della virtù e la biopolitica. Appunti per un convegno
Parte I: Sulla dimensione politica dei vizi: divagazioni
Confesso che quando ho ricevuto da Gian Franco Vendemiati e Federico Palerma il gentile invito a intervenire il 18 novembre alla giornata di studio Vizi o virtù? Attualità dei vizi capitali, presso la Sala del camino del Palazzo ducale di Genova[i], la prima reazione è stata la spiacevole sorpresa di un bambino colto in fallo, che da molto tempo (oltre quarant’anni!) non ripassava la lezione, e dei sette vizi capitali non ne ricordava più di tre o quattro. Ho dovuto faticosamente ritornare con la memoria agli anni del catechismo che frequentavo presso una suora laica della quale ora ricordo solo il nome e un’offuscata immagine di donnina anziana con voce dolce e abiti scuri. Ricordo che allora non avevo avuto difficoltà a dare un significato a parole come superbia, avarizia, invidia, gola, ira, che appartenevano già al mio vocabolario. L’ira era anzi il vizio che, da appassionato emulo degli eroi salgariani, evocava allora (e chissà se dovrebbe anche oggi?) in me la maggiore contrizione. Accompagnavano la parola lussuria sorrisetti maliziosi con i coetanei; sfumata l’ipotesi di una relazione con il lusso, avvertivamo vagamente come dovesse essere di tutti i vizi il più vizioso e il più interessante, quello che aveva a che fare con cose che gli adulti si sforzavano di tenerci celate, e noi di curiosare. Ma dove il mistero si faceva del tutto fitto era sull’accidia… Al di là della comoda rima con l’invidia che aiutava a mandare la serie a memoria, il settimo vizio che non avevamo proprio sentito nominare rimase a lungo per noi uno sconosciuto. Dovetti attendere qualche anno, quando fu la mamma, credo, a parlarmi della vicenda di papa Celestino a proposito del libro di Ignazio Silone, accompagnandosi con riferimenti danteschi, per averne un’idea.
Una volta risolto il problema di ricostruirne l’elenco e ascoltata l’impostazione complessiva della giornata, la seconda questione da risolvere è stata valutare se avrei potuto dare un contributo, e quale eventualmente. Mi è venuto allora in mente un testo divulgativo di medicina scritto da un medico francese, Jean Baptiste Félix Descuret (1795-1871), nel 1841[ii] che – a giudicare dalla facilità con la quale può essere reperito nelle librerie antiquarie nelle molteplici edizioni francesi, italiane, spagnole – dovette godere di discreta fortuna nella seconda metà dell’Ottocento. Presenterò qui gli appunti che ho preso per la mia relazione, in forma ancora interlocutoria e provvisoria.
L’operazione che sta alla base del testo, e mi è parsa di qualche interesse per noi, parte da lontano. I vizi capitali, infatti, la cui descrizione originale viene fatta risalire all’Etica nicomachea di Aristotele e quindi a un ambito disciplinare di filosofia morale, subirono una prima metamorfosi ad opera dei monaci cristiani, cui contribuì poi San Tommaso, che ne fecero dei peccati. Un ulteriore passaggio si deve all’etica kantiana, che costituì il riferimento implicito della psichiatria dell’Ottocento, e ne fece piuttosto i tratti distintivi di determinati caratteri.
Da ultimo, con testi come questo, i vizi capitali divennero passioni intese dal punto di vista, appunto, della medicina. Infatti La medicina delle passioni è il titolo del libro. I vizi capitali, così, non sono più affrontati come una macchia nella vita saggia e virtuosa del filosofo, o per la salvezza dell’anima dell’uomo di fede, ma come un pericolo per la salute, intesa in modo olistico come salute insieme fisica e “morale” (cioè mentale).
L’operazione non riguarda il solo Descuret, naturalmente, ma si colloca all’interno di un quadro più complessivo. In quegli anni infatti dalla cura della vita malata, quale la medicina era diventata da molto tempo in Occidente, si passa alla medicalizzazione preventiva della vita, operata perché non si ammali. Nasce così una nuova disciplina medica, l’igiene. Contestualmente – e questa operazione riguarda particolarmente un’altra area disciplinare che all’interno della medicina stava definendo la sua autonomia, la psichiatria – la medicina cessa d’interessarsi soltanto a ciò che della vita mentale era stato identificato come malattia (frenosi, melanconia, mania, isteria, ipocondria, qualche disturbo della condotta alimentare e poco più) – per estendere il suo campo all’anomalo nel suo complesso. Félix Voisin, del quale ci siamo recentemente occupati[iii], ebbe un ruolo importante in questo passaggio, al quale Michel Foucault ha dedicato un corso molto ricco a metà degli anni ‘70[iv].
Se guardiamo un testo di medicina del Rinascimento[v], vediamo che il medico affronta le malattie, ma non dice come si deve vivere per prevenirle. Di questo si occupano il filosofo e il prete; se ne occupavano i medici dell’antichità greco-romana, ma questo perché erano medici e filosofi assieme e il processo di separazione e specializzazione delle due materie – filosofia e medicina – non era ancora completo. Il medico entra nella questione di come si debba vivere quando il secolo dei lumi ha fatto sì che meno persone siano disponibili a farsi sconsigliare i vizi capitali dal prete, e viene chiamato per questo a fare la sua parte. La questione riproposta da Allen Frances in occasione dell’uscita del DSM 5, che può sintetizzarsi nel fatto che la medicina e la psichiatria non pretendano di curare chi è normale, infondo, nasce in quegli anni, e Descuret è un medico si presta con particolare solerzia alla bisogna.
Il suo testo principale vorrebbe essere dunque un trattato d’igiene, ricco di prescrizioni mediche utili a garantirsi una vita sana, per la quale il medico sostiene che le passioni debbano essere sempre temperate. Però, questo tentativo di riduzione della questione dei vizi capitali a problema sanitario, e perciò scientifico, nasce in Descuret già da subito inquinato; il sottotitolo reca infatti scritto: “le passioni considerate in rapporto alla medicina”, e va bene, ma anche “alle leggi e alla religione”. Il che significa che il trattato si propone sì come un trattato medico, ma che intorno a ragionamenti di carattere medico se ne articoleranno anche altri di carattere politico e religioso, che con la medicina in se stessa poco hanno a che vedere. Come se il fatto di conformare il proprio comportamento alle leggi degli uomini, e a quelle di Dio (alla politica e alla religione), corrispondesse automaticamente a un vivere sano, il che non è necessariamente.
Mi pare che questa operazione appartenga a quelle per le quali viene utilizzata la definizione di biopolitica, un termine che dopo la sua introduzione ad opera di Foucault è andato incontro a una indubbia espansione semantica, fino a designare ogni situazione in cui si tende ad allargare – in questo caso in modo esplicito ma molto più spesso in modo surrettizio – una governamentalità che è riconosciuta al medico per l’ambito che riguarda la salute del corpo e della mente, ad ambiti ad esso eterogenei che hanno a che fare con il comportamento sociale-politico e con quello nella sfera intima. Cioè con tutti gli ambiti principali di esercizio della libertà.
Infatti, dei sette vizi capitali alcuni hanno una relazione più diretta con la salute ed è quindi comprensibile che rispetto ad essi il medico prenda posizione. Possiamo riferirci ad esempio alla gola, le cui implicazioni con il comportamento alimentare e quindi con una sana costituzione dell’organismo balzano agli occhi; o all’ira, per le importanti implicazioni per il sistema cardiocircolatorio. In altri casi, invece, la relazione si fa più indiretta: è l’esempio della lussuria, per le possibili relazioni con la contrazione di malattie a trasmissioni sessuale. In altri casi ancora, le ragioni in base alle quali il medico debba dire la sua in quanto medico e pretendere che gli sia riconosciuta più autorevolezza che agli altri mi paiono poco comprensibili. Ci riferiamo alla superbia, all’avarizia, all’accidia o all’invidia. Chi ne è portatore potrà essere più o meno simpatico, più o meno piacevole come partner, amico o vicino di casa, ma non avrà maggiore o minore probabilità di ammalarsi per questo. L’affermazione che qualcuno si rode il fegato di bile dall’invidia, è per noi evidentemente solo una metafora che non preoccupa l’epatologo; anche se è giusto invece tenere presente che il riferimento umorale ancora presente nei modelli medici di Descuret lo confondono, e sembrano fargliela prendere abbastanza sul serio.
Ci sono dunque vizi direttamente rilevanti per la salute, altri indirettamente, altri assai poco; ma il medico, trasformandoli in passioni, sente il bisogno di esprimersi con la stessa autorevolezza su tutti. Il che diventa tanto più delicato, perché i vizi hanno un’importanza, in cui vorrei brevemente inoltrarmi, per la vita sociale, e in particolare per l’economia e la politica.
Per tre di essi il rapporto con le relazioni di potere mi pare evidente: l’invidia innanzitutto, che è l’unico vizio che, come osserva giustamente in uno studio ricco e importante pubblicato in anni recenti Umberto Galimberti è l’unico dei vizi a non dare piacere[vi]. L’invidia è il sentimento di chi sente di mancare di qualcosa rispetto a chi ce l’ha, banalmente quindi di chi si sente povero rispetto al ricco. Helmut Schoek[vii], citato da Galimberti, nota come l’invidia è un importante motore sociale, tanto dall’ottica del comunismo (è istanza egualitaria, passione rivoluzionaria), che per il capitalismo (in quanto promuove il progresso attraverso la concorrenza). Evidentemente le politiche di welfare, in questo senso, sono il getto d’acqua del pompiere contro l’invidia rivoluzionaria. Ragionare sull’invidia in quanto tale, senza fare riferimento alla posizione nella quale l’invidioso si trova – una tentazione nella quale forse a tratti anche Galimberti rischia di cadere – è pericoloso. Certo la questione è complessa e meriterebbe ben altro approfondimento, ma credo che per dare all’invidia un valore di merito sia indispensabile il riferimento a un’idea ragionevolmente generale di giustizia; in riferimento alla quale l’invidia è giusta o sbagliata. C’è un’invidia buona, e giusta, che è quella che provo per quella parte del tuo che in nome di una superiore nozione di giustizia spetta a me; e un’invidia appunto viziosa, ingiusta, che è quella che provo quando, in riferimento alla stessa idea di giustizia, dovrei essere già sazio del mio. Ovviamente l’analisi di Descuret, che in quanto medico prestigioso appartiene nella società francese di Luigi Filippo alla classe di coloro che hanno più ragione di essere invidiati che d’invidiare, è carente di questa distinzione.
All’invidia è collegata la superbia, che è spinta all’affermazione di sé, a quella che negli anni ’70 definivamo l’autovalorizzazione infondo, l’esigenza cioè di poter affermare se stessi e vedersi riconosciuti dagli altri. Anche in questo caso, c’è superbia e superbia, e il riferimento dovrebbe essere a un’idea comune di giustizia ripartitiva; un conto è la superbia di chi non si sente riconosciuto in modo adeguato dagli altri, e lotta per esserlo; un conto quella di chi già lo è, e inorgoglisce narcisisticamente per questo.
Collegata ad entrambe, l’ira, è un po’ come il combustibile che può accendere l’invidioso e il superbo e spingerli all’azione. L’ira, infatti, è il motore del cambiamento, quella che può tracimare trasformando invidia e superbia da passioni interne struggenti a fenomeni sociali. Il capitalismo rappresenta un assetto politico-economico particolare, una macchina produttiva che per funzionare ha bisogno che invidia, superbia e ira mettano l’uno contro l’altro gli individui appartenenti alla medesima classe, e invece di un ambiente a basso tasso di invidia, superbia e ira, a basso conflitto cioè, tra le classi.
Se l’invidia è senza superbia, non è più l’invidia costruttiva che spinge il povero avanti, ma è un’invidia indietro, dove ciò che interessa non è migliorare la propria condizione all’interno del miglioramento di quella di tutti, ma impedire di migliorarla a tutti; che forse il socialismo reale abbia avuto a che fare con questo problema? L’invidia senza superbia, potremmo osservare, si trasforma facilmente in risentimento, cioè nella spinta a recare svantaggio all’altro, senza saperne trarre il giusto vantaggio per sé. Tutti fermi per rimanere uguali, insomma; anziché tutti avanti al medesimo passo.
Ci sono altri due vizi che il capitalismo vede invece come il fumo negli occhi: l’accidia, cioè l’assenza di opera, perché spinge a sottrarsi alla riproduzione, a quell’etica cioè del lavoro analizzata da Max Weber che ne fa l’anima del capitalismo; da Paul Lafargue[viii] all’Autonomia operaia degli anni ’70 esiste un lungo ancorché minoritario filone nel movimento operaio che teorizza l’antagonismo nei termini di “rifiuto del lavoro”. E l’avarizia, che non è l’avidità ma il suo contrario, perché negandole all’investimento e al consumo sottrae al mercato merci e denaro che sono indispensabili alla riproduzione, a quello che oggi viene santificato come lo “sviluppo”. L’accidioso è colui che si tira indietro e non partecipa al grande gioco (ed è un gioco tragico!) del capitalismo; l’avaro tira indietro il proprio avere anziché il proprio essere, ma è lo stesso.
Per i due vizi rimanenti il rapporto con il capitalismo, l’organizzazione sociale nella quale viveva Descuret e noi viviamo, mi pare più complesso, ma c’è; perché da un lato è innegabile che gola e lussuria spingono i consumi: il mercato della ristorazione con i relativi gamberi rossi e gastronauti, con riferimento a una fortunata trasmissione radiofonica (e anche, paradossalmente, quello delle diete), o quello del sesso con prostituzione e pornografia. Ma, dall’altro, implicano anche l’aspirazione a un soddisfacimento libidico la cui repressione è considerata legata al potere in modo complesso da una lunga tradizione di pensiero nelle cui argomentazioni non possiamo qui entrare, ed evoco soltanto un’ampia riflessione che va da Freud all’ultimo Foucault, passando per Reich, o Lacan, o Marcuse, o Deleuze e Guattari. Questo doppio rapporto di gola e lussuria col potere spiega tra l’altro la dialettica, che è oggi presente nella nostra cultura ed è approfondita con grande chiarezza ancora da Galimberti, tra un’etica della soddisfazione incarnata dall’occidente secolarizzato, che estenderebbe al massimo la spinta alla produzione e al consumo anche in queste due aree; e un’etica della mortificazione, incarnata nel nostro contesto dalla morale religiosa (cristiana o islamica, Galimberti ha ragione, è indifferente), che si ostina a premere, in senso antilibidico, per la repressione dei vizi. Ed è uno scontro drammaticamente attuale, perché anche su di esso (oltre che su questioni economiche), in questi anni ci si ammazza nella guerra tra valori (e disvalori) dell’Occidente e fondamentalismo religioso (con fenomeni, peraltro, di complesso meticciato tra l'una e l'altra etica, ma non è questo il luogo per approfondirli).
Nell’immagine: Théodore Géricault (1791-1824). Alienata con monomania dell’invidia
Parte I: Sulla dimensione politica dei vizi: divagazioni
Confesso che quando ho ricevuto da Gian Franco Vendemiati e Federico Palerma il gentile invito a intervenire il 18 novembre alla giornata di studio Vizi o virtù? Attualità dei vizi capitali, presso la Sala del camino del Palazzo ducale di Genova[i], la prima reazione è stata la spiacevole sorpresa di un bambino colto in fallo, che da molto tempo (oltre quarant’anni!) non ripassava la lezione, e dei sette vizi capitali non ne ricordava più di tre o quattro. Ho dovuto faticosamente ritornare con la memoria agli anni del catechismo che frequentavo presso una suora laica della quale ora ricordo solo il nome e un’offuscata immagine di donnina anziana con voce dolce e abiti scuri. Ricordo che allora non avevo avuto difficoltà a dare un significato a parole come superbia, avarizia, invidia, gola, ira, che appartenevano già al mio vocabolario. L’ira era anzi il vizio che, da appassionato emulo degli eroi salgariani, evocava allora (e chissà se dovrebbe anche oggi?) in me la maggiore contrizione. Accompagnavano la parola lussuria sorrisetti maliziosi con i coetanei; sfumata l’ipotesi di una relazione con il lusso, avvertivamo vagamente come dovesse essere di tutti i vizi il più vizioso e il più interessante, quello che aveva a che fare con cose che gli adulti si sforzavano di tenerci celate, e noi di curiosare. Ma dove il mistero si faceva del tutto fitto era sull’accidia… Al di là della comoda rima con l’invidia che aiutava a mandare la serie a memoria, il settimo vizio che non avevamo proprio sentito nominare rimase a lungo per noi uno sconosciuto. Dovetti attendere qualche anno, quando fu la mamma, credo, a parlarmi della vicenda di papa Celestino a proposito del libro di Ignazio Silone, accompagnandosi con riferimenti danteschi, per averne un’idea.
Una volta risolto il problema di ricostruirne l’elenco e ascoltata l’impostazione complessiva della giornata, la seconda questione da risolvere è stata valutare se avrei potuto dare un contributo, e quale eventualmente. Mi è venuto allora in mente un testo divulgativo di medicina scritto da un medico francese, Jean Baptiste Félix Descuret (1795-1871), nel 1841[ii] che – a giudicare dalla facilità con la quale può essere reperito nelle librerie antiquarie nelle molteplici edizioni francesi, italiane, spagnole – dovette godere di discreta fortuna nella seconda metà dell’Ottocento. Presenterò qui gli appunti che ho preso per la mia relazione, in forma ancora interlocutoria e provvisoria.
L’operazione che sta alla base del testo, e mi è parsa di qualche interesse per noi, parte da lontano. I vizi capitali, infatti, la cui descrizione originale viene fatta risalire all’Etica nicomachea di Aristotele e quindi a un ambito disciplinare di filosofia morale, subirono una prima metamorfosi ad opera dei monaci cristiani, cui contribuì poi San Tommaso, che ne fecero dei peccati. Un ulteriore passaggio si deve all’etica kantiana, che costituì il riferimento implicito della psichiatria dell’Ottocento, e ne fece piuttosto i tratti distintivi di determinati caratteri.
Da ultimo, con testi come questo, i vizi capitali divennero passioni intese dal punto di vista, appunto, della medicina. Infatti La medicina delle passioni è il titolo del libro. I vizi capitali, così, non sono più affrontati come una macchia nella vita saggia e virtuosa del filosofo, o per la salvezza dell’anima dell’uomo di fede, ma come un pericolo per la salute, intesa in modo olistico come salute insieme fisica e “morale” (cioè mentale).
L’operazione non riguarda il solo Descuret, naturalmente, ma si colloca all’interno di un quadro più complessivo. In quegli anni infatti dalla cura della vita malata, quale la medicina era diventata da molto tempo in Occidente, si passa alla medicalizzazione preventiva della vita, operata perché non si ammali. Nasce così una nuova disciplina medica, l’igiene. Contestualmente – e questa operazione riguarda particolarmente un’altra area disciplinare che all’interno della medicina stava definendo la sua autonomia, la psichiatria – la medicina cessa d’interessarsi soltanto a ciò che della vita mentale era stato identificato come malattia (frenosi, melanconia, mania, isteria, ipocondria, qualche disturbo della condotta alimentare e poco più) – per estendere il suo campo all’anomalo nel suo complesso. Félix Voisin, del quale ci siamo recentemente occupati[iii], ebbe un ruolo importante in questo passaggio, al quale Michel Foucault ha dedicato un corso molto ricco a metà degli anni ‘70[iv].
Se guardiamo un testo di medicina del Rinascimento[v], vediamo che il medico affronta le malattie, ma non dice come si deve vivere per prevenirle. Di questo si occupano il filosofo e il prete; se ne occupavano i medici dell’antichità greco-romana, ma questo perché erano medici e filosofi assieme e il processo di separazione e specializzazione delle due materie – filosofia e medicina – non era ancora completo. Il medico entra nella questione di come si debba vivere quando il secolo dei lumi ha fatto sì che meno persone siano disponibili a farsi sconsigliare i vizi capitali dal prete, e viene chiamato per questo a fare la sua parte. La questione riproposta da Allen Frances in occasione dell’uscita del DSM 5, che può sintetizzarsi nel fatto che la medicina e la psichiatria non pretendano di curare chi è normale, infondo, nasce in quegli anni, e Descuret è un medico si presta con particolare solerzia alla bisogna.
Il suo testo principale vorrebbe essere dunque un trattato d’igiene, ricco di prescrizioni mediche utili a garantirsi una vita sana, per la quale il medico sostiene che le passioni debbano essere sempre temperate. Però, questo tentativo di riduzione della questione dei vizi capitali a problema sanitario, e perciò scientifico, nasce in Descuret già da subito inquinato; il sottotitolo reca infatti scritto: “le passioni considerate in rapporto alla medicina”, e va bene, ma anche “alle leggi e alla religione”. Il che significa che il trattato si propone sì come un trattato medico, ma che intorno a ragionamenti di carattere medico se ne articoleranno anche altri di carattere politico e religioso, che con la medicina in se stessa poco hanno a che vedere. Come se il fatto di conformare il proprio comportamento alle leggi degli uomini, e a quelle di Dio (alla politica e alla religione), corrispondesse automaticamente a un vivere sano, il che non è necessariamente.
Mi pare che questa operazione appartenga a quelle per le quali viene utilizzata la definizione di biopolitica, un termine che dopo la sua introduzione ad opera di Foucault è andato incontro a una indubbia espansione semantica, fino a designare ogni situazione in cui si tende ad allargare – in questo caso in modo esplicito ma molto più spesso in modo surrettizio – una governamentalità che è riconosciuta al medico per l’ambito che riguarda la salute del corpo e della mente, ad ambiti ad esso eterogenei che hanno a che fare con il comportamento sociale-politico e con quello nella sfera intima. Cioè con tutti gli ambiti principali di esercizio della libertà.
Infatti, dei sette vizi capitali alcuni hanno una relazione più diretta con la salute ed è quindi comprensibile che rispetto ad essi il medico prenda posizione. Possiamo riferirci ad esempio alla gola, le cui implicazioni con il comportamento alimentare e quindi con una sana costituzione dell’organismo balzano agli occhi; o all’ira, per le importanti implicazioni per il sistema cardiocircolatorio. In altri casi, invece, la relazione si fa più indiretta: è l’esempio della lussuria, per le possibili relazioni con la contrazione di malattie a trasmissioni sessuale. In altri casi ancora, le ragioni in base alle quali il medico debba dire la sua in quanto medico e pretendere che gli sia riconosciuta più autorevolezza che agli altri mi paiono poco comprensibili. Ci riferiamo alla superbia, all’avarizia, all’accidia o all’invidia. Chi ne è portatore potrà essere più o meno simpatico, più o meno piacevole come partner, amico o vicino di casa, ma non avrà maggiore o minore probabilità di ammalarsi per questo. L’affermazione che qualcuno si rode il fegato di bile dall’invidia, è per noi evidentemente solo una metafora che non preoccupa l’epatologo; anche se è giusto invece tenere presente che il riferimento umorale ancora presente nei modelli medici di Descuret lo confondono, e sembrano fargliela prendere abbastanza sul serio.
Ci sono dunque vizi direttamente rilevanti per la salute, altri indirettamente, altri assai poco; ma il medico, trasformandoli in passioni, sente il bisogno di esprimersi con la stessa autorevolezza su tutti. Il che diventa tanto più delicato, perché i vizi hanno un’importanza, in cui vorrei brevemente inoltrarmi, per la vita sociale, e in particolare per l’economia e la politica.
Per tre di essi il rapporto con le relazioni di potere mi pare evidente: l’invidia innanzitutto, che è l’unico vizio che, come osserva giustamente in uno studio ricco e importante pubblicato in anni recenti Umberto Galimberti è l’unico dei vizi a non dare piacere[vi]. L’invidia è il sentimento di chi sente di mancare di qualcosa rispetto a chi ce l’ha, banalmente quindi di chi si sente povero rispetto al ricco. Helmut Schoek[vii], citato da Galimberti, nota come l’invidia è un importante motore sociale, tanto dall’ottica del comunismo (è istanza egualitaria, passione rivoluzionaria), che per il capitalismo (in quanto promuove il progresso attraverso la concorrenza). Evidentemente le politiche di welfare, in questo senso, sono il getto d’acqua del pompiere contro l’invidia rivoluzionaria. Ragionare sull’invidia in quanto tale, senza fare riferimento alla posizione nella quale l’invidioso si trova – una tentazione nella quale forse a tratti anche Galimberti rischia di cadere – è pericoloso. Certo la questione è complessa e meriterebbe ben altro approfondimento, ma credo che per dare all’invidia un valore di merito sia indispensabile il riferimento a un’idea ragionevolmente generale di giustizia; in riferimento alla quale l’invidia è giusta o sbagliata. C’è un’invidia buona, e giusta, che è quella che provo per quella parte del tuo che in nome di una superiore nozione di giustizia spetta a me; e un’invidia appunto viziosa, ingiusta, che è quella che provo quando, in riferimento alla stessa idea di giustizia, dovrei essere già sazio del mio. Ovviamente l’analisi di Descuret, che in quanto medico prestigioso appartiene nella società francese di Luigi Filippo alla classe di coloro che hanno più ragione di essere invidiati che d’invidiare, è carente di questa distinzione.
All’invidia è collegata la superbia, che è spinta all’affermazione di sé, a quella che negli anni ’70 definivamo l’autovalorizzazione infondo, l’esigenza cioè di poter affermare se stessi e vedersi riconosciuti dagli altri. Anche in questo caso, c’è superbia e superbia, e il riferimento dovrebbe essere a un’idea comune di giustizia ripartitiva; un conto è la superbia di chi non si sente riconosciuto in modo adeguato dagli altri, e lotta per esserlo; un conto quella di chi già lo è, e inorgoglisce narcisisticamente per questo.
Collegata ad entrambe, l’ira, è un po’ come il combustibile che può accendere l’invidioso e il superbo e spingerli all’azione. L’ira, infatti, è il motore del cambiamento, quella che può tracimare trasformando invidia e superbia da passioni interne struggenti a fenomeni sociali. Il capitalismo rappresenta un assetto politico-economico particolare, una macchina produttiva che per funzionare ha bisogno che invidia, superbia e ira mettano l’uno contro l’altro gli individui appartenenti alla medesima classe, e invece di un ambiente a basso tasso di invidia, superbia e ira, a basso conflitto cioè, tra le classi.
Se l’invidia è senza superbia, non è più l’invidia costruttiva che spinge il povero avanti, ma è un’invidia indietro, dove ciò che interessa non è migliorare la propria condizione all’interno del miglioramento di quella di tutti, ma impedire di migliorarla a tutti; che forse il socialismo reale abbia avuto a che fare con questo problema? L’invidia senza superbia, potremmo osservare, si trasforma facilmente in risentimento, cioè nella spinta a recare svantaggio all’altro, senza saperne trarre il giusto vantaggio per sé. Tutti fermi per rimanere uguali, insomma; anziché tutti avanti al medesimo passo.
Ci sono altri due vizi che il capitalismo vede invece come il fumo negli occhi: l’accidia, cioè l’assenza di opera, perché spinge a sottrarsi alla riproduzione, a quell’etica cioè del lavoro analizzata da Max Weber che ne fa l’anima del capitalismo; da Paul Lafargue[viii] all’Autonomia operaia degli anni ’70 esiste un lungo ancorché minoritario filone nel movimento operaio che teorizza l’antagonismo nei termini di “rifiuto del lavoro”. E l’avarizia, che non è l’avidità ma il suo contrario, perché negandole all’investimento e al consumo sottrae al mercato merci e denaro che sono indispensabili alla riproduzione, a quello che oggi viene santificato come lo “sviluppo”. L’accidioso è colui che si tira indietro e non partecipa al grande gioco (ed è un gioco tragico!) del capitalismo; l’avaro tira indietro il proprio avere anziché il proprio essere, ma è lo stesso.
Per i due vizi rimanenti il rapporto con il capitalismo, l’organizzazione sociale nella quale viveva Descuret e noi viviamo, mi pare più complesso, ma c’è; perché da un lato è innegabile che gola e lussuria spingono i consumi: il mercato della ristorazione con i relativi gamberi rossi e gastronauti, con riferimento a una fortunata trasmissione radiofonica (e anche, paradossalmente, quello delle diete), o quello del sesso con prostituzione e pornografia. Ma, dall’altro, implicano anche l’aspirazione a un soddisfacimento libidico la cui repressione è considerata legata al potere in modo complesso da una lunga tradizione di pensiero nelle cui argomentazioni non possiamo qui entrare, ed evoco soltanto un’ampia riflessione che va da Freud all’ultimo Foucault, passando per Reich, o Lacan, o Marcuse, o Deleuze e Guattari. Questo doppio rapporto di gola e lussuria col potere spiega tra l’altro la dialettica, che è oggi presente nella nostra cultura ed è approfondita con grande chiarezza ancora da Galimberti, tra un’etica della soddisfazione incarnata dall’occidente secolarizzato, che estenderebbe al massimo la spinta alla produzione e al consumo anche in queste due aree; e un’etica della mortificazione, incarnata nel nostro contesto dalla morale religiosa (cristiana o islamica, Galimberti ha ragione, è indifferente), che si ostina a premere, in senso antilibidico, per la repressione dei vizi. Ed è uno scontro drammaticamente attuale, perché anche su di esso (oltre che su questioni economiche), in questi anni ci si ammazza nella guerra tra valori (e disvalori) dell’Occidente e fondamentalismo religioso (con fenomeni, peraltro, di complesso meticciato tra l'una e l'altra etica, ma non è questo il luogo per approfondirli).
Nell’immagine: Théodore Géricault (1791-1824). Alienata con monomania dell’invidia
Segue Parte II: L'igiene come virtù (clicca per proseguire)
[i] Il convegno era organizzato dall’Istituto per le Materie e Forme Inconsapevoli di Genova, dall’Accademia Ligustica di Belle Arti, dal Comune di Genova e dalla Fondazione Palazzo Ducale.
[ii] J.B.F. Descuret, La medicina delle passioni ovvero le passioni considerate nelle relazioni colla medicina, colle leggi e colla religione (1841), Milano, Ernesto Oliva, 1861.
[iii] Si veda in questa rubrica: Difficile separare, difficile tenere insieme. Félix Voisin, la costruzione dell’anormale come campo unitario e alcune questioni odierne sui confini della psichiatria.
[iv] M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France 1974-76, Milano, Feltrinelli, 2000.
[v] P. es.: P.F. Peloso, Modelli della mente e del corpo nell’opera medica di Pompeo Sacco, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, 1996.
[vi] U. Galimberti, I vizi capitali e i nuovi vizi, Milano, Feltrinelli, 2005.
[vii] H. Schoek, L’invidia e la società, Milano, Rusconi, 1974.
[viii] Il rivoluzionario cubano Paul Lafargue (1842-1911), genero di Karl Marx del quale sposò la figlia Laura, fu autore nel 1880 di un saggio dal titolo significativo: Il diritto alla pigrizia (tr. it.: Roma, Emme Erre, 1996).
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