1. Il dibattito sulla condizione giuridica del sofferente psichico si è arricchito in questi anni di notevoli contributi. Nell'ambito del diritto civile, voci numerose e autorevoli da tempo hanno svelato come le tradizionali nozioni di capacità, incapacità, rappresentanza non sono più adeguate a descrivere il regime degli atti da compiersi nel suo interesse.
Tra questi atti meritano una considerazione specifica le decisioni relative alla salute per le quali diversi ordini di ragioni sollecitano una verifica degli spazi entro i quali può esprimersi l'autonomia del sofferente psichico. Si tratta infatti di scelte inerenti (non a diritti di natura patrimoniale, ma) a diritti fondamentali della persona per le quali dunque i canoni di validità elaborati per gli atti a contenuto patrimoniale non possono essere applicati meccanicamente. Se dunque il tradizionale paradigma sul quale viene ordinata la disciplina degli atti compiuti dal sofferente psichico (alienazione/incapacità/ rappresentanza) – secondo il quale la malattia mentale determina l'incapacità a compiere qualsiasi atto della vita civile e rende necessaria quindi la pronuncia di interdizione e la nomina di un rappresentante legale che si sostituisca completamente all'incapace nel compimento di ogni atto della vita civile – da tempo è entrato in crisi e rivela la propria inadeguatezza sul terreno degli atti a contenuto patrimoniale, anche sul versante degli atti relativi alla gestione della propria salute se ne è avviato un superamento, ma si tratta di un processo ancora frammentario, condraddittorio, incompleto.
In questa sede non ci interessa tanto approfondire il problema del trattamento medico su persona in una condizione di temporanea incapacità dovuta a trauma o anestesia, ma piuttosto quello del trattamento medico su una persona affetta da una qualche patologia di natura psichica. Come si diceva, in questo campo, si assiste ad un processo di superamento delle nozioni di capacità e incapacità dovuto a circostanze di diversa natura, qualcuna di fatto, altre di diritto. I profondi cambiamenti della scienza e delle tecnologie mediche – si pensi soltanto ai campi della diagnostica, della rianimazione, dei trapianti o della riproduzione – e degli stessi scopi che la medicina persegue in settori diversi da quello tradizionale della prevenzione e cura delle malattie – vale a dire nel campo dell'estetica, dello sport, della sperimentazione e in altri ancora – determinano la necessità di un diverso approccio al tema del consenso al trattamento medico. Ne risultano infatti ampliati in modo fino a poco tempo fa impensato gli spazi di opzionalità, sia nel senso che sono ora dominabili processi in passato soggetti solo alla logica della necessità – o del caso, o della "natura"-; sia nel senso che le decisioni relative al corpo sempre più spesso coinvolgono la dimensione esistenziale complessiva della persona: la scelta non è più tra vita e morte , tra salute o malattia, ma tra diverse condizioni o qualità di vita, tra diverse possibilità. Ed allora è più difficile ammettere che qualcuno si sostituisca interamente all'interessato nel compiere scelte che hanno un carattere personalissimo.
Il diritto dal canto suo sta modificando il proprio approccio a questi temi. Intanto, da un punto di vista generale, è mutato lo stesso modo di considerare il consenso al trattamento medico, che non viene più inteso, secondo la concezione penalisitica, come consenso dell'avente diritto, consenso che giustifica una condotta (del medico) altrimenti illecita; e neppure, in una logica contrattuale, come atto di disposizione del corpo, ma principalmente come modo di partecipazione del paziente al processo terapeutico, come esercizio del diritto alla salute, nella linea che segna il passaggio dal paternalismo del medico al coinvolgimento del paziente nella relazione terapeutica.La stessa partecipazione e coinvolgimento del paziente in questa relazione ha quindi un valore terapeutico che deve essere salvaguardato, quando possibile, anche per il sofferente psichico.
A loro volta, le diverse leggi speciali che disciplinano specifici interventi medici (trapianti, sperimentazione, aborto e via enumerando) non rispecchiano più lo schema tradizionale, ma allo stesso tempo non sembrano espressione di un qualche principio di carattere generale.
2. L'approccio tradizionale si trova ancora riflesso nel codice di deontologia medica del 1995 dove – fermo restando l'obbligo del medico di prestare l'assistenza e le cure indispensabili quando sussistano condizioni di necessità e di urgenza per il paziente che non possa al momento esprimere la propria volontà (art.34) – si stabilisce che il medico ha sempre l'obbligo di ottenere il consenso del paziente e deve desistere da ogni trattamento in caso di esplicito rifiuto (art.31).Quando il paziente è un minore o un infermo di mente il consenso deve essere espresso dal rappresentante legale (at.32).
Nessuno spazio, dunque, il codice di deontologia sembra riservare al consenso dell'incapace: il suo consenso è irrilevante proprio in quanto si tratta di persona incapace e l'incapacità priva totalmente il soggetto di ogni autonomia volitiva.
Eppure questa posizione di netta chiusura era già stata superata dal legislatore a partire dalla l. n.833 del 1978 isitutiva del servizio sanitario nazionale. Nel quadro di una legge che, in attuazione dei principi costituzionali, pone il consenso del paziente a fondamento del suo rapporto con il medico, anche la condizione del sofferente psichico nell'ambito del trattamento medico viene ridefinita. Lo si desume già dai limiti entro cui è ammesso il trattamento obbligatorio della malattia mentale che può svolgersi "in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengono accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive misure extraospedaliere" (art. 34,l.833). Il trattamento obbligatorio, dunque, risponde ad un'esigenza non di custodia, ma di cura del paziente: occorre in altri termini che vi sia una cura, che sia urgente e che debba essere svolta in condizioni di degenza ospedaliera.
Inoltre, nel caso di trattamenti obbligatori del malato di mente, essi, "debbono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato" (art.33). Si parla dunque di consenso e partecipazione del sofferente psichico: il chè da un lato presuppone possibilità che anche in lui residuino spazi di autonomia e dall'altro valorizza il ruolo terapeutico della partecipazione del paziente alla cura. La possibilità o impossibilità di tale partecipazione non è più una conseguenza automatica della malattia mentale, ma dipende invece dalle condizioni reali in cui il paziente si trova, dal tipo della sua malattia. In ciò, sia detto per inciso, si ha un'ulteriore conferma di quella linea espressa dalla riforma sanitaria con l'abrogazione dell'art. 420 c.c. che all'internamento in ospedale psichiatrico faceva seguire la nomina del tutore provvisorio.
Si spezza dunque la correlazione necessaria tra malattia mentale/incapacità/ totale inettitudine a dare il proprio consenso:anche nel malato di mente vanno ricercati e valorizzati quegli spazi di autonomia compatibili con la sua condizione.
3. Altre leggi in quegli anni tengono conto di queste residue possibilità di autonomia del sofferente psichico nel disciplinare alcuni specifici trattamenti medici. In una rassegna senza pretese di sistematicità o completezza, possiamo ricordare i seguenti provvedimenti:
a) la legge sull'aborto (l. 22 maggio 1978, n.194) all'art. 13 disciplina l'aborto dell'interdetta, prevedendo: a.a.)che la richiesta possa provenire anche da lei personalmente; a.a.a.) che comunque, anche quando provenga dal marito o dal tutore, debba essere confermata personalmente dalla donna; a.a.a.a.) che in ogni caso la richiesta del marito o tutore contro la sua volontà non possa aver seguito. Non si può tuttavia non notare che la disciplina dell'art. 13 fa riferimento solo alle donne interdette, ma non quelle che, pur versando in condizioni di sofferenza psichica, non siano state oggetto di alcun formale provvedimento di interdizione, per le quali dunque è incerta la stessa possibilità di ricorrere all'aborto al di fuori dei casi di necessità.
– la legge sugli stupefacenti 22 dicembre 1975,n.685 prevede che la richiesta di essere sottoposto ad accertamenti diagnostici e ad interventi terapeutici o riabilitativi da parte della persona dedita all'uso di sostanze stupefacenti, possa essere fatta personalmente dal minore o dall' incapace di intendere e di volere oltre che dagli esercenti la potestà o la tutela (art. 95).
Altre volte, invece, la legge pur discipliando espressamente il consenso della persona minore di età trascura di considerare l'incapacità psichica. Così la legge sulla donazione del sangue e dei suoi componenti (l.4 maggio 1990,n.107) che si applica, tra l'altro, anche alla donazione di midollo (art.1,c.3), ammette che anche i minori possano donare alcune componenti del sangue con il consenso dei genitori, ma nulla dice della donazione da parte dell'incapace (art. 3).Cosi se un malato di leucemia ha un fratello minore può sperare in un trapianto, ma non altrettanto se ha un fratello maggiorenne malato di mente.
Il D.M.18 marzo 1998 relativo alle sperimentazioni di farmacidisciplina distintamente le sperimentazioni su minore (art. 3.7.9) e quelle su soggetti incapaci (art.3.7.9) e quindi dedica all'incapace specifica attenzione. Il principio è quello che tali soggetti possono essere inclusi, col consenso del rappresentante legale, in sperimentazioni terapeutiche. Di regola invece non possono essere inclusi in sperimentazioni non terapeutiche neppure col consenso del rappresentante a meno che non siano soddisfatte alcune condizioni (rischio minimo, impossibilità di svolgere la sperimentazione su altri soggetti, che il paziente sia affetto da una malattia per il cui trattamento sia destinato il prodotto oggetto di studio). Quel che nel decreto è apprezzabile è il fatto che per certi tipi di trattamento (sperimentazione), il consenso del legale rappresentante non è sufficiente ma, per una completa tutela del soggetto, occorre che siano soddisfatte altre condizioni . Il limite, ancora una volta, è da un lato la mancata considerazione dell'incapacità non dichiarata, in cui perciò manchi un rappresentante legale, e dall'altro la mancata considerazione della rilevanza autonoma del consenso dell'incapace accanto a quello del rappresentante.
4. Questa incompleta rassegna mi sembra abbia posto in evidenza come dalle leggi speciali che hanno in qualche modo preso in considerazione il trattamento sanitario su persone incapaci il problema del consenso riceva risposte soltanto parziali, episodiche, a volte contraddittorie.
Alle volte la richiesta di trattamento medico da parte dell'incapace (l. tossicodipendenze) o dell'interdetta (l. aborto) è sufficiente per avviare la procedura. Altre volte invece legittimato a consentire è solo il rappresentante legale (sperimentazione). Vi sono poi casi in cui la posizione dell'incapace non viene per nulla considerata (donazione del sangue). L'esigenza che il consenso dell'incapace venga comunque ricercato – espressa dalla l. 833/1978 – non viene dunque ripresa in altre occasioni.
A fronte di questa disciplina lacunosa ed insoddisfacente, l'esperienza presenta una casistica sempre più varia. Si consideri intanto il caso del disabile non interdetto e perciò senza rappresentante: chi decide per o con lui? Nella prassi alle volte si richiede il consenso dei parenti, ma i parenti non hanno alcuna veste legale ed inoltre potrebbe sussistere un conflitto d'interessi.
Si consideri poi il caso del rappresentante che dà il consenso ad un certo trattamento (trasfusione, trapianto, intervento chirurgico) al quale il disabile si oppone. Come risolvere il conflitto tra incapace e rappresentante?
Si considerino poi gli interventi non terapeutici (donazioni, sperimentazioni non terapeutiche) dove la tutela dell'incapace non può accontentarsi del consenso del rappresentante ma dovrebbe richiedere altre condizioni di eticità dell'intervento (ad esempio una certa relazione di parentela tra donante e ricevente, l'assenza di altri possibili donatori e così via).
Si considerino poi gli interventi nel campo della procreazione: a quali condizioni, ad esempio, è ammissibile la sterilizzazione di una persona malata di mente? Il medico può accontentarsi del consenso del rappresentante legale o deve chiedere l'intervento del giudice? su quali basi?
L'esemplificazione potrebbe proseguire nel campo della chirurgia estetica o con riferimento ai trattamenti di sostegno vitale o a quelli che accompagnano il malato verso la fine della vita, ma quanto detto mi sembra sia sufficiente a dar conto dell'esigenza di nuove regole e di nuovi principi che meglio garantiscano all'incapace da un lato un certo spazio di autonomia, dall'altro una tutela più efficace di quella che il ricorso alla rappresentanza non può offrire.
Il nuovissimo codice di deontologia medica dell'ottobre 1998compie qualche progresso rispetto al precedente codice del 1995. Fermo restando che il consenso, per il minore o l'incapace, viene prestato dal legale rappresentante, esso prevede ora che in ogni caso il medico ha l'obbligo di dare informazioni al paziente minore o adulto infermo di mente e "deve tener conto della sua volontà, compatibilmente con l'età e con la capacità di comprensione" (art. 34). Dunque si comincia a considerare la rilevanza dell'autodeterminazione dell'incapace accanto alla volontà del rappresentante, ma è un tentativo timido e incompleto perchè il nuovo codice non ci dice nulla, ad esempio, su come affrontare il conflitto che possa eventualmente insorgere tra incapace e rappresentante o su come valutare il caso dell'incapace naturale.
Più articolata è la disciplina contenuta nella Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo e la Biomedicina (aperta alla firma ad Oviedo il 4 aprile 1996, ma non ancora ratificata dall'Italia).
In termini generali (e rinviando ad apposite disposizioni per alcune questioni specifiche), si pone il principio secondo cui un intervento su persona che non ha la capacità di dare il proprio consenso può essere compiuto solo se le arreca un "diretto beneficio" (art. 6.1.). Il consenso è espresso dal rappresentante o da altri soggetti od organismi previsti dalla legge dei singoli Stati. In ogni caso la persona interessata dovrà, nei limiti del possibile, prendere parte alla procedura e quindi ricevere l'informazione e dare il proprio consenso (art. 6.3.). A questa norma si aggiungono disposizioni particolari relative alle situazioni di emergenza – dove il medico non potendo ottenere il consenso dovrà comunque intervenire per il bene del paziente (art.8) – e alle disposizioni anticipate, espresse dal paziente prima della perdita della capacità di determinarisi, che dovranno essere tenute in considerazione (art.9).
Dunque la regola è ancora una volta quella del consenso del legale rappresentante ed in aggiunta a questo, e nei limiti in cui è possibile, la ricerca del consenso e della partecipazione del paziente incapace alla terapia. Ed è importante che questo venga sancito come principio generale. Ugualmente importante è che sia posto un limite ai poteri del rappresentante consistente nella liceità solo di quei trattamenti medici che comportano per l'incapace un "diretto beneficio". Anche con il consenso del rappresentante non saranno perciò ammissibili trattamenti voluttuari o futili, quando non dannosi, e in ogni caso viene reso possibile un controllo del giudice sulle decisioni del rappresentante. Quello del "beneficio diretto" costituisce dunque un criterio di controllo che andrà meglio definito in relazione ai diversi tipi di interventi medici e al possibile futuro ampliarsi delle competenze mediche. E' d'altra parte logico che, se i poteri del rappresentante non sono illimitati nell'ambito dei rapporti patrimoniali – dove per gli atti più impegnativi si richiede l'intervento del giudice tutelare o del tribunale -, un qualche controllo debba essere svolto anche per gli atti di natura personale. Ad esempio, si può condividere oppure no che i genitori facciano eseguire sulla figlia nata con la sindrome di dawn complicati interventi di plastica per nascondere quei tratti somatici che ne favoriscono l'emarginazione sociale, ma mi sembra che una decisione di questo tipo non possa essere presa senza alcun controllo. Allo stesso modo può essere opportuno che anche un transessuale interdetto si sottoponga ad interventi per adeguare il sesso fisico a quello psichico, ma bisognerà verificare che un intervento di questo tipo rappresenti per lui un "beneficio diretto". Ed altrettanto dovrà dirsi per la sterilizzazione o per altri interventi il cui vantaggio per la salute fisica o psichica – o più in generale per il benessere – del paziente non è di immediata evidenza.
Questo controllo è poi più incisivo per alcuni trattamenti medici, come i trapianti e la sperimentazione per i quali la Convenzione introduce ulteriori specifiche condizioni di ammissibilità (artt. 17 e 20). Ad esempio, la donazione da parte di persona incapace è ammessa in via eccezionale solo quando si tratti di tessuti rinnovabili, non sia disponibile un donatore capace di esprimere il consenso, il ricevente sia un fratello o una sorella del donante, si tratti di donazione potenzialmente destinata a salvare la vita del ricevente, vi sia l'autorizzazione scritta del rappresentante legale, il donatore potenziale non si opponga (art.20).
E' interessante notare che in questi casi all'incapace è dato un potere di veto cosicchè la sua volontà, se è in grado di esprimerla, prevale su quella contraria del rappresentante legale.
Si pone dunque una regola di soluzione del conflitto tra incapace e rappresentante che invece manca come regola di carattere generale. E questa mi sembra una lacuna che deve essere colmata. Ma ancor più grave, mi pare, è la mancanza di regole per il trattamento medico dell'incapace naturale che rende difficile la tutela dell'interesse del malato. Mancando una regola sul consenso, il trattamento medico sembra giustificato solo nel presupposto dell'esistenza di una situazione di necessità o di urgenza. L'incapace finirebbe così per incontrare difficoltà nell'accesso a tutti quei trattamenti (non necessari e urgenti ma) utili per i quali l'agire del medico presuppone il consenso dell'interessato.
Ecco allora che anche dall'esame di quest'ordine di problemi si ha una conferma non solo dell'insufficienza dei tradizionali istituti di protezione degli incapaci, ma anche della inadeguatezza dello stesso concetto di incapacità a dar conto della condizione del minore e del sofferente psichico nell'esercizio di diritti fondamentali come è appunto il diritto alla salute e si palesa dunque l'opportunità di introdurre forme più agili ed elastiche di sostegno al sofferente psichico, al disabile, all'anziano, come può essere, appunto, la nomina di un amministratore di sostegno. Ma ad un tempo risulta chiaramente che la disciplina dell'amministratore di sostegno richiede di essere articolata in modo da prevederne compiti di sostituzione o di assistenza non solo nel campo dei rapporti patrimoniali, ma anche in quello dei rapporti personali come è appunto l'esercizio del diritto alla salute. Potrebbe allora prevedersi che la richiesta di nomina provenga non solo dall'interessato o dai parenti, ma anche dal medico, o dall'ente sanitario o assitenziale che ha in cura il malato. Dovrebbero poi meglio distribuirsi tra disabile e amministratore i modi di partecipazione alla decisione terapeutica e di soluzione dei possibili conflitti, oltre che prevedersi forme di controllo da parte del giudice.
Da una disciplina frammentaria, episodica e contraddittoria si dovrebbe dunque passare alla individuazione di alcuni principi e regole di generale applicazione ed inoltre alla previsione di una disciplina specifica per alcune tipologie di atti che, non diversamente dalla donazione a fine di trapianto o dalla sperimentazione, richiedono una tutela particolare del paziente.
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