Negli ultimi giorni, riviste giuridiche specializzate, pubblicano due casi di estremo rilievo riguardanti l’ipotetica responsabilità penale dello psichiatra per il suicidio del paziente in cura da questi.
Tali casi, fortunatamente, non sono così frequenti; tuttavia, una ricerca giurisprudenziale della quale vi renderò poi conto, dimostra che la materia è passata ormai più di una volta, e con soluzioni spesso divergenti, nelle aule dei Tribunali italiani.
LE NORME RICHIAMATE
A seguito dell’ormai datata chiusura dei "manicomi", l’assistenza dei malati psichiatrici non è più di tipo sostanzialmente contenitivo (del tutto simile ad una prigionia) ma il carattere è principalmente terapeutico; in parole povere, si è passati da una impostazione basata sulla sorveglianza del paziente ad una impostazione che si sviluppa nell’alveo della massima attenzione terapeutica con il coinvolgimento in questo processo anche dei parenti ed in senso lato della società.
Questa breve premessa dovrebbe aiutare a meglio comprendere la portata della norma penalistica che in casi del genere l’organo giudicante deve interpretare-applicare al caso concreto.
Si tratta (per gli amanti della precisione) dell’art. 40 del codice penale secondo cui "nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo".
Anche occhi "inesperti" comprendono immediatamente che nel caso che si tratta, l’accento andrà posto su due termini (azione ed omissione) nonchè su quello che in diritto viene definito come nesso (rapporto) di causalità.
Per comprendere il concetto di rapporto di causalità, decisivo nel campo legale, ritengo opportuno fornire un semplice esempio di scuola, di quelli che ci raccontavano all’università (potrà apparire non del tutto pertinente ma schiarirà le idee alle lettrici e dei lettori).
Tizio rifila un pugno a Caio procurandogli la frattura del setto nasale. Caio viene soccorso da un’ambulanza, che, sciaguratamente, durante il trasporto in ospedale, esce di strada e finisce per incidentarsi; Caio, a seguito del sinistro, decede. Ecco il punto: giuridicamente Tizio non è responsabile della morte di Caio, ma solo del suo ferimento e ciò perchè il pungo rifilato non è stata la"causa" della morte ma, come si dice in gergo giuridico, soltanto l’"occasione". E’ vero che senza pugno Caio non sarebbe morto, ma è altrettanto vero che per la frattura del setto nasale non si muore; il sopravvenuto incidente, quindi, ha eliminato il rapporto di causalità.
Volendo usare il criptico lessico della Cassazione "Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva".
Fatte queste precisazioni, che mi auguro essere chiare, sarà più accessibile il racconto delle vicende giudiziarie perchè si tratta di capire fino a che punto, un’azione o un’omissione (di uno psichiatra) sia causa e non già semplicemente occasione di una successiva condotta lesiva o auto-lesiva del paziente.
I FATTI.
La casistica che vi propongo parte da due recenti pronunce, di segno opposto.
In un primo processo, deciso dal Tribunale di Ravenna, uno psichiatra era accusato di omicidio e lesioni personali colpose a seguito del suicidio del paziente che aveva in cura. Lo sventurato era affetto da una complessa patologia psichiatrica (per i tecnici si trattava di disturbo della personalità borderline) e le cure ricevute non furono in grado di escludere il rischio suicidiario.
Il disturbo borderline, sul quale vi è ampia discussione in dottrina, sarebbe caratterizzato da instabilità delle relazioni affettive, che risultano peraltro transitoriamente intense, instabilità dell'immagine di sé, impulsività nei comportamenti, minacce e/o comportamenti autolesionisti, rabbia ricorrente e poco controllata, ideazione a volte non corretta (dissociativa o persecutoria).
L’assoluzione viene giustificata dal giudice con "l’impossibilità di sottoporre lo stesso paziente ad una continua e stretta sorveglianza" nonchè con un ragionamento decisamente tecnico-scientifico ("la responsabilità professionale nel settore degli interventi psichiatrici va doverosamente affrontata in modo diverso e con maggiore rigore probatorio rispetto agli altri campi della medicina, con riferimento al minor grado di certezza che nella psichiatria notoriamente si è raggiunto rispetto alle conoscenze acquisite negli altri settori della stessa scienza").
Da un lato, quindi, secondo il Tribunale di Ravenna lo psichiatra va assolto perchè dopo la chiusura dei manicomi manca la concreta possibilità di una stretta sorveglianaza-vigilanza; dall’altro, perchè la psichiatria è ancora una scienza altamente imperfetta (o più imperfetta di altre, più aleatoria di altre) e pertanto anche una cura eventualmente sbagliata o opinabile, che non riesca ad evitare il suicidio, non è di per sè sola sufficiente a manifestare mancanza di diligenza medico-professionale.
Di diverso avviso è invece la Corte di Cassazione in un secondo caso che tuttavia, come avrete modo di verificare, si presenta più grave. Ecco i fatti.
Una paziente, affetta da sindrome depressiva psicotica, con tre precedenti (e seri) tentativi di suicidio, viene ricoverata presso unacasa di cura; pochi giorni dopo il ricovero, il direttore della casa di cura (che era anche il suo medico curante) le consente diallontanarsi dal luogo di ricovero per una passeggiata in compagnia di un’assistente volontaria (secondo i giudici, e il particolare non è irrilevante, "priva di specializzazione e di conoscenze medico-infermieristiche"); la stessa volontaria non viene adeguatamente avvisata dello stato mentale della paziente e dei pregressi tentativi di suicidio; inoltre la paziente esce dalla clinica, sempre secondo i giudici, e si ritrova in una situazione di diminuita custodia, prima "della fase di latenza del trattamento farmacologico antidepressivo, con conseguente aumento del rischio suicidiario". La tragedia si compie nell’abitazione della paziente, dove avviene il suicidio per defenestrazione.
Questo secondo caso ha avuto un esito opposto rispetto al primo menzionato; sia il Tribunale, che la Corte d’Appello che, infine, la Cassazione, hanno condannato il medico con questa motivazione: "il sanitario che ha in cura un paziente infermo di mente rimane titolare dell’obbligo della protezione del bene della vita e dell’incolumità individuale del medesimo, per lo meno quando questi risulti pericoloso per sè, come quando sia ad alto rischio suicidiario".
È vero quindi che le soluzioni degli organi giudicanti sono state diverse; ma è altrettanto vero che il secondo caso è caratterizzato da una indubbia serie di omissioni, giudicate in rapporto di causalità con l’evento auto-lesivo.
ALTRI PRECEDENTI.
Come ho già specificato, il sanitario sarà tanto più responsabilizzato quanto il paziente sia potenzialmente pericoloso per sè ma anche per gli altri; i casi trattati sinora, infatti, nascevano da un suicidio, ma la casistica giurisprudenziale presenta anche altre ipotesi.
Una vicenda vecchia ormai di venti anni vide assolto (dopo la condanna in appello) uno psichiatra che, malgrado l’esplicita richiesta dei familiari, non propose un trattamento sanitario obbligatorio in regime di degenza ospedaliera nei confronti di un pazienteschizofrenico che si rese autore, solo due giorni dopo, di un accoltellamento letale ai danni della madre.
Mentre quindi il medico era stato inizialmente condannato, la Cassazione lo assolse per "insussistenza del nesso di causalità fra condotta ed evento".
Infine può essere utile citare una sentenza del Tribunale di Brindisi riguardante una serie di suicidi avvenuti in un reparto psichiatrico; secondo il tribunale pugliese, infatti "non rispondono di omicidio colposo i medici, gli infermieri, il direttore del servizio dipartimentale di salute mentale, il direttore sanitario nonché il coordinatore sanitario i quali abbiano omesso, ciascuno per le proprie funzioni, di adottare le misure atte ad impedire i ripetuti suicidi di pazienti ricoverati nel reparto di psichiatria, essendo ormai al tramonto, a seguito della l. 180/78, quella visione della malattia mentale che si traduce nell’assistenza al malato, estrinsecantesi fondamentalmente nella vigilanza stretta del medesimo al fine di impedire che possa arrecare danno a se stesso e agli altri e prevalendo ormai un’assistenza principalmente di tipo terapeutico".
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.
L’ultima sentenza riportata aiuta a chiudere il cerchio della tematica; la soppressione dei manicomi ha indubbiamente variato il profilo di responsabilità degli psichiatri, in quanto questi ultimi spesso si trovano nelle condizioni di non poter impedire un evento, dal momento che l’uso della forza sul paziente è condizionato dalla presenza di molteplici e pericolosi fattori ("l’uso legittimo della forzafisica è limitato ai casi di stretta necessità, per sottrarre l’incapace al pericolo di gravi danni", scrive la Cassazione).
Difficile, se non impossibile, dare risposte certe; sarà il caso concreto, analizzato scrupolosamente di volta in volta dai giudici, a dire se e in che misura lo psichiatra possa essere responsabile delle condotte lesive o auto-lesive del paziente che ha in cura; la mancanza di uniformità di giudizio, emergente da questa breve rassegna, è opportuno leggerla, ad avviso di chi scrive, come un valore positivo in quanto consentirà di valutare con la massima equità episodi incresciosi che, statisticamente, si ripresenteranno.
Lo psichiatra può fare qualcosa e deve fare qualcosa; ma non può fare tutto e non potrà rispondere, sempre e comunque, di tutto.
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