1. Il pensiero mafioso
Le relazioni tra la scienza psichiatrica (intesa sia come prassi clinica che come modellistica teorica) e la realtà criminale della mafia non è mai stata oggetto di studi sistematici in Italia, quasi che queste due realtà abbiano vissuto negli anni senza nessun punto di contatto. Nelle ricerche condotte in questi anni dal nostro gruppo di ricerca dell’Università di Palermo, composto non solo da ricercatori nel campo della psicologia clinica, ma anche da professionisti della salute mentale e operatori del mondo giuridico, abbiamo notato come in diversi casi si fosse di fronte ad un legame tra questi mondi, cui mai era stata addotta particolare importanza. Una sorte molto simile ha avuto il legame tra psicologia e criminalità mafiosa, con una assenza totale di studi di rilievo fino ai primi anni ’90, quasi che gli uomini d’onore non avessero una "mente" individuale o un’organizzazione di appartenenza fino ad allora. La cultura mafiosa ha sempre avuto la capacità di nascondersi, mimetizzarsi all’interno delle realtà civili ed istituzionali nelle quali si è trovata ad operare, determinando una cortina di silenzio ufficiale che la rendesse invisibile.
Una prima precisazione: nei nostri studi parliamo di cultura mafiosa o pensiero mafioso come una modalità distorta di vivere la propria identità ed i rapporti con il sociale tipici dell’organizzazione criminale mafiosa (Fiore, 1997; Lo Verso, 1998). Abbiamo sostenuto che Cosa Nostra non è soltanto un’organizzazione criminale, nel senso che la sua caratteristica più specifica è il tipo diidentità del soggetto mafioso: nessun mafioso si definirà mai come un criminale, ma sempre come uomo d’onore. Già in questa definizione abbiamo presente l’orizzonte culturale, antropologico e psichico tipico di questa realtà, che la caratterizza come una modalità di pensiero specifica. Il nostro modello teorico, quello della gruppoanalisi soggettuale italiana (Lo Verso, 1994), ci ha in questo permesso di indagare questa realtà a partire dall’attenzione al legame che esiste tra mondo psichico (cosciente ed inconscio) del soggetto, famiglia antropologica e dimensione sociale.
Attraverso quale percorso si diventa uomo d’onore? Nelle nostre ed altrui ricerche abbiamo notato come questi soggetti provengono nella stragrande maggioranza dei casi o da un mondo familiare o da un più ampio contesto di socializzazione primario in cui i valori tipici del pensiero mafioso sono presenti e proposti come matrice unica di significazione degli eventi (Fiore, 1997; Lo Coco, 1998). Un mondo antropo-psichico in cui vengono esaltati i valori maschili della forza, del coraggio, dell’onore, della virilità, della freddezza, di contro al mondo degli "sbirri", dei poliziotti, dei giudici, delle forze dell’ordine in generale. Questa rappresentazione interna di un mondo buono formato da uomini "rispettabili" ed uno esterno malvagio è caratteristica fondante del pensiero mafioso. Fare l’infame, lo spione, con gli sbirri (cioè rivelare ai poliziotti delle cose) è la peggiore accusa nel mondo mafioso. In questa cultura psichica, come in tutti i sistemi fondamentalisti (Lo Verso, 1998, cit.) regnano dicotomie totalizzanti di pensiero, con il mondo degli affetti scisso in maniera punitiva. Ci riferiamo qui con l’espressione fondamentalismo a tutti quei processi di costruzione dell’identità personale in cui l’Io individuale è pienamente coincidente con il Noi sovrapersonale e transpersonale. Il soggetto non può essere diverso, altro, dal mondo che lo ha concepito psichicamente (Napolitani, 1987). Nei sistemi fondamentalisti l’identità psichica può essere legata a strutture sovrapersonali: la nazione, la chiesa, il partito, e/o essere all’interno di una omologazione che non consente pensiero (ad es. l’attuale omogeneizzazione televisiva). Fenomeni come le guerre a sfondo religioso, i nazionalismi, il razzismo, le inquisizioni, si fondano psicologicamente anche su questo.
Per l’identità mafiosa l’alternativa è tra l’angoscia di essere nessuno ed un’esaltazione onnipotente del proprio Sé data dall’appartenenza alla famiglia mafiosa.
2. E la psichiatria?
Nelle nostre ricerche ci siamo confrontati diverse volte con colleghi psichiatri che avevano avuto esperienze professionali con questo tipo di soggetti, ma che raramente avevano avuto la possibilità di parlarne e confrontarsi. Casi diversissimi tra loro: dal collega che riceveva nello studio privato o nella ASL soggetti appartenenti a famiglie mafiose con problematiche psichiatriche, a colleghi cui capitava di andare a fare consulenza in quartieri o zone della Sicilia a "forte densità mafiosa", dove venivano accolti con urla e minacce fisiche perché scambiati per "giornalisti"; oppure ritrovarsi a lavorare in cliniche psichiatriche dove forse venivano "accolti" illustri boss latitanti per imprecisati ed improbabili problemi di salute. Abbiamo sentito colleghi che temevano di potere ricevere pressioni affinché "inviassero" pazienti a cliniche private o che non potevano svolgere attività formativa in case famiglia poiché gli operatori non potevano parlare. Nonostante questo, poca, pochissima letteratura in merito. Segno di una difficoltà ad affrontare liberamente e pubblicamente (oltre che dal punto di vista della concettualizzazione clinica) un dibattito serio sui rischi e gli oneri che il lavoro nel campo della salute mentale spesso determina per i propri addetti. Ma anche, a volte, un silenzio complice per non entrare all’interno di una problematica sociale ed etica, restringendo il proprio ambito di lavoro nel solo tecnicismo del setting terapeutico.
In questo articolo ci proponiamo soltanto di fornire uno spunto di riflessione sul tema della sofferenza psichica nel mondo mafioso: gli uomini d’onore hanno problemi di tipo psicopatologico? Che tipo di rapporto instaurano con gli psichiatri e la psichiatria? Per fornire qualche risposta ci baseremo, oltre che sui dati del lavoro di supervisione a colleghi che hanno trattato questi casi (Per la descrizione di alcuni di questi casi psichiatrici rimandiamo al volume a cura di Lo Verso, Lo Coco, Mistretta, Zizzo, Come cambia la mafia. Esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche, Milano, Franco Angeli, 1999.), su alcune interviste semistrutturate che abbiamo svolto nel 2001 con alcuni collaboranti di giustizia. Per vedere, per la prima volta, cosa ne dicono loro sul rapporto tra mafia e psichiatria.
3. Psicopatologia
Come definirebbe la scienza psichiatrica un uomo d’onore? Possiamo affermare a livello clinico-diagnostico che un boss mafioso possiede una personalità patologica? È capitato a psichiatri e psicoterapeuti di avere in cura soggetti appartenenti a famiglie mafiose: a parte i disturbi clinici che questi possono presentare (disturbi d’ansia, dell’umore, dissociativi, ecc.), abbiamo una categoria diagnostica in grado di definire il tipo di personalità patologica di questi soggetti? Storicamente la categoria che si è rivelata maggiormente attinente a questo genere di casi è quella del disturbo antisociale di personalità (APA, DSM IV, 1996). In questo caso abbiamo a che fare con persone ad alti livelli di funzionamento, con un’integrazione dell’identità, esame di realtà e utilizzo di difese mature, che giustificano una diagnosi di psicopatia ad alto livello. Il criterio diagnostico principale indicato da Bursten (1973) come organizzatore della personalità è l’avere potere su o la manipolazione cosciente degli altri. La personalità antisociale non riconosce valore agli altri, che sono ridotti a strumenti per esercitare il proprio potere. Non è presente coscienza morale o senso di colpa rispetto alle azioni illegali o violente esercitate sugli altri. A livello psicodinamico, l’esercizio del potere è basato su una rappresentazione di sé ambivalente, tra una condizione di onnipotenza personale ed una di debolezza e scarsa autostima, con il bisogno di difendere il Sé da quest’ultima. L’uomo d’onore si rappresenta come un essere speciale, addirittura a volte come Dio stesso, perché lui può esercitare il potere di vita o di morte sulle persone normali. Niente è più temibile del non essere considerato, dell’essere "nuddo ammiscato cu’ nente" (nessuno mischiato con niente).
Questa classificazione, per quanto attinente in alcuni casi, è riferibile però in generale alla personalità criminale, senza permetterci di individuare gli specifici elementi antropologici e culturali che nel caso del mafioso sono determinanti nel processo di costruzione della propria identità. Nelle nostre ricerche molto lavoro è stato fatto proprio per riconoscere una specificità "etnica" a questo tipo di personalità, a partire da alcuni dati antropologici presenti nelle culture mediterranee (Fiore, 1997; Lo Verso, 1998; Lo Coco, Lo Verso, 1998). L’elemento che forse è più difficile da inglobare nelle nostre classificazioni psicologiche e psichiatriche è quello legato alfondamentalismo di pensiero: di fronte ad una psicopatologia ufficiale della personalità centrata sul deficit (di strutture, di relazioni, di apprendimenti), la personalità dell’uomo d’onore si mostra come una patologia da eccessivo intenzionamento, da una rigidità di strutture (di pensiero, di affetti) e da un’intensità tale da divenire disturbante. Come in tutte le culture fondamentaliste, nella mafia non c’è possibilità di pensiero dell’Altro, la propria identità è strutturata su un modello relazionale che non può essere messo in discussione, pena la morte simbolica e psichica (forse anche fisica). Questo peso intenzionate e mortifero della famiglia di appartenenza rimanda ovviamente ad una concezione della psicopatologia a vertice dinamico e relazionale, che grazie all’analisi delle vicissitudini, consce ed inconsce, della costruzione del Sé individuale all’interno di una rigida matrice familiare (Pontati, 2000) ci permette di comprendere la specificità delle problematiche legate al mondo mafioso.
La tematica psicopatologica si è costantemente intrecciata nelle nostre ricerche, a partire dallo studio del primo collaborante storico della mafia, Leonardo Vitale (Lo Verso, 1995). Questi fu un reale caso psichiatrico, diagnosticato e trattato da illustri professionisti del settore, mai creduto in quanto "pentito" e in ultimo ucciso da Cosa Nostra per vendetta. Allora constatammo il ruolo decisivo di alcune perizie psichiatriche nel farlo dichiarare insano di mente come soggetto e inattendibile come collaborante. Oggi, anche grazie all’allargamento culturale prodotto dalla conoscenza dell’etnopsicoanalisi (Nathan, 1996), sappiamo che è comunque difficile parlare di psicopatologia al di fuori delle connotazioni antropologiche che la definiscano. Un episodio personale: ci è capitato di osservare un indios dell’Amazzonia che per due giorni e due notti è stato immobile ad osservare "i demoni della foresta in movimento tra le foglie dei grandi alberi": da noi avrebbe forse rischiato una diagnosi di schizofrenia catatonica ed un ricovero in TSO. In realtà era perfettamente integrato nel suo ruolo di padre di famiglia che osservava e vigilava, mostrando il proprio straordinario rapporto con la natura e l’immensa foresta. Similmente, in una realtà culturale e psicologica particolare come quella mafiosa, si può parlare di psicopatologia in un senso molto particolare e limitato (a parte i casi individuali e familiari conclamati, presenti comunque soltanto da quando la reazione repressiva dello stato ha messo in crisi l’organizzazione e la solidissima struttura familiare che ne sta alla base). A livello generale possiamo ad esempio parlare dell’effetto depressivo che la presenza della mafia ha contribuito a creare nell’intera cultura meridionale, o dell’immerimento psichico di chi deve sottostare a prepotenze, paure, ingiustizie, ricatti. Se ne può parlare per l’arresto dei processi di soggettivazione così presenti in questo mondo ed in quelli con esso collusi. Ma anche per i killer mafiosi, spesso figure meccaniche senza emozioni, che massacrano persone di cui non sanno niente, soltanto per obbedienza criminale. Killer con un’assoluta indifferenza e disprezzo per l’umanità ed il dolore dell’altro, con una sorta di alexitimia che sembra essere presente rispetto all’amore erotico o alla violenza: i killer provano raramente ansia o paura quando uccidono, sconoscono il senso di colpa, dormono bene, non fanno brutti sogni: quando diventano collaboranti di giustizia la situazione psichica cambia realmente, entrando in crisi la propria identità di membri di Cosa Nostra.
Questo passaggio, da uomo d’onore a collaborante (o pentito, nel gergo mafioso) segna una svolta verso un percorso di umanizzazione soggettiva ed è in questo momento che sono divenuti per noi anche degli interlocutori con i quali poter parlare.
4. Rapporti con psicopatologia e psichiatria nella narrazione dei collaboranti
Tra il 2000 ed il 2001 abbiamo svolto alcune interviste cliniche ad importanti collaboranti di giustizia mafiosi, per avere la possibilità, per la prima volta, di conoscere dal loro punto di vista, aspetti psicologico-clinici che prima potevamo dedurre soltanto in maniera indiretta.
Per quello che è l’oggetto di questo articolo, ci sembra interessante riportare alcuni brevi brani di intervista in cui i collaboranti parlano del rapporto tra mafia e disagio di tipo psichiatrico.
Intervistatore: Ma che lei sappia, rispetto a questi disturbi psicosomatici che lei ha avuto, sa se anche altri mafiosi soffrivano di disturbi analoghi?
Collaborante: Si, durante il periodo della mia conoscenza con questi, sì. Q uesti non dormivano mai. Non dormivano mai, e spesso e volentieri stavano male, non dormivano mai, malissimo, completamente. Quindi i disturbi li avevano, altro che! Bagarella io non l’ho visto mai dormire. Si andava a coricare ai due di notti e ai quattro i mattina telefonava. Che voleva essere accompagnato, la scorta! Un pazzu! Questo non dormiva mai.
I: Diversamente da quello che dicono loro.
C: No: chisto non dormiva mai, poi soffriva sempre di dolore ‘i testa. Sempre continuamente dulure ‘i testa.
I: Anche gli altri?
C: Mangiava… io ti parlo di questo che ho conosciuto direttamente. O ci veniva l’acidità o ci veniva… no, no , loro vogliono fare credere ma stanno peggio di me. Però loro onestamente dovrebbero morire, solo che chisti non moronu mai. Sarebbe una bella soluzione, per certi delitti, troppi pesanti.
I: E invece di familiari con questi problemi psicologici ne ha mai sentito parlare?
C: Io dei miei no, di quelli degli altri si. Ad esempio la moglie di Bagarella è arrivata al suicidio… Perché lei era condannata veramente a stare dentro agli arresti domiciliari, perché non poteva uscire, lui usciva, andava, veniva, faceva, diceva, e quella poverina sempre dentro. Insomma arrivò al punto che questa è impazzita. Non ci mancava niente di quello che desiderava, ma che se doveva fare?
I: Però non c’era l’abitudine di andare dallo psicologo o dal neurologo per queste cose?
C: Mhm! Per loro una cosa di queste è, una gravità (ride), è lo stesso, che ti cunviene che pigli ‘a pistola e ti spari! Che ci vai ‘nu psicologo? Ci isti a contari i c.. nostri allo psicologo? Aspetta, pigghia ‘a pistola (ride) e ti spari. Già si morto. Ma chi c’entra?
…Io invece ho avuto problemi, ora i miei figli hanno avuto i problemi psicologici. Mia figlia, mio figlio, che hanno dovuto lasciare la città, hanno dovuto lasciare tutti gli amici, gli amichetti, hanno dovuto lasciare tutte queste cose, si sono dovuti, cambiati, perché hanno cambiato spesso, ora hanno cambiato di nuovo città, perché se ne sono dovuti andare in un altro, trauma. Allora mia figlia la dovevo mandare dallo psicologo? Non ti preoccupare che tu faccio io u psicologo! Parla con me, dimmi che hai, ti psicanalizzo io, ti spiego tutte cose io, non ti preoccupare (ride). Ci sono? L’ho aiutata, ma l’ho aiutata mettendomi di mattina, e dando soprattutto fiducia, iniezioni di fiducia, cioè "Vai, non ti preoccupare", "Ma io sbaglio", "E che te ne frega se sbagli? Sbagli una volta, due volte, la terza volta non sbagli più! Vai tranquilla, fai tutto quello, non ti creare privazioni, vai!".
Altrettanto interessante, anche se narrata con uno stile più colto, tipico del personaggio in questione, è la seguente testimonianza:
I: Ma non c’era mai in queste famiglie mafiose uno che aveva una crisi depressiva?
C: C’è, c’è, ci sono stati…c’era, ma immediatamente venivano messi a tacere. Diciamo che prima c’era una compressione di questi fatti perché prima era un fatto di grande vergogna di grande debolezza una che se ne andava in crisi, invece ora è diverso, mi ricordo che qualcuno è stato anche estromesso. Per esempio c’è stato quello di Caccamo, come si chiamava… In., tentò di impiccarsi e praticamente per questo venne estromesso dalla carica di capo del mandamento di Caccamo che era uno dei più importanti; e poi praticamente se ne andava spesso in crisi tanto è vero che a un certo punto si impiccò in carcere. Questo c’era.
I: Anche se era un familiare, non parliamo di psicologi che non ce ne erano, ma c’era qualcuno che andava dal neurologo o dallo psichiatra?
C: No (!) non esisteva. Faccia conto che questa era una società rurale e molto… (sospira) non sapevano neanche che cosa era.
Nella realtà mafiosa la sofferenza psichica è un qualcosa di cui vergognarsi, per cui ci si rivolge allo specialista soltanto in casi di estrema difficoltà. Noi constatiamo che i casi presentatisi in tanti reparti e ambulatori di salute mentale negli anni ‘94-‘98, siano anche corrisposti con un momento di crisi generale della struttura della famiglia mafiosa (Lo Verso et all., 1999).
Un altro elemento di grande interesse che è emerso dalle interviste è l’uso strumentale della psichiatria e specificamente, del manicomio criminale, da parte di alcuni boss mafiosi.
I: Lei è andato anche in manicomio, perché?
C: Prima perché io insomma in galera si parla sempre di quali sono le strade per potere uscire…
I: Ma come fece, si dichiarò malato di mente?
C: No, a me la cosa mi facilitò perché c’era mia mamma che era stata nel manicomio, quindi questo fattore io l’ho sfruttato molto.
I: Me lo fa un esempio della sua presunta pazzia?
C: Intanto nelle galere si conosce, allora non era la galera come è ora… Quindi qualche personaggio che passava, galeotto, diciamo, che passava nel manicomio, "Ma come fai tu ad andare nel manicomio?" A me sembra che mi fece scuola, all’Ucciardone, un certo Gr., uno che era quasi sempre nei manicomi e ci stava bene nei manicomi, perché si mangiava intanto meglio, primo, dopo perché erano sempre liberi oppure nel cortile oppure nei corridoi, non c’era quella restrizione che ci sono nelle carceri. Terzo perché c’era lo sconto di pena …
I:Cioè lei imparò a simulare, sostanzialmente?
C: Logico. Cosa ho imparato, come potere andare in un posto idoneo e come, diciamo, dare fastidio, perché era più che altro una rivalsa contro il direttore, contro il comandante, contro l’apparato. Allora dice ‘senti loro hanno una paura matta dei corpi estranei che uno si inghiotte, la cosa più pericolosa per loro sono i chiodi, i chiodi quelli lunghi’. Però se tu, cioè noi, nello stomaco abbiamo il vuoto d’aria, quindi qualsiasi oggetto scende, tenta di scendere con la parte più pesante giù, è un fattore di fisica, dice, quindi tu, l’unica cosa che devi stare attento quando ti ingoi un chiodo, o qualche cos’altro, sempre con la parte più pesante, dice, perché se te lo ingoi con la parte più leggera nello stomaco cerca di girarsi e rimane incastrato, invece uno se lo deve ‘inghiuttere sempre con la parte più pesante e non succede niente. Insomma, oppure, dice, ‘tu la sera ceca di parlare solo’. Però questo non era un pazzo, era un galeotto. Però siccome a me mi interessava, perché avevo tutta una serie di reati, quando sono arrivato a Barcellona Pozzo di Gotto, io subito me ne vado insieme ai matti, a quelli matti completamente perché la c’erano un sacco di mafiosi, c’erano un sacco di mafiosi che conoscevo… Da là io ho sviluppato la mia pazzia.. che mi impersono diciamo non a Totò, a personaggi, per esempio io avevo finito di leggere la cosa di Dante Alighieri, insomma, è venuto un perito che dice ‘come si chiama?’ ‘Io sono Dante Alighieri, io mi chiamo Dante Alighieri?’ Certo uno deve stare attento a non ridere, a non farsi scoprire.
I: Gli psichiatri ci cascavano?
C: Ci cascavano perché c’era un rapporto interno, io mi informai pure che c’è quella malattia della schizofrenia e con la mania di persecuzione, allora io mi faccio mettere la mania di persecuzione, perché siccome non mi volevo fare punture, perché vedevo quei poveracci che dormivano, allora mi informo ‘come debbo fare a non mi fare punture?’ Allora c’era un infermiere, un certo Di Maio, nipote di Di Maio che era là per un omicidio, che faceva l’infermiere, dice ‘ se ci riesci scappa , così tutti pensano che hai la mania di persecuzione. Quindi io quando c’erano le guardie ci dicevo ‘non mi toccare’, quando mi dovevano fare la puntura (he! he!) e mi evitavo anche le punture.
Questo elemento della simulazione della malattia mentale ci è stato confermato da diversi collaboranti di giustizia. È un elemento quantomeno inquietante per i suoi risvolti. Come è stato possibile che per tanti anni nessun operatore della salute mentale, psichiatra, psicologo, infermiere, abbia notato nulla? È possibile simulare realmente la pazzia da parte di chiunque?
Sono interrogativi molto complessi e non è questo lo spazio per affrontarli diffusamente. Ci sembra utile però sottolineare questi aspetti, proprio in quanto mettono in evidenza la capacità dell’organizzazione mafiosa di strumentalizzare qualunque elemento possa risultare per lei favorevole. Un confronto aperto e scientifico su questi temi potrebbe quindi essere un’arma in più per fermare gli assalti di questo potere onnivoro e tutelare la serietà scientifica delle nostre professioni di aiuto.
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