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Il paradiso perduto degli antipsicotici. Su “Le pillole più amare” di Joanna Moncrieff

17 Lug 21

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Joanna Moncrieff è una psichiatra che insegna all'University College di Londra ed è membro fondatore del Critical Psychiatry Network, un gruppo di psichiatri di tutto il mondo scettici o critici verso una concezione meramente organicista del disagio mentale e della sua cura. Non si può quindi dire che si tratti di una persona poco informata, poco addentro alle questioni o aprioristicamente di parte, e per questo l'unico suo libro finora tradotto in italiano, Le pillole più amare (Fioriti, 2020), acquista ancora più valore per chi volesse analizzare criticamente la storia, le caratteristiche e l'uso invalso degli psicofarmaci, in particolare degli antipsicotici.

Il libro, scritto con dovizia di particolari e numerosi riferimenti a studi e articoli sull'argomento, parla sia dell'evoluzione degli antipsicotici, sia dello sfondo culturale, scientifico e di marketing che ha influenzato la loro affermazione nel mercato globale della salute mentale. In particolare, la Moncrieff sostiene che la concezione degli psicofarmaci che lei definisce “centrata sulla malattia”, ossia che i farmaci psicotropi agirebbero curando e riequilibrando un disturbo biologico sottostante, piuttosto che una “centrata sul farmaco” (ossia che il farmaco agisce inducendo degli effetti psichici specifici che contrastano o inibiscono i sintomi psicotici) sia stata la chiave di volta che ha permesso l'affermazione degli antipsicotici, consentendo alla psichiatria di trasformarsi, a partire dalla metà del XX secolo, da una pratica prevalentemente di contenzione e di controllo sociale (emblema di quello stadio erano i grandi manicomi e le pratiche che vi si attuavano) ad una disciplina medica scientifica, che come le altre branche della medicina era capace di individuare e curare il disturbo fisiologico sottostante ad una patologia. Il problema è che tale teoria di fondo, ovvero che sia stato finalmente compreso il meccanismo fondamentale delle varie forme di psicosi (si pensi alla teoria dopaminergica della schizofrenia) sia invece solo un'ipotesi con alcune evidenze a favore e altri dati contraddittori che non consentono nel loro complesso di ricondurre un disturbo mentale grave ad un unico meccanismo biologico su cui una certa categoria di farmaci agirebbe. E difatti non si comprende tuttora appieno il funzionamento di molti psicofarmaci e quale sia il collegamento tra la loro azione chimica teorica e gli effetti reali che inducono.
 



 

 

La concezione dell'azione degli psicofarmaci centrata sulla malattia però è stata così importante per l'affermazione della psichiatria organicista come disciplina medica a tutti gli effetti, e talmente interessante per le istituzioni politiche e sociali che avrebbero potuto contenere i costi economici della cura dei malati psichiatrici attraverso la somministrazione di preparati ad hoc, che altri aspetti della questione altrettanto importanti sono passati sotto silenzio, grazie anche alla forza persuasiva da un punto di vista economico e scientifico delle case farmaceutiche, che da sempre hanno sovvenzionato studi, articoli, convegni, e anche pagato illecitamente importanti psichiatri, direttori di cliniche e medici generici per diffondere la cultura organicista del disturbo mentale e addirittura per modificare le categorie diagnostiche in modo da poter ampliare l'utilizzo di farmaci inizialmente creati per la cura di altri disturbi (vedi l'uso degli antipsicotici nel disturbo bipolare e nei disturbi dell'umore).

Questa congiura del silenzio ha portato in secondo piano, e per lunghi periodi ha oscurato, la portata dei gravi effetti collaterali associati all'uso degli antipsicotici. Esempio iniziale ed emblematico è stato quello della cosiddetta discinesia tardiva, ma non meno preoccupante è stata la minimizzazione degli effetti cardiaci, metabolici e perfino cerebrali di tali farmaci, con possibili rischi, nel tempo, di esacerbazione del disturbo psicotico e di ricadute (a causa di una maggiore sensibilità recettoriale indotta da questi farmaci), della comparsa di una vera e lunga sindrome astinenziale in caso di sospensione, e addirittura di una riduzione della materia grigia cerebrale in seguito all'uso prolungato degli antipsicotici (che prima invece veniva sempre addebitata alla psicosi stessa). Né è meno importante la scarsa considerazione che è sempre stata data in ambito psichiatrico all'esperienza soggettiva dei pazienti dopo l'assunzione di questi farmaci, una parte consistente dei quali preferiva sospendere l'assunzione e tornare ai propri sintomi a causa della condizione di demotivazione, di rallentamento cognitivo e motorio, di indifferenza emotiva causata dagli antipsicotici.

L'autrice non sconfessa in toto l'utilizzo di questi farmaci, necessari nelle situazioni più gravi, quando è sensato correre i rischi derivanti dalla somministrazione per far uscire il paziente da una condizione di isolamento estremo nel proprio mondo delirante. Critica invece sempre l'uso standardizzato degli stessi sulla base della constatazione dei sintomi (e indipendentemente dalle risorse e capacità di ripresa del paziente); il loro uso eccessivamente prolungato nel tempo (dato che gli studi hanno mostrato come una parte dei pazienti con un episodio psicotico si riprenda naturalmente senza bisogno di aiuti farmacologici e considerato che non ci sono studi sugli effetti a lungo termine di questi farmaci); l'utilizzo multiplo di farmaci in associazione (anche 4 o 5); e soprattutto l'utilizzo diffuso degli antipsicotici (specie quelli di seconda generazione o “atipici”) per condizioni psichiatriche non previste dalle linee guida ufficiali oltre che per bambini e adolescenti. Moncrieff ritiene che tale utilizzo sia essenzialmente dovuto (data la scarsa evidenza di efficacia rispetto al placebo per molte di tali condizioni) al tentativo riuscito delle grandi case farmaceutiche di ampliare la platea dei potenziali pazienti che potrebbero beneficiare dell'assunzione di questi farmaci, estendendo al contempo i rischi sulla salute ad essa associati ad una più larga parte della popolazione (con costi medici e sociali non ancora quantificati).

Si tratta di un modo di affrontare il problema della malattia mentale che collude con le esigenze dei politici e della società in genere di trovare una forma di contenimento veloce, economica e silenziosa al problema posto dalle psicosi, sollevandosi dalla responsabilità di affrontare tale condizione con modalità di cura che spesso, dove attuate nel tempo, si sono dimostrate più efficaci a lungo termine, più capaci di reinserire veramente nella società chi è colpito da forme gravi di disagio mentale (lavoro terapeutico individuale e familiare, attività psicoeducative e risocializzanti, azioni prolungate di prevenzione e de-stigmatizzazione dei disturbi mentali ecc.).

In conclusione si può dire che si tratta di un libro che certamente può far riflettere psichiatri e psicologi sulla complessità della questione e che potrà dare al lettore ulteriori spunti di approfondimento attraverso i numerosi riferimenti aneddotici e bibliografici e in esso presenti.

 

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