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LA DEPRESSIONE RESISTENTE testo & video

6 Feb 13

Di FRANCESCO BOLLORINO

Diagnosi della Depressione Resistente ed inquadramento clinico


 

       

 

Prof. Filippo Bogetto — Professore Ordinario di Psichiatria, Università degli Studi di Torino

I Disturbi Depressivi sono caratterizzati di per sé da un enorme peso e da un enorme disagio per il paziente e costituiscono un costo non solo in termini di spesa sanitaria tradotta nell’uso dei farmaci e nel numero delle ospedalizzazioni, ma anche da un punto di vista sociale, lavorativo e personale.
I pazienti affetti da Depressione Resistente soffrono tutto questo in modo particolare e di conseguenza subiscono un’importante diminuzione della qualità di vita, dello stato funzionale e della produttività.
Cerchiamo di capire meglio perché e a che cosa ci si riferisce quando si parla di Depressione Resistente.
Il concetto di Depressione Resistente è stato introdotto ufficialmente per la prima volta nel 1974 da Leiman e, nonostante questo sia un argomento di grande interesse, molto studiato e con un’ampia letteratura a riguardo, non si è ancora riusciti a dare una precisa definizione di questa problematica e ad identificarne una sicura eziologia.

 

Per cercare di capire un po’ meglio di cosa si sta parlando si può fare riferimento ai Criteri di Esito che risalgono, così codificati, ad una ventina di anni fa.

 

Vi sono 3 Criteri di Esito:

  • La risposta che si riferisce all’assenza dei sintomi in seguito a terapia farmacologica per 3 settimane.
  • La remissione che è l’assenza o la quasi assenza di segni e sintomi (diminuzione del tono dell’umore e anedonia) per 3 settimane.
  • La guarigione che richiede almeno 4 mesi di remissione.
     

Sulla base dei Criteri di Esito si propone la seguente terminologia:

  • Risposta al trattamento
  • Risposta scarsa al trattamento (che richiede un cambio della terapia)
  • Resistenza al trattamento (con una risposta parziale al trattamento oppure una non-risposta al trattamento)
  • Refrattarietà al trattamento (i sintomi possono non migliorare e in alcuni casi possono peggiorare)

 

Pertanto in base al tipo di risposta alla terapia antidepressiva, i pazienti si possono suddividere nelle seguenti classi:

  • Responder
  • Non Responder: il paziente non risponde ad un adeguato trial antidepressivo di almeno 1 mese e mezzo-2 mesi
  • Resistente: il paziente non risponde ad almeno 2 adeguati trials antidepressivi (durata dei tentativi anche di 1-2 anni)
  • Refrattario

 

Molto importante è non confondere la Resistenza vera e propria con la Pseudoresistenza.

La Pseudoresistenza si verifica nel 60% dei pazienti trattati con farmaci antidepressivi e le principali cause possono essere:

  • dosaggi inadeguati del farmaco

  • interruzione prematura della terapia (prima di due settimane) soprattutto a causa degli effetti collaterali

  • scarsa compliance del paziente alla terapia

  • la presenza di disturbi medici che possono essere essi stessi causa di depressione (endocrinopatie come disfunzioni tiroidee o surrenaliche, disturbi neurologici, tumori del pancreas, patologie autoimmunitarie, deficit vitaminici) e che se non diagnosticati e curati non permettono la risoluzione dello stato depressivo

  • uso di alcuni farmaci (ad esempio certi antipertensivi: metildopa, beta-bloccanti, clonidina) che possono causare sintomatologia depressiva

  • una scorretta diagnosi differenziale (ad esempio con un Disturbo Bipolare)
     

A questo proposito è necessario precisare alcuni aspetti riguardanti proprio il Disturbo Bipolare.

Grazie anche all’ampliamento del concetto di Disturbo Bipolare e alla sua suddivisione in numerosi sottotipi, la tendenza odierna è quella di includere e associare spesso a tale patologia altri disturbi psichiatrici come Disturbi Depressivi o Disturbi di Personalità, soprattutto Borderline.

E’ fondamentale, per la buona riuscita del trattamento, che un episodio depressivo venga correttamente inquadrato o meno nell’ambito di un Disturbo Bipolare.

Terapie antidepressive somministrate a pazienti bipolari non riconosciuti come tali, possono dare luogo ad episodi di switch, a facili ricadute, ad andamenti ciclici molto ricorrenti che, senza una corretta diagnosi, possono essere difficili da interpretare e da risolvere.

Molte sono le ricerche in questo ambito e molto interessante è un articolo del 2007 pubblicato sul New England che afferma che aggiungere un antidepressivo oppure un placebo alla terapia di un paziente bipolare in fase depressiva già in trattamento stabilizzatorio non è di alcun beneficio.

Un altro studio sulla Depressione Resistente ha evidenziato inizialmente nel suo campione un 35% di pazienti bipolari. Dopo un follow up a lungo termine i pazienti con questa diagnosi sono risultati il 60%.

 

La Depressione Resistente si può analizzare in base a diversi fattori ad essa associati:

  • Fattori socio-demografici:


(fondamentali sono le interazioni tra organismo/cervello e ambiente)

  • nella resistenza alla terapia non c’è differenza di genere

  • la resistenza è più frequente nei pazienti non sposati o divorziati rispetto ai soggetti sposati

  • ci sono differenze di razza: i soggetti neri hanno una minore risposta alla terapia antidepressiva (differenze economiche e culturali, diffidenza verso il farmaco)

  • avere un lavoro fornisce una maggiore possibilità di remissione

  • diseguaglianze sociali: rispondono meglio alla terapia antidepressiva le classi sociali medie e non c’è associazione con la resistenza in quelle basse (è da notare però che le classi sociali basse giungono alle cure specialistiche con una frequenza minore rispetto alle classi medie)

  • Non vi è differenza tra i pazienti curati dal MMG rispetto a quelli presi in carico dallo Specialista Psichiatra.

  • Life events: perdita del lavoro, problemi finanziari, lutti, ecc. sono un importante fattore di rischio per la resistenza alla terapia

  • Caratteristiche cliniche dell’episodio depressivo:

  • il tipo di depressione (ad esempio la Depressione Melanconica è più facilmente resistente alla terapia rispetto alla Depressione Psicotica che invece risponde abbastanza bene ai trattamenti)

  • mancanza di speranza

  • rischio di suicidio

  • Comorbilità con:

  • Disturbi D’ansia (sono pazienti difficili da trattare, che si lamentano degli effetti collaterali, ma che hanno meno discontinuità nell’assunzione della terapia)

  • Dipendenza da sostanze (non si è vista particolare associazione)

  • Disturbi di Personalità (alcuni studi evidenziano una certa correlazione con la Depressione Resistente, altri studi non hanno riscontrato evidenze particolari in questo senso)

  • Patologie di asse III (ad esempio elevati livelli di colesterolo sono associati a una maggiore difficoltà di risposta agli antidepressivi; un BMI <25 è correlato con una migliore risposta al farmaco mentre, al contrario, un BMI >30 a una peggiore)

  • Fattori biologici :

  • alcuni studi affermano che la migliore risposta ai farmaci antidepressivi si ha quando in certe aree cerebrali c’è un metabolismo più basso all’inizio della terapia

  • possibili alterazioni a carico della sostanza bianca (come ad esempio in esiti di patologie organiche che possono dare depressione) possono avere un possibile ruolo nella risposta alla terapia

  • si è visto che una riduzione di sostanza in una parte della corteccia temporale nelle donne è associata a una maggiore resistenza alla terapia antidepressiva

  • vi è un ruolo della dopamina nel potenziare la risposta agli antidepressivi (associazione di antidepressivo con antipsicotico atipico)

  • la farmacogenetica ci può fornire importanti informazioni attraverso lo studio dei polimorfismi (ad esempio in uno studio i soggetti partecipanti hanno fatto alcune analisi sui polimorfismi di un trasportatore; non si è trovata nessuna associazione tra questi polimorfismi e la risposta alla terapia con citalopram ma, al contrario, è stata evidente una correlazione con gli effetti collaterali di tale farmaco)

  • il metabolismo del farmaco può essere diverso da paziente a paziente e può essere causa di resistenza

  • associazioni tra substrati e polimorfismi genetici possono contribuire e condizionare la risposta al farmaco

 

Prof. Cesario Bellantuono, Direttore Clinica Psichiatrica di Ancona — Università Politecnica delle Marche

  1. Il trattamento farmacologico della depressione resistente
  2. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo assistito all’avvicendamento sui mercati internazionali di tutta una serie di nuovi farmaci, che ha portato buoni risultati soprattutto per quanto riguarda la riduzione degli effetti collaterali; minori sono stati invece i progressi compiuti sul piano dell’efficacia.

Non disponiamo a tutt’oggi di un antidepressivo "ideale", che consenta non solo il controllo dei sintomi, ma anche la cura della malattia, allo stesso modo in cui un antibiotico cura la polmonite.

Inoltre gli antidepressivi non agiscono immediatamente, ma richiedono un tempo di latenza in alcuni casi breve (anche due settimane), in altri lungo (fino a otto settimane), in particolare nelle persone anziane.

 

Esiste inoltre il problema degli effetti collaterali. In tale ambito sono stati compiuti notevoli progressi: con gli antidepressivi SSRI e SNRI è stata eliminata quell’attività antistaminica, adrenolitica e anticolinergica che caratterizzava i triciclici; tuttavia permane la problematica relativa agli effetti serotoninergici, tra i quali figurano, ad esempio, i disturbi della sfera sessuale.

 

Dal momento che la polifarmacoterapia è ormai diventata quasi la regola nella pratica psichiatrica, un altro problema da affrontare è quello delle interazioni, che riguarda molti psicofarmaci (anche tra gli appartenenti alla classe degli SSRI).

 

Bisogna inoltre considerare che l’antidepressivo nel paziente bipolare può dare origine a viraggi verso la mania. Questo fenomeno non riguarda tutti i farmaci in eguale misura: i triciclici, ad esempio, sono più a rischio rispetto agli SSRI.

 

I pazienti che rispondono ad un primo trattamento con antidepressivi sono circa il 75%. In realtà se andiamo a operare quella distinzione fondamentale tra remission (pazienti che guariscono) e response (pazienti che guariscono ma presentano sintomi residui), vediamo che nel primo caso le percentuali si aggirano attorno al 40%, mentre nel secondo attorno al 35%.

La distinzione tra remission e response non è puramente accademica o epidemiologica, ma è importante nel lungo termine (follow-up): i pazienti che rispondono ma non guariscono definitivamente hanno infatti un rischio di ricaduta pari a 3,5 volte quello dei pazienti che vanno incontro a remissione completa.

 

Altro concetto importante è quello di resistenza. Quando parliamo di resistenza a un farmaco — escludendo la pseudoresistenza, frutto di malpractice — dobbiamo parlare di livelli di resistenza, ovvero distinguere se ci troviamo di fronte a una resistenza a un primo, a un secondo o ad un terzo trattamento: tale operazione è molto utile dal punto di vista prognostico.

Si tratta di un problema da affrontare correttamente sia nell’ambito della ricerca sia nell’ambito della pratica clinica (dal punto di vista anamnestico).

 

Recenti studi sulla prevalenza della depressione resistente confermano che quando si adottano i criteri della remission il numero di pazienti che non guariscono dopo un primo trattamento è pari al 60%. Tale dato deve far riflettere, perché significa che il farmaco all’inizio del trattamento dà una risposta utile ma parziale.

 

La correttezza diagnostica è importante anche al fine di evitare accanimenti terapeutici. Bisogna considerare che alcuni pazienti hanno una comorbilità medica o psichiatrica (ad esempio con i disturbi d’ansia).

 

È necessario inoltre valutare attentamente il dosaggio e la durata della terapia, l’aderenza del paziente alla stessa, nonché la gravità della malattia; quest’ultima non è sempre correlata alla resistenza: possono infatti esservi pazienti con forme molto gravi di depressione che rispondono benissimo, e viceversa pazienti con depressioni più modeste che rispondono scarsamente. Non bisogna quindi dimenticare che depressione resistente non è sinonimo di depressione grave.

 

Strategie terapeutiche nella depressione unipolare

Nella depressione unipolare la prima cosa da fare è ottimizzare il trattamento, il che consiste nel portare il dosaggio del farmaco, se il paziente lo tollera, al dosaggio massimo consentito; tale tentativo deve essere protratto per un tempo sufficiente da consentire la comparsa di una risposta anche nei pazienti slow responders.

Quando questo non funziona si possono scegliere due strade:

  1. Switching: sostituzione del farmaco utilizzato con un altro antidepressivo
  2. Potenziamento, basato a sua volta su due differenti strategie:




  1. augmentation (aggiunta all’antidepressivo di un farmaco che di per sé non è antidepressivo)

  2. combination (combinazione di due differenti antidepressivi).

 

I diversi studi sulla strategia di switching hanno dimostrato che i tassi di risposta nel passaggio da SSRI verso altri antidepressivi (un altro SSRI, un SNRI come la venlafaxina, un triciclico o il bupropione) variano moltissimo (dal 33 al 78%). Questo significa che è presente una grande eterogeneità fra i suddetti lavori, i quali forniscono complessivamente indicazioni molto grossolane.

Dal punto di vista pratico, la strategia di switching dovrebbe essere messa in pratica quando non vi è nessun segno di miglioramento dopo almeno quattro settimane di trattamento a dosaggio pieno, nonché in quei casi in cui il farmaco non viene tollerato a causa di effetti indesiderati o di reazioni avverse.

Rimane il problema della scelta del farmaco a cui passare: il clinico può in questo caso tenere conto del profilo di collateralità dei diversi farmaci.

 

Nell’ambito delle strategie di potenziamento, la augmentation prevede la associazione di un antidepressivo con altri farmaci. Una delle associazioni più studiate è quella con il litio; altre possibili associazioni sono quelle con ormone tiroideo T3 o con un antipsicotico atipico.

 

Il litio è stato studiato sia per valutare una sua eventuale proprietà di accelerare il tempo di risposta al trattamento, sia come farmaco in grado di potenziare la risposta stessa (vera e propria augmentation).

I risultati hanno mostrato che il litio non accelera la risposta; sembra invece efficace nell’augmentation, anche se manca un accordo sui dosaggi e sulla durata del trattamento.

 

Per quanto riguarda le strategie di augmentation con T3, un’esperienza con SSRI ha concluso che l’augmentation con tale ormone può rappresentare una strada valida e poco costosa. Sono però auspicabili ulteriori studi.

 

Per quanto riguarda l’associazione con un antipsicotico di nuova generazione, le percentuali di remissione ottenute in diversi studi vanno dal 25 al 100%. I farmaci studiati sono olanzapina, risperidone, aripiprazolo e ziprasidone. I lavori concludono che gli antipsicotici atipici possono essere considerati sicuri ed efficaci nel paziente difficult to treat; queste conclusioni valgono anche per i pazienti bipolari.

Nel caso di aripiprazolo e ziprasidone (quest’ultimo non in commercio in Italia) esistono però al momento pochi dati.

 

Per quanto riguarda un’altra strategia di potenziamento, la combination, che consiste nell’associazione di antidepressivi diversi, appartenenti alla medesima classe o a classi differenti, dagli studi non emerge una linea guida precisa: questa strategia viene considerata dunque come ultima spiaggia, anche per il rischio elevato di tossicità, nonché di comparsa di interazioni tra farmaci.

L’utilizzo della combinazione di antidepressivi come opzione precoce sta diventando purtroppo pratica frequente. Prima di ricorrere a una simile strategia è importante effettuare un’adeguata ottimizzazione del trattamento e, in caso di fallimento, valutare innanzitutto la possibilità di praticare l’augmentation.

 

Tornando alle linee generali, nella scelta tra potenziamento e switching si opta per il primo quando ci sono sintomi di miglioramento iniziali e quando c’è una buona tollerabilità. È importante scegliere le strategie più documentate, basandosi anche sulle preferenze del singolo paziente, ricordando che nel caso del litio è necessaria una notevole compliance (prelievi ematici per il monitoraggio della litiemia) e l’assenza delle specifiche controindicazioni.

 

Negli USA lo studio STAR-D ha tentato di risolvere il problema del fallimento del primo trattamento e del ricorso alle strategie alternative.

Tale studio è stato condotto su pazienti con depressione di tipo unipolare senza manifestazioni psicotiche, utilizzando come primo farmaco il citalopram (controllare). Tutti i pazienti che non rispondevano in maniera soddisfacente a citalopram passavano al secondo livello, che prevedeva diverse possibilità:








  1. switching:












  • a bupropione

  • a terapia cognitiva

  • a sertralinaa venl

  • afaxina












(libera scelta dello psichiatra curante)








  1. augmentation, con :












  • bupropione

  • buspirone

  • tp cognitiva

 

I pazienti che non rispondevano al secondo livello passavano al terzo, che prevedeva switching a mirtazapina e a un triciclico (nortriptlina), oppure augmentation con litio e ormone tiroideo.

I pazienti che non rispondevano neppure al terzo livello passavano al quarto, basato su switching a tranilcipromina oppure a mirtazapina associata a venlafaxina.

 

La prima fase di questo studio, anche se ha apportato utili informazioni, non ha risolto il problema della gestione complessiva del paziente che non risponde, perché nonostante tutti i suddetti passaggi i tassi di remissione (intesa come punteggio inferiore a 7 allaHamilton Rating Scale for Depression, che corrisponde a paziente asintomatico) sono i seguenti:

  1. Primo livello: 27,5%
  2. Secondo livello: da 18 a 25%
  3. Terzo livello: dal 12 al 20%
  4. Quarto livello: meno del 7%

 

Lo STAR-D sembra dunque concludere che da un paziente che non ha risposto né a una prima né a una seconda terapia ci si possono aspettare modeste risposte da successivi trattamenti; si tratta di un messaggio un po’ pessimistico ma realistico, riferito però a una terapia prevalentemente farmacologica.

 

Per concludere, la depressione resistente è un problema rilevante sotto il profilo epidemiologico, clinico ed economico.

Le variabili biologiche che determinano una resistenza al trattamento non sono ancora note.

La scelta della strategia ottimale (switchingaugmentation o combination) deve essere in ogni caso personalizzata: non esiste al momento una flow chart che indichi una strategia precisa.

Il trattamento farmacologico di questi pazienti poor responders è dunque molto spesso empirico, ma l’empirismo non deve essere trasformato in malpractice.

 

 

  1. La psicoterapia nella depressione resistente

Prof. Matteo Balestrieri, Professore Ordinario di Psichiatria, Direttore Clinica Psichiatrica — Azienda Ospedaliero-Universitaria di Udine

 

Negli ultimi anni la richiesta di psicoterapia nella popolazione è cresciuta costantemente, in particolare nella fascia di età compresa tra i 55 e i 64 anni.

Nel corso del tempo è dunque aumentato il numero di persone che fruiscono di psicoterapia: tale fenomeno ha riguardato anche le fasce di popolazione di basso livello economico.

 

Anche il numero di medici e psicologi che effettuano interventi psicoterapeutici è aumentato e molto spesso gli stessi psicoterapeuti si avvalgono anche dell’utilizzo di farmaci (soprattutto antidepressivi e stabilizzatori del tono dell’umore).

 

Parallelamente è diminuito il numero di sessioni per psicoterapia: questo significa che più persone ricevono una psicoterapia, ma con un numero più ridotto di sessioni.

 

Recenti analisi condotte allo scopo di valutare l’efficacia dei diversi tipi di trattamento dei disturbi depressivi hanno dimostrato che le percentuali di risposta alla psicoterapia sono simili a quelle di risposta alla farmacoterapia; inoltre la combinazione di psicoterapia e farmacoterapia presenta importanti percentuali di successo, sia in termini di response che di remission.

 

Nella pratica clinica vi sono alcune situazioni in cui la combinazione di psicoterapia e farmacoterapia è particolarmente indicata. Nei casi di maggiore gravità sintomatologica o in presenza di un basso livello di funzionamento psicosociale la farmacoterapia può costituire un primo passo verso un successivo accesso alla psicoterapia. In questi casi la somministrazione dei farmaci assume un significato positivo nell’ambito della relazione terapeutica.

D’altra parte nel contesto di un trattamento psicoterapeutico la somministrazione di farmaci può trovare indicazione per favorire il raggiungimento di una situazione di migliore comunicazione tra paziente e terapeuta, soprattutto allorchè il nucleo psicopatologico risulti poco accessibile.

 

Il trattamento combinato è di fatto una pratica diffusa, essendo applicato, negli USA, al 55% dei pazienti.

D’altra parte però a livello didattico raramente sono forniti insegnamenti sulle modalità di effettuazione di un trattamento combinato e pochi sono i programmi di formazione alla psicoterapia per medici, in primo luogo perché ritenuti troppo costosi e di difficile attuazione.

 

Il trattamento "a due curanti" diventa così lo standard: spesso infatti lo psichiatra si occupa della prescrizione farmacologica, mentre la psicoterapia viene delegata a un terapeuta non medico, in un modello che rimanda alla concezione dualistica mente-cervello.

 

Le modalità con cui viene effettuata una terapia combinata possono variare da interventi associati, nei quali il paziente è trattato da curanti diversi che non comunicano tra di loro, a più complessi e auspicabili interventi di tipo integrato erogati in collaborazione da un’équipe di terapeuti.

 

Quali forme di apprendimento entrano in gioco in una psicoterapia?

In generale sono riconosciuti cinque diversi promotori dell’apprendimento:




  • programmi innati, istintuali (che hanno basi genetiche)

  • ripetizione delle informazioni

  • processi di attivazione/stimolazione durante l’apprendimento

  • alimentazione ricca in carboidrati

  • quantità di sonno adeguata (8-9 ore per notte).

 

La psicoterapia si basa fondamentalmente sulla ripetizione delle informazioni e sull’attivazione emozionale che funziona da stimolo per l’apprendimento.

L’apprendimento che avviene in psicoterapia può influenzare la struttura e il funzionamento del cervello. Le moderne tecniche dineuroimaging hanno permesso di osservare il funzionamento del cervello durante psicoterapia: studi condotti mediante RMN funzionale hanno dimostrato che nella depressione maggiore la terapia cognitivo-comportamentale e la terapia interpersonale determinano un effetto di liberazione delle aree limbiche dal controllo frontale.

I farmaci sembrano invece agire su altre aree del SNC, ma è probabile che per psicoterapia e farmacoterapia esista una via finale comune.

 

L’efficacia delle psicoterapie nel trattamento della depressione è stata dimostrata da moltissimi studi. Per le diverse forme di psicoterapia sono stati evidenziati, sempre in termini di efficacia, risultati piuttosto simili.

 

Le cinque forme di psicoterapia attualmente considerate efficaci nella depressione sono le seguenti:




  • Terapia cognitivo-comportamentale

  • Terapia interpersonale

  • Terapia mista cognitivo-comportamentale e analitica

  • Mindfulness-based Cognitive Therapy

  • Well Being Therapy

Di queste, solo le prime due sono considerate evidence-based.

 

La terapia comportamentale confrontata con la terapia d’attesa (metodo classico di confronto) risulta più efficace. Questo tipo di terapia non ha un'indicazione specifica per la depressione, ma uno studio ha mostrato la sua utilità.

Un lavoro in cui è stato effettuato un confronto tra terapia comportamentale e terapia cognitiva ha concluso che esse danno risultati equivalenti.

La terapia comportamentale è quindi risultata superiore ai controlli, nonché alla psicoterapia breve e alla terapia supportiva, mostrando risultati simili a quelli ottenuti con terapia cognitivo-comportamentale.

 

Per quanto riguarda la terapia psicodinamica, uno studio molto recente ha messo a confronto terapia psicodinamica a lungo termine, terapia psicodinamica a breve termine e terapia breve focalizzata sulla soluzione dei problemi. I risultati hanno mostrato che le terapie brevi presentano un’efficacia superiore nel breve termine, ma nel follow-up la terapia a lungo termine prevale rispetto alle altre.

In particolare, la psicoterapia psicodinamica di breve durata è risultata essere più efficace rispetto a quella di lunga durata nel primo anno; durante il secondo anno non vi sono significative differenze; dopo tre anni di follow-up la terapia a lungo termine è più efficace.

 

Nell’ambito della depressione resistente gli obiettivi di una psicoterapia sono l’eliminazione dei sintomi maggiori, la diminuzione del numero di ricadute, nonché il prolungamento del periodo libero da ricadute e la riduzione/gestione dei sintomi residui.

 

Nei casi in cui la depressione è stata risolta ma permangono sintomi residui, la psicoeducazione può essere utile nella gestione di questi ultimi.

Gli interventi psicoeducazionali si basano sul riconoscimento della difficoltà del sentirsi depresso, sull’attivazione di aspettative realistiche e sulla promozione del miglioramento del funzionamento sociale.

La psicoeducazione comprende interventi che vanno dall’informazione alla promozione delle capacità di coping, dall'educazione generale sulla salute e sulla malattia alle istruzioni per la risoluzione di problemi e l’attivazione di processi salutari.

La psicoeducazione è anche parte di programmi di terapia cognitiva o comportamentale spaziando quindi dal piano della conoscenza (più vicino alla terapia cognitiva) a quello dell’azione (più vicino alla terapia comportamentale).

L’intervento psicoeducazionale è però meno personalizzato sul singolo soggetto rispetto alle terapie cognitive e comportamentali.

 

Quali sono gli obiettivi di una psicoterapia all’interno dei programmi di intervento?

Le psicoterapie evidence-based possono migliorare l’efficacia della farmacoterapia antidepressiva e quindi l’esito della malattia.

L’approccio di tipo integrato risulta particolarmente indicato nei casi di depressione farmacoresistente, di remissione parziale, oppure di scarsa compliance da parte del paziente.

Gli studi che hanno esplorato l’efficacia della psicoterapia nella depressione resistente hanno evidenziato una buona efficacia a lungo termine sia della psicoterapia dinamica intensiva a breve termine, che di quella dialettico-comportamentale di gruppo.

La psicoterapia ha un’azione positiva sia sui sintomi residuali, sia su quelli associati alla ricaduta (senso di colpa, hopelesness, pessimismo, bassa stima di sé); incrementa le capacità di coping e promuove il mantenimento di cambiamenti salutari.

Per quanto riguarda l’applicazione simultanea di farmacoterapia e psicoterapia, la combinazione ha dimostrato una superiorità rispetto ai trattamenti effettuati singolarmente, soprattutto nel lungo periodo.

L’applicazione sequenziale ha mostrato migliori risultati nei casi di depressione più grave.

In soggetti con remissione parziale e sintomi residuali, l’associazione tra terapia antidepressiva e terapia comportamentale nella fase di continuazione/mantenimento permette più alti tassi di remissione e minori ricadute.

L’applicazione sequenziale di una terapia cognitiva di mantenimento, dopo la fase acuta trattata con terapia farmacologica, è apparsa alternativa ugualmente efficace al trattamento farmacologico a lungo termine per la prevenzione delle ricadute.

L’approccio sequenziale, quindi, sembra garantire una prognosi migliore rispetto a quello simultaneo.

 

Trattamenti somatici non farmacologici

Prof. Giovanni Battista Cassano, Professore Ordinario presso il Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia e Biotecnologie — Università degli Studi di Pisa

Prof. Pierpaolo Medda — Università degli Studi di Pisa

 

In tutto il mondo l'elettroshock continua ad essere un tabù, viene spesso trascurata la sua potenzialità nella cura di alcune patologie psichiatriche, riducendo così le possibilità di miglioramento dei pazienti; inoltre i medici attuali non hanno alcuna preparazione in materia, si trovano quindi a non sapere in quali occasioni un paziente potrebbe trarre giovamento da tale terapia.

Nelle attuali linee guida per il trattamento della schizofrenia e dei disturbi ossessivi viene considerato l'ECT.

Sono numerosi gli studi sull'efficacia della ECT, si è notato che nel trattamento a breve termine della depressione risulta essere più efficace della terapia farmacologica e questo anche nel caso di depressioni gravi e resistenti alla terapia farmacologica.

Nel centro di Pisa vengono sottoposti a ECT circa 70/80 pazienti all'anno, pazienti che per il 10% sono di Pisa, 20% della Toscana e 70% delle altre regioni italiane.

A Pisa il trattamento si svolge all'interno dell'unità ospedaliera con la collaborazione degli anestesisti. I pazienti cominciano il trattamento in regime di ricovero e lo proseguono in regime di DH.

Occorre eseguire un'attenta valutazione del paziente candidato a ECT.

Il paziente viene inviato da parte dello psichiatra nel centro ECT dove viene fatta la valutazione da parte dei medici del reparto o del DH. In seguito viene fatta la TC, l'ECG e altri accertamenti, un'ulteriore valutazione per ECT e successivamente si fa l'ECT.

Si chiede il parere di diversi psichiatri, facendo una valutazione accurata, considerando la diagnosi e la storia clinica del paziente.

Dal 2004 è stato istituita una valutazione con un comitato per la valutazione e il monitoraggio degli interventi TEC.

Gli interventi devono essere corredati da dati analitici, i pazienti vanno seguiti nel tempo. Compito del comitato è di valutare la conformità dell'impiego della TEC a linee guida internazionali.

 

Consenso informato:

  • Reale descrizione della terapia.
  • Reale indicazione al trattamento
  • Rischi e benefici dell'ECT
  • Effetti collaterali
  • Il consenso va richiesto per ogni trattamento
  • Coinvolgere nella decisione anche il medico di famiglia

 

Predittori di risposta all'ECT:

 

Positivi

  • precedente risposta

  • sintomi psicotici catatonici

  • rallentamento

  • pazienti anziani

 

Negativi

  • lunga durata di malattia

  • resistenza alla terapia farmacologica

 

Esiste inoltre una stretta correlazione tra la durata dell'episodio depressivo e la risposte all'ECT, così come è stata notata una correlazione tra atrofia cerebrale e durata dell'episodio depressivo e numero di episodi presentati. Nei pazienti non trattati c'è una notevole riduzione volumetrica dell'ippocampo, evento che non si verifica nei pazienti trattati tempestivamente con antidepressivi.

 

I pazienti che sono stati sottoposti ad un ciclo di ECT e che hanno risposto a tale terapia presentano un incremento del BDNF, questi dati hanno fatto pensare che i valori del BDNF basali si possano considerare un fattore predittivo di risposta all'ECT.

 

La risposta all'ECT varia a seconda che si tratti di pazienti unipolari o bipolari; la risposta è soddisfacente in entrambe i casi, anche se gli unipolari presentano una risposta migliore.

 

Indicazione per ECT in stati misti:

  • Scarsa risposta al trattamento

  • Gravità sintomatologica

  • Elevato rischio di suicidio

  • Necessità remissione sintomatologica

  • Cronicizzazione, sintomi residui, esiti cognitivi

 

Negli stati misti l'ECT presenta una buona efficacia.

 

Eventi avversi:

 

  • Complicanze cardiovascolari

  • Crisi epilettiche prolungate

  • Complicanze respiratorie

  • Stato confusionale postcritico

  • Viraggi maniacali

  • Traumi alla lingua/denti

  • Disturbi mnesici

I più comuni sono le crisi respiratorie, le crisi epilettiche prolungate e cardiache.

 

Mortalità durante ECT:

  • 1/10000 trattati

  • 1/80000 trattamenti

sovrapponibile a morte per anestesia generale, minore rispetto a quella dei pazienti trattati con TCA.

Spesso la terapia ECT viene fatta dopo una lunga serie di trattamenti di altro tipo inefficaci.

 

Rischi dell'impiego di ECT come "ultima spiaggia":

  • Priva il paziente di un trattamento efficace

  • Ritarda la remissione dei sintomi

  • Favorisce lo sviluppo di forme resistenti

 

Cenni storici:

Nel 1938 Cerletti e Bini sperimentarono con successo una terapia nelle malattie mentali basata su una stimolazione elettrica cerebrale in grado di indurre convulsioni di natura epilettica.

Al passaggio della corrente il soggetto perde immediatamente coscienza ha uno spasmo tonico di tutta la muscolatura finché dura il passaggio di corrente, seguito da una pausa preconvulsiva, con brevissimo rilassamento muscolare, alla quale segue un classico accesso o crisi tonico clonica generalizzata.

Da anni per ovviare ad incidenti di un certo rilievo, come lussazioni omerali o mandibolari, fratture ossee, è divenuta prassi usuale praticare l'elettroshock dopo induzione di anestesia generale con barbiturici e miorilassanti curaro-simili e adeguata somministrazione di ossigeno.

L'applicazione dell'ES può essere effettuata previa accurata indagine somatica, ecg ed esame neurologico, a digiuno, a vescica vuota, allontanamento di protesi dentarie, ortopediche , occhiali e dopo medicazione.

Sino agli anni'70 l'ES è stato usato estensivamente nel trattamento di quasi tutte le patologie psichiatriche con risultati diversi e talora contrastanti.

La disponibilità di terapie farmacologiche efficaci ne ha quindi gradualmente limitato l'uso, specialmente laddove il movimento anti-istituzionale psichiatrico ha identificato l'ES come una terapia violenta e coercitiva.

Recentemente l'uso della terapia convulsivante è stato rivalutato e, in particolare le indicazioni attuali sono rappresentate dalla depressione grave resistente, dalla schizofrenia catatonica e dalla depressione grave nella gravidanza oltre il primo trimestre (nella quale presenta minor rischi per il feto della terapia antidepressiva).

La più comune indicazione per ECT è il disturbo depressivo maggiore, per il quale l'ECT è la terapia più efficace e veloce disponibile. L'ECT dovrebbe essere considerata nei pazienti che non hanno risposto al trattamento farmacologico, in coloro che non lo tollerano e in coloro che hanno sintomi molto gravi o manifestazioni psicotiche.

Numerosi studi hanno dimostrato che circa il 70% dei pazienti che non risponde alla terapia antidepressiva può rispondere positivamente all'ECT.

La terapia elettroconvulsivante è efficace sia nel disturbo depressivo maggiore che nel disturbo bipolare.

ECT è particolarmente indicata nei pazienti gravemente depressi, con sintomi psicotici, che mostrano intenti suicidi e che rifiutano il cibo. I pazienti depressi che meno rispondono all'ECT sono I pazienti con disturbo da somatizzazione.

 

Report a cura di Paola Magioncalda, Andrea Presta, Linda Vassallo

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