INTRODUZIONE
Un disturbo dell'umore, in particolare quando ha un esordio "atipico", può porre problemi di diagnosi differenziale con altre condizioni psichiatriche, soprattutto con la schizofrenia.
L'atipia di esordio può riguardare l'assenza di franche fasi affettive (depressive o maniacali), oppure la comparsa di fasi "paucisintomatiche", oppure la presenza di sintomi psicotici (deliri e/o allucinazioni) che, per alcuni, spostano l'asse della diagnostica differenziale verso la schizofrenia.
Una fase paucisintomatica può presentarsi con generica irritabilità comportamentale, incoerenza, senza il corteo sintomatologico classico delle fasi affettive franche.
Un errore diagnostico, in questi casi, espone il paziente a farmaci neurolettici i quali, per via delle note modificazioni indotte sulla sensibilità e sul numero dei recettori della dopamina, possono alimentare la disforia e l'irrequietezza psicomotoria, erronaemente ritenute indici di mancata risposta terapeutica. Questo porta ad incrementi posologici, variazioni farmacologiche, sino alla convinzione della cronicizzazione della patologia, alla perdita di fiducia nelle possibilità di recupero del paziente, infine al suo inserimento residenziale in comunità per psicotici cronici.
Una maggiore attenzione alla diagnostica differenziale, l'accettazione del rischio di una mancata diagnosi di schizofrenia, o il "coraggio" di mettere in discussione una diagnosi già formulata da altri colleghi, può evitare al paziente un percorso psichiatrico seriamente invalidante.
"Posticipare una diagnosi di schizofrenia non implica rischio di prognosi o di decorso, mentre somministrare a dosi generose neurolettici ed ansiolitici a pazienti affettivi può comportare danni iatrogeni che sollevano problemi deontologici di grande portata" (1).
CASO CLINICO
F.N. è una donna di 31 anni; ha conseguito la maturità artistica, non ha mai svolto attività lavorativa. All'età di 24 anni si è sposata, dopo 3 anni si è separata; non ha figli.
I primi disturbi psichici sono comparsi nel 1990, all'età di 19 anni con (dalla cartella clinica del C.S.M.) "accentuazione di comportamenti già in atto da alcuni anni (frequentazione di discoteche sino a tarda ora) irritabilità, discontinuità nell'alimentarsi, fino ad essere condotta in Pronto Soccorso per una sospetta ingestione non terapeutica di farmaci…Attualmente la ragazza presenta dissociazione ideo-affettiva, discorsi iperelaborati con linguaggio vago e bizzarro, marcate turbe comportamentali (esce improvvisamente da casa, ha mutato l'arredamento del salone in modo bizzarro), tendenza al motteggio".
Viene posta diagnosi di "Sindrome dissociativa", prescritta terapia neurolettica (flufenazina decanoato 25 mg/30gg, aloperidolo 1 mg x 2, tioridazina 25 mg x 2, orfenadrina 50 mg x 2), ed avviata una psicoterapia familiare.
Negli anni successivi prosegue ininterrottamente la terapia neurolettica, con variazioni posologiche in relazione all'accentuarsi periodico dei comportamenti disturbanti; sono anche descritti in cartella dei periodi di depressione dell'umore.
Nel 1996 alla terapia neurolettica viene aggiunto il carbonato di litio, alla posologia di 600 mg/die, e la diagnosi modificata in quella di"Sindrome marginale".
Prosegue in questo modo, continuando a presentare periodi di normalizzazione comportamentale e periodi di eccitamento psichico, logorrea, disordini comportamentali.
Ad aprile '98 mette in atto un serio tentativo di suicidio, ingerendo un numero imprecisato di capsule di litio carbonato, ed altri psicofarmaci, con perdita di coscienza e conseguente ricovero in Rianimazione. Viene successivamente trasferita in S.P.D.C., ove rimane degente per circa una settimana e dimessa con la diagnosi di "Episodio depressivo con TS" e terapia comprendente il litio carbonato, 1.200 mg/die, e la fluoxetina, 20 mg/die.
A settembre '98 ha un nuovo ricovero in SPDC in seguito ad un violento stato di eccitamento psichico; alla dimissione, poiché la famiglia ormai non regge più la situazione (siamo ormai agli otto anni di malattia), viene inserita in una comunità residenziale per psicotici.
Subisce un nuovo ricovero a dicembre '98, ed alla dimissione non intende più fare ritorno nella comunità; viene presa in carico ambulatoriamente dal S.P.D.C. (a causa di un rapporto difficile della famiglia con il C.S.M.), con la nuova diagnosi di "Disturbo Bipolare", e terapia con acido valproico 1.500 mg/die e clozapina 300 mg/die. Molto gradualmente lo stato psicopatologico va normalizzandosi, anche se la paziente presenta ancora delle fasi sia di eccitamento sia di depressione; nel corso di una fase depressiva, nel 1999, tenta nuovamente il suicidio ingerendo un intero flacone di compresse di levo-tiroxina (terapia assunta dalla madre).
La paziente è tuttora in cura con acido valproico, 1.500 mg/die, e clozapina, 100 mg/die; a maggio 2001 ha presentato un iniziale episodio ipomaniacale, con accelerazione ideativa e del linguaggio, e modesta incoerenza, regredito con l'incremento della posologia di clozapina a 150 mg/die. Due episodi analoghi si sono presentati anche a dicembre 2001 ed a maggio 2002; in entrambi i casi non è stato necessario il ricovero, ma un lieve aumento della posologia della clozapina. La tolleranza ematologia è ottima.
Dato il ritrovato stato di benessere psichico l'équipe del C.S.M. sta progettando un inserimento della paziente in attività riabilitative.
DISCUSSIONE
Il caso presentato è purtroppo emblematico del non infrequente errore diagnostico che viene compiuto in presenza di sintomatologia "mista", psicotica ed affettiva. In tali casi è ancora forte, da parte di molti psichiatri, la tendenza a privilegiare la diagnosi di schizofrenia rispetto a quella di un disturbo dell'umore.
Già Kraepelin suggeriva di non porre diagnosi di Dementia Praecox laddove poteva essere intravisto un fondo affettivo.
Anche il rilievo della presenza di sintomi di primo rango di Schneider non deve esimerci da una approfondita diagnostica differenziale, soprattutto se vi sono elementi anamnestici e di decorso che suggeriscono un'alterazione affettiva.
Il manuale DSM-IV (2) prevede, tra i criteri diagnostici per porre una diagnosi di schizofrenia, la "esclusione dei Disturbi Schizoaffettivo e dell'Umore" (criterio D); si tratta, quindi, di un problema di diagnosi differenziale che è ben conosciuto.
Il Disturbo Schizoaffettivo e il Disturbo dell'Umore Con Manifestazioni Psicotiche possono essere esclusi quando:
1. "Nessun Episodio Depressivo Maggiore, Maniacale o Misto si è verificato in concomitanza con i sintomi della fase attiva" (2);
2. "oppure, se si sono verificati episodi di alterazioni dell'umore durante la fase di sintomi attivi, la loro durata totale risulta breve relativamente alla durata complessiva dei periodi attivo e residuo" (2).
La diagnosi di schizofrenia può essere posta, quindi, solo dopo essersi accertati che in concomitanza con i sintomi psicotici della fase attiva non si è verificato un episodio di alterazione dell'umore, o, in alternativa, se ci sono stati episodi di alterazione dell'umore, la loro durata totale deve essere stata breve rispetto alla durata dei sintomi psicotici; in questi due casi, se i sintomi psicotici durano da più di sei mesi la diagnosi è di schizofrenia, se meno, di disturbo schizofreniforme (3).
Se la durata totale degli episodi di disturbi dell'umore non è stata breve rispetto alle fasi attive e residuali e se i sintomi psicotici sono presenti per almeno due settimane in assenza di disturbi dell'umore la diagnosi si sposta sul versante schizoaffettivo; se sono concomitanti, la diagnosi è quella di disturbo dell'umore con manifestazioni psicotiche (3).
CONCLUSIONE
Un corretto inquadramento diagnostico è la condizione necessaria per un efficace trattamento terapeutico.
Una maggiore attenzione alla diagnostica differenziale tra schizofrenia e disturbo dell'umore può evitare al paziente percorsi psichiatrici invalidanti.
L'utilizzo del manuale DSM-IV di diagnosi differenziale (3) rappresenta un valido strumento per la diagnostica differenziale.
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