Cercherò in questa relazione di illustrare quello che oggi ritengo essere il mio modello di supervisione in gruppo, costruito in alcuni anni di attività con operatori di Comunità Terapeutiche.
In altre parole, ciò che tento di raggiungere assieme ai colleghi è la (ri)costruzione di una ipotesi di significato capace di consentire un certo livello di condivisa comprensibilità del paziente. Le esperienze da cui ho tratto questo contributo hanno avuto per oggetto del lavoro di gruppo sia pazienti psicotici che gravi personalità borderline. Faccio questa precisazione perché, come è intuibile, il bagaglio che il gruppo ha portato in supervisione è stato di un tipo particolare: costituito cioè da stati affettivi di fondo confusi, disorganizzati, pertanto difficilmente leggibili, la devitalizzazione, la deanimazione (Lichtenberg 1995), il ritiro, l'inquietudine generalizzata (A.M. Alonzi e coll. 1999), la violenza, che questi pazienti distribuiscono negli operatori assieme a aree di non pensiero (Gaburri 1997), ovvero elementi emozionali e percettivi non raccolti all'interno di un contenitore simbolico, quelli che Bion ha chiamato elementi beta. (1962 a, b).
Ho potuto convincermi che il gruppo giunge alla supervisione carico di questi elementi, che, per lo più inconsciamente, progressivamente trasferisce nel 'campo' in cui lavoriamo.
Nel mio contributo tenterò di esemplificare questo percorso: i contenuti emotivi grezzi o espressi in spezzoni mnesico-narrativi versati nel 'campo' gruppale e nel supervisore che di esso fa parte, lentamente attivano una sorta di bioniana rêverie (Bion 1962) e nel conduttore e nei partecipanti, disponibili a contenere e (tentativamente) a trasformare in forme dotate di riconoscibilità, condivisibili e coerenza di senso, questo materiale.
Ho trovato utile aiutarmi in questo percorso ricorrendo al concetto di scena modello (Lichtenberg 1995), elaborata, a proposito dei gruppi, in Italia da Antonello Correale (1997).
Per procedere, ritengo più utile alla comprensibilità di chi ascolta proporre il resoconto di un incontro, riportato dalla dottoressa Romeo, recorder del gruppo, e le mie considerazioni cliniche sul materiale clinico. Si tratta di un gruppo di circa 20 persone composto da operatori di Comunità Terapeutica e di vario ruolo professionale (psichiatra, infermiere, psicologo, educatore) nell'intento di raccogliere frammenti di immagini e di emozioni del paziente dalle più diverse provenienze.
Ho raccomandato al gruppo di abbandonare le consuete modalità di esposizione del caso (anamnesi molto dettagliate e termini tecnici, proposte di diagnosi … ) per lasciare spazio al linguaggio delle emozioni, alle immagini, ai frammenti di episodi e di esperienze di coinvolgimento coi paziente (e alle stesse sollecitazioni a immaginare, sentire e pensare indotte dai non più lineari percorsi del gruppo). Ben inteso io stesso ho cercato di adeguarmi a questo modello di lavoro, che penso si avvicini a quel modo di usare la mente che Bion inserisce nella fila C della sua Griglia (1963).
Ho trovato anche nel recente contributo di Antonino Ferro un invito alla valorizzazione di questo livello di funzionamento nel capitolo: 'Elogio della fila C' (1999).
L'Autore si riferisce ai modi che l'analista ha a disposizione per 'metabolizzare' ogni esperienza senso-estero-proprio-cettiva(Ferro 1999) proveniente dal 'campo' che avvolge analista e paziente, valorizzando appunto quel percorso che (anche a mio modo di vedere) prima di concludere una Gestalt dotata di più ampio significato, necessita di distribuirsi in, derivati narrativi(Ferro 1999) o, come preferisco chiamarli, aggregazioni narrative, che, nel discorso di gruppo si trasformeranno, con il concorso dell'insieme dei partecipanti, in una narrazione efficace (Neri 1995) ovvero in un modo di raccontare (psicoanaliticamente) il paziente esprimono solo in una configurazione che coinvolge il gruppo (Pichon-Rivière 1977) Lichtenberg esprime un concetto simile, come ho già accennato e prenderò, utilizzando il termine scena modello.
Ho scelto di presentare successivamente alle mie tesi di lavoro le impressioni di alcuni operatori, raccolte e riassunte da un partecipante al gruppo lo stesso che ha fatto da recorder ai nostri incontri.
Ecco le impressioni della dottoressa Romeo: 'Cercherò di parlare delle emozioni e di vissuti (più o meno coscienti) dei vari membri del gruppo nei confronti del paziente. La scelta del caso, al di là delle ragioni cliniche dichiarate è spesso dettata da questi vissuti, soprattutto laddove l'eccesso di esplosività del caso o la difficoltà a pensarlo, in modo strutturato e coerente, pone l'équipe in una situazione di ansia e frustrazione o di vera e propria angoscia nei casi più estremi. Lo stato emotivo del gruppo non è sempre unitario. Si tratta spesso di emozioni complesse e contraddittorie, diversificate da un operatore all'altro. Questi stati emotivi sono talvolta evidenti fin dalle prime battute, in alcuni casi è un membro del gruppo che se ne fa portavoce, in altri casi è il conduttore che li evidenzia, e spesso l'emotività del gruppo e le sue fantasie si trasformano grazie all'emergere degli elementi prima offuscati'.
Ora cercherò di presentarvi il lavoro della prima seduta del nuovo gruppo. Le cose che dirò sono in parte ricavate dallo scritto del recorder, in parte il frutto di mie considerazioni.
Il gruppo è composto da circa 20 persone riassumenti le varie operatività di una Comunità Terapeutica. Siamo disposti in una sorta di cerchio che ci consente di osservarci reciprocamente.
La paziente – presentata dal curante – è una ragazza di 17 anni, figlia di genitori giovanissimi, ora malati di AIDS dopo trascorsi di tossicodipendenza.
La ragazza M. è fuggita più volte dalla C.T. e il racconto è inizialmente centrato su un accenno di storia infantile (come avevo chiesto) successivamente sul viaggio in macchina che la curante e un'altra operatrice hanno effettuato con M. con ricondurla in Comunità, una volta dimessa dal Reparto Psichiatrico di un'altra città.
M. non ha mai vissuto con i genitori, allevata dai nonni ,materni (tenero e affettuoso è la descrizione del nonno, mancato quando la bambina aveva nove anni). Nulla è trapelato sulla risposta di M. al lutto. a vivere con la nonna, efficente e rigida.
La madre di M, terminato il periodo di disintossicazione, ha mantenuto saltuari rapporti con la figlia: il padre si rifarà presente nella vita di M. all'inizio dell'adolescenza. Più o meno a quell'epoca M. ha iniziato a presentare comportamenti ribelli, sempre meno gestibili dai parenti, finchè a 15 anni, per l'aggravarsi della situazione psichica e comportamentale, viene tentato (e fallito) un primo inserimento in C.T.: si accentuano comportamenti bizzarri, asociali, turbe del pensiero, uso saltuario di stupefacenti, finchè viene ricoverata per la prima volta in un Reparto Psichiatrico, dove, viene intrapreso il progetto C.T.: fugge alcune volte, cerca il padre, sembra faccia in modo di essere ricoverata altre volte nel Reparto Psichiatrico della sua città.
La descrizione ha una pausa. Il gruppo non sembra intenzionato ad intervenire.
Io rifletto sul bisogno di M. di essere, in momenti di particolare tensione, accolta (ricoverata), in luoghi ove immagino si senta più controllata, forse più difesa da una parte di sé violenta e (auto) distruttiva: esprimo queste mie considerazioni al gruppo, nell'intento di scivolar via da un'anamnesi più tradizionale per iniziare a costruire un'immagine di M. in cui prendono ad affacciarsi alcuni affetti e comportamenti che possono trascinare una prima traccia di significati.
La psicologa riprende a parlare: ora si sposta in una temporalità assai prossima, raccontando il viaggio in macchina, insieme ad un'altra operatrice, per riportare la paziente dal Reparto Psichiatrico alla Comunità Terapeutica.
M. non è che parli molto – racconta – e il viaggio è stato molto lungo: lei si è isolata con il suo walkman, allora le ho detto di mettere la cassetta nella radio della macchina. Ha acconsentito ma usando un volume così alto da impedire ogni conversazione. Poi la mia collega, assai prima di essere alla C.T. è scesa e siamo rimaste io e M. e mancava ancora più di un'ora per arrivare. Allora ho sentito che il contesto cambiava radicalmente, ero sola con M. e pensavo: 'Cosa le dirò adesso?' Dato che era una bella giornata e c'era un paesaggio collinare che a me piace tantissimo le ho detto: 'M., guarda quanto è bello!' – e lei.- 'Non me ne frega niente' Così io mi sono sentita che non sapevo proprio cosa dirle. La musica che lei ascoltava la trovavo brutta, e il paesaggio che tanto mi piaceva non la interessava affatto.
Ora l'operatrice è in contatto con le emozioni del viaggio, le rivive e le trasmette al gruppo, a me, che abbiamo modificato il tipo d'ascolto, adesso assai più affettivamente coinvolgente.
Allora cerco di esprimere (sto iniziando, credo, a entrare in contatto con la mia capacità di rêverie) una prima funzionetrasformativa dell'insieme di fatti, emozioni, tentativi di traduzioni in rappresentazioni e pensieri che la psicologa e il gruppo (che ha fatto, me incluso, da contenitore) ha immesso nel 'campo'.
Per superare il disagio dell'assenza di contatto con M. – dico – la dottoressa ha proposto la sua visione del mondo (la bellezza del paesaggio), forse un po' come a costringere M. ad allinearsi a una nostra modalità di vedere le cose, mentre, credo, era lei a tentare di farci entrare nella sua così diversa prospettiva, in cui non vi è contatto con la bellezza, in cui credo vi sia invece gran sofferenza e invidia perché priva delle basi fondamentali (forse le è stato impedito di costruirle) per condividere la sensazione della bellezza, l'emozione estetica, quella capacità che trasforma la percezione di ciò che appare bello in un'emozione costruttiva e creativa.
Poi mi ritrovo in silenzio, in un contatto più libero con me stesso, in cui, pur avendo in mente paziente e gruppo, una parte di me si rivolge ad un fantasticare (la rêverie come intesa da Bion, credo) fatto di immagini e rappresentazioni frammentate, di associazioni, di ricordi, di desiderio di comunicare con il gruppo.
Aggiungo che la spinta a compiere certi percorsi dentro di me e porgerli al gruppo è vissuta da me come un'operazione di restituzione, convinto che ciò che viene a depositarsi dentro di me e a chiedermi un progetto trasformativo sia il risultato di iniziali funzioni evocative di frammenti di immagini, di rappresentazioni, di fantasie, di abbozzi emotivi che i vari membri del gruppo custodiscono e che trovano nello spazio della supervisione il luogo della loro collocazione. Intendo allora la mia funzione trasformativa come un tentativo di mettere insieme in aggregazioni narrative, ovvero in scene (memorie, costruzioni di brevi racconti) ciò che ho percepito a diversi livelli di consapevolezza, tentando di indirizzare l'attenzione mia e del gruppo soprattutto sulle emozioni ed affetti che possono legare insieme la narrazione e arricchirla di significati.
Si affaccia, nel mio fantasticare, una breve scena estiva, a cui ho assistito: alla spiaggia un bambino di un paio d'anni, alzando gli occhi al cielo e meravigliandosi di ciò che a lui appariva meraviglioso, balbettava alla madre indaffarata: 'L'elicottero… elicottero elicottero!', esprimendo e tentando di condividere l'esperienza dello straordinario con l'adulto significativo. 'E' solo un elicottero …' ha risposto la madre, un po' sbuffando a ciò che sembrava apparirle la percezione del banale.
Racconto l'episodio, cercando di trovare il legame tra le precedenti narrazioni in gruppo e il senso, emotivo soprattutto, di ciò che ora sto-stiamo cercando di raggiungere: esploratori alla ricerca della non-cosa, delle strategie per colmare insiemel'assenza di significato, per riuscire a tollerare quella quota di inconoscibile, di insaturo, che ogni attività di stile analitico di necessità propone, nonchè per sopportare l'indefinitezza temporale entro cui soffriamo l'attesa imprecisa e incerta della possibile scoperta.
Riprendo a parlare: 'Ho cercato di immaginare come i primi contatti di M. con la percezione e la sensazione del suo 'meraviglioso', come nel bambino della spiaggia, possano essere stati chissà quante volte soffocati da una madre e un padre assorti e storditi, senza spazio interiore per condividere le emozioni di M.
M., nel viaggio in macchina fa avvertire alla psicologa quella caduta di tensione estetica che lei bambina, penso, avrà sofferto troppe volte, finchè lo stupore, la condivisione di ciò che affascina sono diventati (come dice Bion) una nientecosa, un (consciamente) mai-accaduto.
Mi pare importante, riflettendo a posteriori, sottolineare il percorso di questi transiti mentali nel 'campo' gruppale, provvisoriamente conclusi rappresentazione- narrazione di una 'scena' che, come ho anticipato nel titolo del mio contributo, ho chiamato, mediante e il termine e il suo significato dal già citato Lichtenberg scena modello.
In un contributo in corso di pubblicazione, Correale mette in evidenza come la scena modello ha una serie di specifiche caratteristiche che ne costituiscono elementi fondanti e differenzianti. Riprendendo le sue posizioni voglio chiarire che la 'scena' riguarda individui in relazione tra loro, e le emozioni che ne costituiscono il legame possono essere diverse, intuite dal gruppo, accennate, in una non rigida esauribilità interpretativa. Inoltre il timing in cui la scena modello si costruisce nella mente dell'analista o del supervisore contribuisce in maniera essenziale a determinare la carica di attentività cognitiva ed emotiva sia in lui che in coloro a cui viene trasmessa.
Ancora una cosa: ovvero che la scena modello si pone come una sorta di prototipo di una serie di ripetuti, simili accadimenti tra paziente e personaggi significativi: 'Si può fare l'ipotesi – scrive Correale (op. cit) – che la nostra mente abbia bisogno di dar vita a piccole scene, che rappresentino ripetute interazioni, cioè che una delle attività della memoria non consista soltanto nel rievocare, ma nel dare forma plastica e visibile ai sentimenti, che ripetutamente nascono da relazioni che si continuano nel tempo'.
La non saturazione dei fatti emotivi che possono essere dedotti dalla scena modello, la nostra in questo caso, consente al gruppo di aprire nuovi spazi associativi.
Riprende a parlare un operatore, che ha un ruolo direttivo nella comunità. Dice: 'Mi stavo chiedendo come si può legare il discorso sulla possibile esclusione di M. bambina dal mondo genitoriale con le sue attuali modalità di atteggiarsi, di presentarsi. Ecco, mi pare che assuma talvolta l'atteggiamento della prostituta, non solo per l'abbigliamento ma per l'atteggiamento generale: ad esempio si rivolge a me, persona d'età matura, e che rappresento in qualche modo la struttura, dandomi del tu, quasi fossi un suo cliente e io dentro di me mi dico: no, accidenti! Io sono il tuo medico'.
Mi sorprendo di fronte all'intuizione del collega: in effetti la scena del bambino, madre ed elicottero, la parziale nudità dei corpi alla spiaggia evidentemente suggerisce (ma è stato per me oscuro) la possibilità di ulteriori legami e tensioni emotive: il desiderio della sessualità, la presentazione di un complesso processo trasformativo di un tentativo di erotizzazione edipica,incipiens nel bambino in spiaggia, confusivamente 'adultizzata', per così dire, nella caricatura prostitutiva con cui M. si presenta seduttivamente alla matura figura dell'operatore.
Sono stupito dalla ricchezza del lavoro del gruppo intorno a ciò che abbiamo costruito, scene, narrazioni, legami e sentimenti che orientano in tante possibili direzioni i legami stessi.
Mi dico che ora sono di fronte al mio elicottero, e sento il forte desiderio di con-dividere la forte emozione che questa percezione mi suscita: in una sorta di continui rimandi tra paziente (interiorizzato), gruppo ed io stesso.
Devo anche ammettere che il forte desiderio che mi ha spinto a scrivere questo contributo, assieme alla percezione di una certa timorosità nel chiedermi se ciò che stavo scrivendo avrebbe provocato una consensualità emotiva nel gruppo che ora mi sta ascoltando mi sono apparsi, nei momenti in cui ero in condizioni di poter meglio riflettere, una ulteriore conferma (e ripetizione) delle scene ed emozioni di cui vi ho parlato.
Come se io potessi, qui, ora, con voi, personificare e il bambino della spiaggia e la sua 'stupita meraviglia' (come la chiamerebbe Di Chiara) che chiede condivisione.
Insieme, vi portassi il bisogno di apparire una sorta di buona madre che chiede alle funzioni paterne del gruppo approvazione e appoggio per il neonato-contributo.
E ancora ho pensato che la tensione a parlarvi potesse anche essere motivata dalla più nascosta (perché meno dicibile) tensione a piacere, ad ottenere risposte (edipicamente) positive da voi che ascoltate.
Cosicché, ritengo, le scene e i loro complessi legami del gruppo di supervisione stanno rivivendo ora in me che non solo racconto, ma, come sul palcoscenico di un teatro, sto (come una sorta di attore) rivivendo e rappresentando.
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