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Aggressività,malattia mentale,crimine. Riflessioni a margine dei casi P. E. Smith e Donato Bilancia

3 Ott 16

Di Sabino Nanni
I – Natura dell’aggressività
Quando l’essere umano giudica se stesso, è inevitabilmente influenzato dal proprio narcisismo, ed il narcisismo porta a prese di posizione estreme: tutto o nulla, idealizzazione o demonizzazione, “perfezione” o totale imperfezione. La contrapposizione, che ne deriva, tra una concezione ottimistica ed una pessimistica dell’uomo influenza il modo in cui viene intesa l’aggressività. Il pessimismo prevale in Freud (soprattutto negli scritti posteriori al 1920 [I, 5]) e nella Klein: l’aggressività è concepita come pulsione primitiva, connaturata all’essere umano, che non può che essere “domata” o repressa. Per altri, viceversa, l’uomo non è necessariamente prevaricatore: l’aggressività è ritenuta una risposta a frustrazioni  (Reich, Stern) o a minacce all'integrità del Sé (Ornstein, Fonagy, Kohut). In base a quest’ultima concezione, se cessa la frustrazione o la minaccia, viene meno anche l’aggressività. Una posizione un poco diversa, ma sempre orientata verso l’ottimismo, è quella di Spitz e di Winnicott: per loro, l’aggressività è sempre presente, ma fondamentalmente come energia, che promuove lo sviluppo, al servizio di auto-affermazione, auto-delimitazione, adattamento ed esplorazione [Autori citati in I, 19, pag. 1270]. Anche per Romolo Rossi l’aggressività rappresenta una “funzione ineludibile per la sopravvivenza”, con una sua precisa base neurobiologica [I, 15, pag. 49, 50]. Su di una posizione simile si collocano Laplanche e Pontalis: essi operano una sottile distinzione, nell’ambito della più generica “aggression”, tra “aggressivity”, che mantiene un suo significato di forza distruttrice, e “aggressiveness”, dove viene persa la connotazione di ostilità; essa è sinonimo di “spirito d’iniziativa, energia, attività, grinta”. Che “aggressivity” e “aggressiveness” siano due forme diverse della stessa spinta emotiva è testimoniato dalla trasformazione, operata dalla psicoterapia, della prima nella seconda [Citati in I, 15, pag. 74, 75]. Non dobbiamo, tuttavia, pensare che la persona sana sia sempre, necessariamente, immune da ostilità: essa compare, in una forma integrata con le intenzioni e gli scopi di un Io evoluto, qualora questi incontrino un ostacolo nel mondo esterno [I, 12, pag. 643]. In tal caso essa ha obbiettivi limitati, si dirige selettivamente verso l’ostacolo, è commisurata e qualitativamente adeguata alla sua rimozione, e si placa quando esso è stato rimosso. Caratteristiche opposte ha una forma primitiva e patologica di aggressività, definita da Kohut “rabbia narcisistica”: essa si presenta smisurata, tendente a sbagliare bersaglio, incapace di placarsi. Mentre la forma sana ed evoluta è sotto il controllo dell’Io, che ne regola il grado di neutralizzazione in rapporto ai propri scopi, al contrario la rabbia narcisistica schiavizza l’Io permettendogli di funzionare solo come proprio strumento [I, 12, pag. 646].
Il contenuto di questo scritto è una serie di riflessioni sul ruolo dell’aggressività in alcune malattie mentali e nelle condotte criminali. L’opinione di chi scrive è che, nelle une e nelle altre, lo stesso tipo di pulsione distruttiva sia inserita in due forme diverse di organizzazione mentale e richieda modi simili di trattamento, quando possibile. La concezione di aggressività che qui viene adottata è, si potrebbe dire, a carattere “pragmatico”: per ciascun caso, si “scommette” sulle ipotesi più ottimistiche (se verificate nel corso della terapia, esse comporterebbero una trasformazione dell’ostilità distruttiva in aggressività ego-sintonica e capace di favorire un adattamento socialmente accettabile), salvo ammettere possibili e frequenti défaillances della cura, specifiche per ciascun paziente; défaillances che richiedono misure “di ripiego”. Può, quindi, essere utile studiare i casi in cui la probabilità di simili dèfaillances, in un’eventuale cura, si presenterebbe fin dall’inizio particolarmente elevata: individui, autori di crimini efferati, che pure mostrano evidenti segni di sofferenza. Su due di questi casi disponiamo di importanti documenti: “A sangue freddo” (una “non-fiction novel” rigorosamente aderente ai fatti) dello scrittore Truman Capote [II, 2], e la consulenza su Donato Bilancia degli psichiatri Romolo Rossi e Francesco De Fazio [I, 17
 
II – Due documenti
Perry E. Smith: “A sangue freddo” In una mattina del novembre 1959, a Holcomb, cittadina del Kansas, avvenne un fatto che turbò e appassionò l’opinione pubblica americana: furono trovati, assassinati nella loro casa, l’agricoltore Herbert Clutter, la moglie Bonnie e due dei loro quattro figli, Nancy e Kenyon. Gli omicidi, avvenuti nottetempo, apparivano inspiegabili: commessi a sangue freddo, non avevano fruttato agli assassini un vero bottino; inoltre, a giudizio di chi conosceva i Clutter, non esisteva alcun motivo di ostilità o di rancore nei loro confronti. Apprendendo la notizia dal New York Times, Truman Capote decise di scrivere qualcosa sulla strage. Ancor prima che gli autori del crimine venissero catturati, egli si recò sul luogo. Qui lo scrittore iniziò ad intervistare i concittadini delle vittime e fece amicizia con Dewey, l’ispettore di polizia che dirigeva le indagini. Fu la “soffiata” di un carcerato che permise di accertare il movente e l’identità degli assassini: si trattava di Perry Edward Smith e Richard Eugene Hickock (Dick), due pregiudicati appena usciti dalla prigione e in libertà vigilata. Un loro compagno di cella, che aveva lavorato nell’azienda dei Clutter, aveva parlato dell’esistenza di una cassaforte e di denaro nella casa dell’agricoltore. Confidando in questa pur vaga informazione, Perry e Dick, appena scarcerati, avevano raggiunto Holcomb. Penetrati nella notte nella casa dei Clutter, i due malviventi avevano cercato invano la cassaforte e poi ucciso, in quanto possibili testimoni, i membri della famiglia presenti in quel momento. Furono catturati, per il furto di un'automobile, sei settimane dopo la strage e, dopo un lungo interrogatorio, confessarono.
Dall’inizio della loro detenzione fino all’esecuzione capitale, Capote ebbe contatti quotidiani con Perry e Dick. Basandosi su quest’esperienza, egli scrisse “A sangue freddo”, un romanzo di un genere del tutto nuovo che l’Autore definì “non-fiction novel”. Capote si propose di raccontare i fatti come effettivamente erano avvenuti, ma adottando i moduli narrativi tipici del romanzo. In quest’opera, egli integrò una rigorosa indagine sui fatti oggettivi con quanto gli suggerì una prolungata immersione empatica nel mondo interno dei malviventi; ossia con un’indagine, altrettanto rigorosa, sulla loro dimensione soggettiva.
Fra i ritratti dei due personaggi spicca particolarmente, per nitidezza, quello di Perry Smith, con cui Capote ebbe un rapporto intenso e sofferto. Mezzo sangue, nato da un bianco e da un’indiana Cherokee, Perry conobbe una prima infanzia relativamente serena. I genitori erano due artisti di circo affiatati, e il loro accordo sulla scena si rifletteva anche sulla vita della famiglia, di cui facevano parte il futuro assassino e altri tre fratelli. Presto, però, questo primo periodo fortunato ebbe termine: a seguito di crescenti contrasti con il coniuge, la madre finì per allontanarsi da casa, portando con sé i bambini. La rottura con il marito, tuttavia, non le portò serenità: sempre più preda dell’alcol, la donna finì per perdere, insieme alla dignità ed al rispetto per se stessa, anche il suo senso di responsabilità verso i figli. Le conseguenze a lungo termine di quest’abbandono da parte di entrambi e genitori furono terribili: uno dei fratelli di Perry, dopo aver spinto la moglie al suicidio, si suicidò egli stesso. Analoga fine fece Fern, la sorella prediletta di Perry, l’unica persona che egli amò veramente nella sua vita. Perry, dopo aver tentato più volte di fuggire per raggiungere il padre, sperando invano d’essere accolto, finì per scegliere la strada della trasgressione e del crimine. Non perse mai, tuttavia, la speranza di trovare un “salvatore”, una persona che gli restituisse serenità e possibilità di vivere onestamente. Credette di trovarlo, nel corso di una delle sue detenzioni, in Willie-Jay, compagno di carcere ed aiutante del cappellano della prigione. Da quest’uomo, religioso e sensibile, Perry si sentiva capito, e sperava di ritrovarlo, dopo la scarcerazione, come amico che lo avrebbe accompagnato nelle tappe del suo riscatto. Ma ciò che gli precluse questa possibilità fu la convinzione di Perry che fosse inutile lottare contro il destino. Fu di Dick l’idea di compiere l’impresa criminosa che si concluse con la strage dei Clutter. Con lui Perry aveva un appuntamento a Kansas City, da dove entrambi sarebbero dovuti partire per il luogo del delitto. Caso volle che, nella stessa città e negli stessi giorni dell’incontro, stava per essere scarcerato Willie-Jay. Perry decise che la scelta tra il seguire l’uno o l’altro dei suoi ex-compagni di carcere sarebbe stata fatta dal destino. Sentì, quindi, il mancato incontro con Willie-Jay come un segno del “fato”, ossia di una potenza di fronte alla quale egli non poteva che arrendersi.
Donato Bilancia: la consulenza di Rossi e De Fazio (pubblicata in esclusiva sulla rivista e raggiungibile seguendo il link)
Fra il 1997 e il 1998, in un arco di tempo di sei mesi, vennero commessi, in Liguria e nel Basso Piemonte, diciassette omicidi e un tentato omicidio. I delitti, all’inizio, non suscitarono grande clamore. Il primo venne addirittura archiviato come morte per cause naturali; fu, in seguito, l’assassino stesso ad autoaccusarsi di tale omicidio. Alcuni dei crimini successivi presentavano le caratteristiche apparenti di rapine finite male; altri, l’uccisione di prostitute, riguardavano un ambiente (quello, appunto, della prostituzione) relativamente isolato dal resto della società. Fu con gli omicidi sui treni, nei quali le vittime venivano scelte del tutto casualmente, che iniziò a svilupparsi un vero e proprio panico, soprattutto fra chi usava abitualmente tali mezzi di trasporto. Nel frattempo, alcuni indizi e testimonianze portarono a concludere che l’autore dei delitti fosse un’unica persona. Nacque così, anche grazie al clamore delle cronache, l’incubo del “mostro della Liguria”. Il “mostro”, tuttavia, non era infallibile: preciso e determinato negli altri delitti, non riuscì, però, ad uccidere il transessuale Lorena, col quale si era appartato, limitandosi a ferirlo all’addome. La vittima ebbe, così, la possibilità di fornire la sua testimonianza riguardo all’identikit dell’assassino ed a dettagli sulla sua automobile, una Mercedes nera. A seguito della denuncia della mancata restituzione di una vettura del tutto simile data in prova e di altri indizi, si poté, quindi, risalire all’identità del colpevole. Si trattava di Donato Bilancia, un uomo di 47 anni, noto per precedenti di più lieve entità.
Poco dopo l’arresto, il Pubblico Ministero richiese al Prof. Romolo Rossi e al Dott. Francesco De Fazio una consulenza psichiatrica “allo scopo di chiarire la possibilità di mettere in moto il processo, l’imputabilità o meno e, per quanto possibile, i meccanismi alla base di comportamenti di tal fatta” [I, 17, pag. 1]. Nei colloqui, grazie anche alla collaborazione dell’interessato, i consulenti riuscirono a comprendere gli aspetti essenziali dell’esperienza soggettiva di Bilancia. Ne emerse il quadro della vita interiore di un assassino paragonabile, per la ricchezza dei dettagli e la profondità della comprensione, a quello di Perry Smith dipinto da Truman Capote.
Figlio di immigrati provenienti dalla Basilicata, Donato Bilancia conobbe un’infanzia del tutto priva d’intimità e tenerezza da parte dei genitori. Non c’era spazio per sensibilità ed affetto materni: la genitrice, del tutto succube del marito, era incapace di manifestare volontà e sentimenti autonomi. Il padre, insensibile, tirannico e volgare, dava spesso prova di crudeltà, soprattutto nei confronti di Donato. Soleva, ad esempio, mostrare il corpo nudo del bambino ad alcune parenti, deridendone la piccolezza dei genitali. Quando il piccolo bagnava il letto (l’enuresi si protrasse fino all’età di 11 anni), il genitore si faceva beffe di lui, oppure lo rimproverava aspramente, senza neppure sospettare che si potesse trattare di un problema. Nel suo comportamento abituale, rozzo e meschino, il padre non offriva nulla che Donato potesse apprezzare o emulare. Completava il quadro la preferenza, accordata dai genitori, al fratello. In questo ambito familiare, Bilancia crebbe incapace di sentimenti positivi e comportamenti socievoli. Lo manifestò fin dall’inizio dell’età scolare, rivelandosi indisciplinato ed aggressivo. In età giovanile, si specializzò nel furto. Cercava di nobilitare questa sua pratica creando, di se stesso, l’immagine di “ladro gentiluomo”. Nello stesso tempo, ostentava modi da raffinato uomo di mondo, in evidente contrasto con l’immagine di sé che gli aveva offerto il padre. Tuttavia, nella vita e nel mondo interno di Bilancia si stavano creando le premesse per ben più efferati crimini. Amò soltanto due persone. Una di queste fu una donna che lo abbandonò, su istigazione dei parenti di lei, mentre egli era in carcere. L’altra fu il nipotino: visse, per un certo periodo, con la famiglia del fratello, s’interessò molto al suo bambino, e prese le parti del piccolo contro i criteri educativi, eccessivamente severi, del genitore. Scontratosi con il fratello, deluso, si sentì costretto ad andarsene. Un dolore molto più grande lo attendeva qualche anno più tardi, quando il fratello si gettò sotto un treno uccidendo anche il bambino. Altri avvenimenti accrebbero sempre più, in Bilancia, sentimenti di delusione e di rancore: si trattava dei tradimenti e delle truffe, da parte di persone che riteneva amiche, che pure lo derisero per la sua credulità. Quando l’intensità del risentimento ebbe raggiunto la soglia di intollerabilità, iniziarono gli omicidi. 
 
III – Criminalità e sofferenza
Alcune forme di criminalità sono da considerarsi come modi per sfuggire alla follia, ed alcune forme di follia si possono considerare come modi diversi per contenere, modificare, elaborare la stessa forma di aggressività primitiva che è alla base della criminalità [I, 15, pag. 57]. Possiamo meglio studiare questo tipo di distruttività quando essa si presenta in modo manifesto e pressoché allo stato puro, come nei due casi qui descritti. In essi, l’aggressività primitiva produce, parallelamente ai comportamenti criminali, anche forme di sofferenza.
La distruttività primitiva Un impulso distruttivo primitivo e patologico, non legato ad altro tornaconto palese che non sia soddisfare se stesso, è evidente negli “omicidi sui treni”, di Donato Bilancia, in cui le vittime erano scelte del tutto casualmente. Anche il movente della rapina (o dell’eliminazione dei testimoni), in entrambi i criminali qui considerati, appare spiegazione debole e poco convincente. Donato Bilancia afferma chiaramente “di non sapere e non capire i reali motivi degli omicidi”  [I, 17, pag. 9], anche di quelli con l’apparente scopo di rapina. Perry Smith lo ammette altrettanto apertamente; parlando con un amico, venuto a trovarlo dopo l’arresto, egli confida:
“Mi domando … chissà perché l'ho fatto… non è stato per via della paura d’essere identificato. Ero disposto a correre quel rischio. E neanche per via di qualcosa che i Clutter mi avessero fatto” [II, 2, pag. 774].
Se il reale movente è ignoto agli assassini stessi, tanto più lo è per la gente comune. Si può pensare a scopi comprensibili, anche se non condivisibili, come la vendetta, o un tornaconto economico, o politico, o sessuale; ma una violenza “gratuita” appare, ai più, indecifrabile. S. Agostino sosteneva che “tutto, nel mondo umano, appartiene almeno un poco anche a noi stessi” [citato in I, 19]. Se si ritiene valida tale affermazione, dobbiamo ammettere che, nelle persone normali, alla base dell’incomprensibilità vi sia una forte rimozione, o un’espulsione dalla mente, delle tendenze omicide fini a se stesse. Dobbiamo, quindi, pensare che esse appartengano alla parte del nostro mondo interno più lontana dalla coscienza: quella più remota nelle sue origini e legata ad una forma primitiva di narcisismo.
In effetti, possiamo trovare, nella storia dei criminali qui considerati, una brutale frustrazione dei bisogni narcisistici primari, dovuta a totale deprivazione affettiva. Perry Smith, come si è visto, perse precocemente il padre, mentre la madre divenne presto del tutto incapace sia di fornirgli appoggio, sia di offrirgli l’immagine di una figura idealizzabile, con cui condividere alcune buone qualità e da emulare:
[dopo la separazione dal padre] “aveva perduto anche la madre e imparato a disprezzarla; l’alcol aveva alterato i lineamenti, sformato la figura della fanciulla Cherokee, un tempo agile e flessuosa, aveva inacidito la sua anima, reso velenosa la sua lingua, e dissolto a tal punto la sua dignità che solitamente non si prendeva neppure la briga di chiedere il nome agli scaricatori, ai camionisti e tipi consimili che accettavano quanto lei offriva senza farsi pagare, purché prima bevessero con lei e la facessero ballare alla musica di un grammofono a manovella” [II, 2, pag. 592]
Analoga inadeguatezza apparteneva anche ai genitori di Donato Bilancia:
“il padre egocentrico, scostante, tirannico e privo d’interesse per i figli; la madre dipendente, sottomessa, quasi un prolungamento inerte ed un automa rispetto ai desideri e alle direttive del padre”. Egli, pertanto, “descrive con amarezza i rapporti con la sua famiglia, esprimendo un vissuto d’isolamento e costante disinteresse e di lontananza fredda, nonostante il suo continuo bisogno anaclitico, di concreto appoggio” [I, 17, pag. 5, 6].
Sia Perry Smith, sia Donato Bilancia non ebbero mai un posto stabile e sicuro nello spazio mentale dei genitori. Tra le varie forme di abbandono cui ogni individuo può andare incontro nel corso dello sviluppo, essi subirono quello più antico e originario: un’espulsione dal ventre materno non sufficientemente temperata, nei suoi effetti, dall’abbraccio e dalle cure empatiche della genitrice e degli altri familiari. La nascita comporta il non essere più tenuti nello spazio fisico del corpo materno, ed esso dev’essere immediatamente sostituito dallo spazio mentale di chi accudisce il neonato: l’atto del “comprendere” o “capire” la natura e le esigenze del bambino rimanda, riguardo al suo significato, all’etimologia di entrambe le parole, ossia “tenere dentro” [I, 15, pag. 52]. Se manca questo “comprendere” da parte della madre (che diviene presto un comprendere se stessi), viene meno anche la possibilità di lenire le angosce e l’aggressività causate dalle successive esperienze d’abbandono: quella legata al distacco dal seno materno e quella prodotta dal conflitto edipico e dalla rivalità tra fratelli. L’angoscia espulsiva e le tendenze matricide che ne derivano rendono, perciò, particolarmente distruttive le forme di aggressività scatenate da altre fonti. Anche l’etimologia della parola “aggressività” (deriva dal latino “aggredi” che significa “andare verso” o “avvicinarsi” [I, 18, pag. 1274]) lega questo concetto a quello di “espulsione” (da “expellere”, ossia “scacciare” o “allontanare”): tentare di riavvicinarsi è la naturale risposta all’essere allontanato e tale atto sarà altrettanto ostile quanto lo è stato l’allontanamento.
Il “tenere” il bambino significa accettare e, in un primo momento, assecondare la sua “illusione primaria” di un ambiente docile ai propri comandi, una sorta di prolungamento di lui stesso. [I, 20]. Questa pretesa narcisistica, d’essere totalmente ed illimitatamente tenuti ed accuditi, in condizioni sane viene gradualmente superata tramite una serie di frustrazioni “ottimali”, ossia commisurate a quanto il piccolo può tollerare nella sua fase di sviluppo e temperate dall’empatia materna [I, 13]. Se, viceversa, la frustrazione è stata brutale, ne nascono il sentimento di un grave torto subìto, desideri di vendetta e di risarcimento ed un’intensa aggressività difficilmente controllabili dall’Io. Tale ferita narcisistica, infatti, si verifica in epoca prelinguistica e, di conseguenza, l’esperienza non può essere elaborata mentalmente. [I, 15, pag. 55]. Da qui derivano il carattere incomprensibile e la violenza apparentemente gratuita che caratterizzano certi comportamenti criminali.
-Dalla ferita narcisistica all’omicidio Le esperienze soggettive che portarono Perry Smith e Donato Bilancia a comportamenti criminali sono riassunte dall’affermazione di Riccardo III: “Since I cannot prove a gentleman, I will prove to be a villain” [Poiché non posso dimostrare d’essere un uomo nobile, dimostrerò d’essere uno scellerato] [II, 4]. Esse segnano il riaffiorare, prodotto da fatti recenti, dell’antica ferita narcisistica e dell’antica rabbia, non più temperate da strutture difensive e compensative. In entrambi esiste un percorso, contrassegnato dal fallimento dei tentativi d’elaborare la ferita narcisistica, che “dall’umiliazione antica, dall’offesa mortale alle esigenze primarie del Sé, conduce alla pretesa di risarcimento, alla rivendicazione totale che segue la legge del tutto o nulla. Il cambiamento appare più quantitativo che qualitativo tendendo… ad annullare, come risarcimento estremo, ogni considerazione dell’altro” [I, 17, pag. 11, 12].
Gli “eventi chiave” del percorso di Perry Smith sono la separazione dal padre (ed il rifiuto di questi di accoglierlo, quando Perry cercò di raggiungerlo), l’abiezione, prodotta dall’alcol, della madre, il suicidio dei fratelli (in particolare della sorella Fern, che egli amava), ed il mancato incontro con l’amico “salvatore” Willie-Jay. Dopo aver perso le cure materne, Perry vide fallire i suoi sforzi riparativi anche con la sorella, un sostituto materno-femminile. Si rivolse al padre e, benché respinto da questi, non perse mai del tutto la speranza di trovare la protezione e l’affetto di una figura maschile. Egli si convinse d’averla incontrata in Willie-Jay, compagno di carcere in una delle sue numerose detenzioni:
“Se uno voleva [come Perry] essere considerato un duro, far amicizia con Willie-Jay era sconsigliabile. Willie-Jay faceva da assistente al cappellano… La sua voce da tenore era l’orgoglio del coro del carcere. Perfino Perry, per quanto disprezzasse qualsiasi dimostrazione di religiosità, si sentiva “rimescolare” quando udiva Willie-Jay cantare il Paternoster” [II, 2, pag. 487]
Ispirato dall’amico, Perry disegnò un Gesù Cristo e rivelò, in quest’opera, abilità tecnica e intensità di sentimento, tanto che il cappellano del carcere affisse tale immagine a una parete del suo studio. Tuttavia “Perry… giudicò quel suo Gesù “un lavoro ipocrita”, un tentativo di “prendere in giro e ingannare” Willie-Jay, dato che lui era più che mai scettico nei confronti di Dio” [II, 2, pag. 488]
Nel suo anelito, pur contrastato e represso, verso la religione, e nel fascino su di lui esercitato dal pio Willie-Jay, si può ravvisare, in Perry, un intenso desiderio d’entrare in contatto con una figura paterna idealizzata. Tuttavia ciò si scontrava con il “duro”, sprezzante di ogni forma di religiosità e di sentimentalismo, che egli voleva essere. Esiste, in quest’uomo, un conflitto ancora aperto tra la tendenza a fondersi con un oggetto arcaico idealizzato (forse, all’origine, la madre e successivamente il padre, che egli voleva ritrovare) e, in rapporto alla frustrazione traumatica di tale bisogno, un ripiegamento difensivo su di un’immagine di sé cinica e spietata. Nel Riccardo III che c’è in Perry, il “gentleman”, che avrebbe potuto realizzarsi solo grazie all’appoggio paterno, cede il posto al “villain”, a seguito dell’abbandono da parte del genitore. La mobilitazione di un Sé grandioso anomalo, responsabile dei suoi crimini, è quindi, in Perry Smith, a carattere reattivo [I, 11, pag. 137 – pag. 163].
In Donato Bilancia, viceversa, è in primo piano fin dall’inizio un Sé grandioso frustrato nel suo bisogno di ricevere appoggio e conferma. Gli episodi che segnarono il fallimento dei suoi sforzi di sanare tale ferita narcisistica sono l’abbandono da parte dell’unica donna che egli aveva amato (da cui egli, probabilmente, sperava di ricevere quelle cure femminili-materne che gli erano mancate) e soprattutto la tragica fine del nipotino:
“L’omicidio-suicidio del fratello col nipotino (attuato nel 1982, gettandosi sotto un treno) gli suscitò una profonda angoscia, non priva di venature colpevoli, e rancore e disprezzo verso la cognata, descritta come gelida e indifferente all’avvenimento. Fu, questo, un evento cruciale nella sua storia: la comunicazione del fatto datagli quasi casualmente, la prima notizia ai genitori che toccò a lui dare, il riconoscimento delle salme che toccò pure a lui; tutto questo è rievocato con angoscia e senso di dolore intollerabile e alimentò il sentimento di scacco, di ferita e, tramite l’identificazione col bimbo, il vissuto di abbandono e di cocente perdita d’affetto, fino alla morte” [I, 17, pag. 7].
Col piccolo, Donato Bilancia si era identificato e, prendendosi cura di lui, egli sperava di sanare anche le ferite di cui soffriva il suo Sé bambino. Un primo scacco dei suoi sforzi riparativi si verificò quando il fratello gl’impedì d’aver voce in capitolo nell’educazione del nipote. Un secondo, ben più grave scacco fu la morte del piccolo. Identificatosi col bimbo, tale evento gli rinnovava “il vissuto di abbandono e di perdita d’affetto, fino alla morte” ed il rancore verso una figura materna “gelida e indifferente”.
Falliti tali autentici sforzi riparativi, a Bilancia non rimaneva altra risorsa che continuare a sostenere il suo Sé grandioso ipertrofizzando il proprio orgoglio di ladro “gentiluomo” e di “uomo di mondo”. Egli lottava contro la presa di coscienza del vuoto e della perdita di autostima che sarebbe sopraggiunta se fossero mancate le continue manifestazioni, nelle parole e nei fatti, di un Sé straordinario e “infallibile” [I, 11, pag. 163]. Tali atteggiamenti, grandiosi e insieme trasgressivi, rappresentavano una difesa, nel complesso, debole: sentimenti d’insufficienza, di ferita narcisistica, con i vissuti di bisogno impotente di risarcimento e di vendetta, erano sempre in agguato e pronti a manifestarsi alla prima contrarietà. La perdita antica che Donato aveva subìto, data l’importanza del rapporto infantile, è sempre vissuta come insanabile e grandiosa e, quanto più è tale, tanto più rimpicciolito e azzerato è il Sé. Se la difesa espansiva-megalomanica fallisce, si manifestano istanze di risarcimento eccezionali; nel suo caso, eccezionalmente criminali [I, 17, pag. 14]. Sommandosi gli effetti delle offese subìte nel corso degli anni, tali pretese di risarcimento e di vendetta s’intensificarono, fino a raggiungere il punto in cui la soddisfazione trovata nell’intrusione ladresca nell’intimità altrui si trasformò in quella dell’intrusione nella vita fisica altrui [I, 17, pag. 8]. L’annullamento totale di ogni considerazione dell’altro rappresentò, per lui, il risarcimento estremo.
-Il ruolo del padre La figura paterna, nei due casi qui considerati, svolge un ruolo fondamentale nell’organizzazione di tipo criminale della loro personalità. Lo vediamo chiaramente negli ultimi giorni di Perry Smith. Egli cercava di morire di fame per sfuggire all’ignominia dell’impiccagione. Un giorno ricevette una lettera dal padre che dimostrava la solita, gelida indifferenza nei suoi confronti:
“quelle poche banali parole avevano resuscitato i suoi sentimenti, risvegliato amore e odio, e gli avevano ricordato che era ancora quello che aveva cercato di non essere vivo. “E allora decisi – racconterà – di restare in vita. Tutti quelli che volevano togliermi la vita non avrebbero più potuto contare sulla mia collaborazione”…” [II, 2, pag. 809]
L’aver ritrovato l’antico nemico con cui lottare lo induce ad indirizzare su di lui la propria aggressività ed a distoglierla da sé, a “parteggiare” per se stesso. Il genitore è ritenuto responsabile di tutte le frustrazioni e mortificazioni subìte da Perry:
“che uomo che sarei potuto essere! Ma quel bastardo non mi ha mai offerto la possibilità di diventarlo. Non mi ha mai mandato a scuola” [II, 2, pag. 652].
L’esistenza del padre consente di deflettere su di lui, al di fuori di sé, la propria aggressività distruttiva; aspetto, questo, fondamentale nell’organizzazione della personalità di tipo criminale, e non solo in questa. Consente anche di spostare sulla figura del genitore l’aggressività originatasi nel rapporto duale con la madre: rapporto pericoloso, in quanto suscettibile di una regressione ad una relazione fusionale, in cui l’aggressività verrebbe rivolta su di sé. Lo vediamo chiaramente in un episodio della vita di Donato Bilancia:
“Fino a 11 anni sofferse di enuresi ed egli, con amarezza e risentimento, riporta come il padre non seppe mai far altro che deriderlo e rimproverarlo, aumentando la sua umiliazione, senza mai farlo vedere da un medico [pur essendo, nel suo lavoro, circondato da medici]. L’esposizione nel ballatoio dei materassi umidi, fatta dalla madre, faceva diventare più cocente il suo senso di umiliazione” [I, 17, pag. 6]
L’enuresi è un fenomeno regressivo, riconducibile, qui, al desiderio nostalgico delle cure materne della prima infanzia. L’indelicatezza e l’insensibilità della genitrice riproponevano ancora una volta la brutale frustrazione, da parte sua, del bisogno di tenerezza di Donato. Tuttavia, il risentimento del futuro assassino si rivolge soprattutto al padre, mentre il ruolo materno viene presentato come del tutto secondario.
Anche Perry Smith soffrì di enuresi nell’infanzia, tuttavia il ruolo del padre, nel fronteggiare la risposta aggressiva all’incomprensione, è in lui differente:
“…aveva sette anni ed era un ragazzino mezzosangue, odiato e pieno di odio, ospite di un orfanotrofio in California gestito da suore. Le monache erano severissime e lo frustavano quando bagnava il letto. Era stato in seguito a una di quelle punizioni… che era apparso quel pappagallo [un’immagine ricorrente nei suoi sogni]. Era arrivato mentre lui dormiva: un uccello più alto di Gesù, giallo come un girasole… aveva accecato le suore, ne aveva divorato gli occhi…poi aveva dolcemente sollevato Perry e, tenendolo stretto, aveva spiegato le ali e lo aveva portato in paradiso” [II, 2, pag. 546]
L’enorme “uccello giallo” è un simbolo maschile-paterno. Si tratta di una figura di padre protettiva ed alleata, scissa da quella persecutoria. Qui la sofferenza e l’aggressività prodotte dalla brutale incomprensione delle suore (sostituti materni) vengono lenite da un padre salvatore e, nello stesso tempo, complice, su cui Perry può proiettare le proprie tendenze vendicative e violente. Perry Smith, pur condividendo con Donato Bilancia l’ambivalenza dei sentimenti verso il genitore, tuttavia amava il padre di più e in un modo più manifesto dell’altro. La sua ricerca di una figura maschile-paterna oscillava tra quella di un “redentore” (Willie-Jay), quella di un complice (Dick) e quella di una persona da uccidere (Herbert Clutter), ciascuno capace di preservarlo dall’aggressività verso la madre e verso se stesso. In tale ruolo, l’enorme “pappagallo giallo” compare, nei sogni di Perry, fino alla fine della sua vita. Negli ultimi giorni di detenzione prima dell’esecuzione capitale, egli immaginava che il suicidio potesse essere un mezzo d’evasione:
“Una notte sognò che… con i frammenti di vetro [della lampadina della cella] si era tagliato i polsi”. Così descrive il sogno:“Sentivo il fiato e la luce abbandonarmi… le pareti della cella crollarono, il cielo si abbassò e vidi il grande uccello giallo…” che veniva in suo soccorso e lo portava via. [II, 2, pag. 746].
-La madre arcaica Il coinvolgimento della figura paterna consente un  ridimensionamento della dipendenza dalla madre e lo spostamento dell’aggressività a lei diretta. Tuttavia l’influenza del rapporto precoce con la genitrice rimane, per alcuni aspetti, inalterata. In Donato Bilancia, l’aggressività profonda verso la madre rappresenta la matrice, oltre che del furto e dell’omicidio, anche del gambling. Lo scopo inconsapevole, qui, è “controllare e garantirsi il rapporto antico” [I, 17, pag. 14, 15]. Il gioco d’azzardo, infatti, rappresenta una sfida alla “dea bendata”, ossia ad un’imago arcaica onnipotente, bizzarra, imprevedibile e incontrollabile. Essa corrisponde all’esperienza, vissuta dal bambino, di una madre priva di sintonia nei confronti dei suoi bisogni. Al di fuori del gioco, questa entità superiore incombeva su Bilancia, decretandone il “destino”. Di qui, la sua “idea prevalente d’essere fatalmente condannato ad essere un solitario, con l’ineluttabile fallimento di ogni rapporto stretto ed il prevalere di rapporti deteriorati, svalutati e passeggeri” [I, 17, pag. 4]. Il gioco, oltre che offrirgli “il piacere del rischio, la bramosia dell’azzardo, la soddisfazione intensa della vincita”, rappresentava per lui “un mezzo di socializzazione, tramite la creazione di legami d’intesa e solidarietà apparente. Anziché giocare poteva, indifferentemente, portare a pranzo uno sconosciuto” La sua “vita sociale forzosa, che lo portava ad essere prodigo” era, per Bilancia, un altro modo per sfidare la “sorte”, che lo voleva condannato all’abbandono e alla solitudine [I, 17, pag. 7].
La soggezione ad un’entità superiore, onnipotente e incontrollabile, erede dell’essere completamente “nelle mani” di una madre arcaica non empatica, domina nella vita sia di Donato Bilancia, sia di Perry Smith. Tuttavia, mentre il primo cerca in tutti i modi di sfidarla, Perry si arrende completamente al suo potere:
“Il superstizioso coatto è anche molto spesso un fermo credente nel destino… Perry si era imbarcato in quell’impresa [il crimine nei confronti dei Clutter], non perché lo desiderasse, ma perché il fato aveva così predisposto” [II, 2, pag. 486]
“Quando ricevette l’invito di Dick [a partecipare al progetto criminale] e si accorse che la data proposta per la sua venuta nel Kansas coincideva più o meno con il giorno del rilascio di Willie-Jay, Perry capì subito quel che doveva fare… si sarebbe affidato al destino: qualora non si fosse messo d’accordo con Willie-Jay, ebbene, avrebbe anche potuto prendere in considerazione la proposta di Dick (…) Quando il pullman di Perry arrivò a Kansas City, Willie-Jay, che lui non aveva potuto avvertire, era già partito… Il reverendo Post [il cappellano del carcere, interpellato telefonicamente] lo scoraggiò, rifiutando di rivelargli l’esatta destinazione del suo assistente. Perry, appena riagganciato, si era sentito stordito dalla rabbia e dalla delusione” [II, 2, pag. 491]
Perry si sente completamente impotente, in balìa di una forza oscura che lo sovrasta. “Affidarsi” passivamente ad essa è, per lui, l’unica scelta possibile. In questo momento cruciale della sua storia, il mancato incontro con Willie-Jay gli ripropone, nel presente, l’antico abbandono da parte dell’oggetto idealizzato ed il suo ripiegare su condotte trasgressive, come se ciò rappresentasse una necessità “fatale”.
-La dipendenza patologica Un’altra eredità del rapporto con la madre arcaica è la dipendenza patologica. Aspetti di tipo “addictive” sono presenti in Bilancia: il gioco e soprattutto il fumo, da cui tentò di liberarsi senza mai riuscirvi, pur essendo a grave rischio per la patologia della laringe di cui soffriva [I, 17, pag. 10]. Quest’ultimo tipo di dipendenza rappresenta uno dei fallimenti dello sforzo di deflettere all’esterno la distruttività, una défaillance dell’organizzazione criminale nella personalità del “mostro della Liguria”. Tuttavia, anche lo stesso crimine costituisce un possibile oggetto di dipendenza.
Ogni addiction è frutto dell’impossibilità di elaborare mentalmente le tensioni emotive. La regolazione di esse (stimolazione o contenimento) è, perciò affidata ad un rapporto, o un’attività, o un oggetto del mondo esterno, di cui l’individuo diviene schiavo. L’origine di tale incapacità d’elaborazione mentale autonoma è riconducibile ad un’inadeguatezza delle prime cure materne. È nel corso di queste, infatti, che prendono forma gli “avvolgimenti” [enveloppements] psichici primari da cui dipende l’unità psicosomatica dell’individuo [I, 2, pag. 1084]. A seguito della mancata formazione (o dello smantellamento traumatico) di tali avvolgimenti, l’unità psico-fisica va perduta: la mente cessa d’essere il contenitore del corpo e delle pulsioni che da esso originano. Alcune di queste, non integrate nel Sé, costituiscono aspetti della vita soggettiva non mentalizzabili, o imperfettamente mentalizzabili; essi, quindi, devono trovare una loro collocazione, parziale o totale, nel mondo esterno.
In Donato Bilancia, gli effetti delle varie edizioni dell’esperienza di umiliazione, sommandosi, raggiungono la soglia d’intollerabilità, e ciò scatena l’omicidio. In lui:
“L’acting omicida è dovuto all’intensificarsi ed all’emergere di fantasie distruttive infantili ed adolescenziali (fantasie polimorfe e confuse, che vanno dalla vendetta pura al comportamento sessuale sadico). Si tratta di entità “insature” che, per saturarsi, necessitano del passaggio dal mondo fantastico a quello reale” [I, 17, pag. 12].
In Perry Smith, se si considera il suo passato di bambino abbandonato, l’assassinio dei Clutter potrebbe essere riconducibile ad un attacco invidioso nei confronti di una famiglia coesa. Tuttavia, sia nello stile di vita precedente gli omicidi, sia in quanto egli rivela della sua esperienza soggettiva, non ci sono tracce di fantasie distruttive in cui trovi spazio una tendenza di questo genere.
Nell’uno e nell’altro, gli acting omicidi sono frutto di due tipi distinti di défaillance dei processi rappresentativi. Nel caso di Bilancia prevale il “passaggio all’atto” a partire da fantasie insature animate da istanze distruttive. Esse riescono a contenere solo in modo imperfetto tali aspetti della vita soggettiva e questi devono tradursi in gesti reali. Nel caso di Smith, viceversa, prevale il “ricorso all’atto”. Qui l’azione delittuosa prende il posto della scena fantasmatica, per l’impossibilità totale della mente di elaborarla e contenerla. In entrambi, l’acting omicida ha un effetto sedativo simile all’assunzione di droghe. Si tratta di una forma di dipendenza che segue il modello dell’addiction tossicomanica o bulimica [I, 2, pag. 1090]. Di tale dipendenza Bilancia fu preda nel corso dei sei mesi in cui commise 17 omicidi e Smith ne soggiacque in una singola, tragica occasione.
-Uccidere o morire Pure riconducibile, in ultima analisi, ad una défaillance delle prime cure materne è l’alternativa angosciosa tra uccidere o morire che troviamo in entrambi i personaggi. In Donato Bilancia:
“…l’attivo e il passivo, l’extrapunitivo e l’intrapunitivo, l’omicidio e il suicidio (l’altra parte di lui “incarnatasi” nel fratello) sono profondamente e strettamente embricati. La sua affermazione, a questo proposito, è “un uomo come me deve morire, e prima o poi lo farò, quando riuscirò a superare, o troverò il modo di evitare il dolore fisico, che mi terrorizza, perfino una puntura”. Il senso di morte lo insegue, in tutte le tappe del suo percorso, caratterizza tutta la sua vita; è il suo segno distintivo, il suo marchio, che dà il via ad ogni avvenimento tragico della sua vita” [I, 17, pag. 15, 16].
In lui troviamo un costante sforzo di “rovesciare la pressione della pulsione di morte, per cui l’angoscia di morire per la lesione narcisistica arcaica si trasforma in angosciosa esigenza d’uccidere” [I, 17, pag. 14]
Anche in Perry Smith l’impossibilità di sanare la lesione narcisistica arcaica, tramite un ritorno nostalgico al passato, si trasforma in angoscia di morte. Lo vediamo chiaramente in un episodio degli ultimi giorni della sua vita. I canti di Natale gli suscitano una viva commozione, ed egli pensa al suicidio. È per lui struggente e insopportabile il ricordo del Natale come forse era stato (o come avrebbe potuto essere) nella sua infanzia più remota. Tale festività rappresenta la celebrazione della nascita e dei bambini, l’occasione in cui i piccoli vedono riproporsi l’illusione primaria di veder magicamente comparire i doni desiderati, ossia un transitorio, pieno recupero narcisistico [Gr]. Questo ricordo gli suscita soltanto tristi pensieri:
“Fin dall’infanzia la prospettiva di porre fine alla propria vita, nata come semplice fantasticheria era giunta ad apparirgli non già come una semplice alternativa, bensì come l'ineluttabile morte in serbo per lui (…) non riusciva a vedere grandi cose per cui vivere. Isole tropicali e tesori sepolti [le fantasticherie che avevano animato la sua vita] quei sogni erano ormai svaniti” [II, 2, pag. 673]
Secondo Freud “Lo sviluppo dell’Io consiste nel prendere le distanze dal narcisismo primario e dà luogo ad un intenso sforzo inteso a recuperarlo” [Citato in I, 15, pag. 61]. In condizioni sane, un parziale recupero del completo appagamento narcisistico intrauterino è possibile grazie alle prime cure materne, che provvedono a riconciliare il neonato con la vita. Le cure parentali, inoltre, forniscono al piccolo quel “equipaggiamento interiore” che gli consentirà di trarre, dalla propria successiva esistenza, ulteriori gratificazioni. Quando, con la vecchiaia, le possibilità di appagamento (biologiche, psicologiche, sociali) si esauriscono, l’unica forma di recupero narcisistico che rimane è il ritorno ad una condizione anteriore alla vita, ossia il ricongiungersi al grembo della “madre terra” che accoglie le nostre spoglie:
                    Quand notre cœur a fait une fois sa vendange,
Vivre est un mal ! C’est un secret de tous connu [II, 1, pag. 72]
La stessa forza (ossia la tensione verso un totale recupero narcisistico) che spinge a vivere porta, alla fine, ad accettare o a cercare la fine della vita. Per questo motivo, un’analista recente ha formulato l’ipotesi, apparentemente paradossale, che la pulsione di autoconservazione coincida con la pulsione di morte [I, 18].
Sia Perry Smith, sia Donato Bilancia furono ben poco riconciliati con la vita dalle prime cure materne. Fin dall’inizio della loro esistenza, un totale recupero narcisistico poteva essere rappresentato soltanto dalla morte. Potevano lottare contro tale desiderio solo contrapponendo ad esso fantasticherie grandiose (i “tesori sepolti” di Perry Smith, la “vita mondana” di Donato Bilancia), oppure prendendosi con la violenza ciò che la vita aveva loro negato, ossia ricorrendo ad imprese criminali. Difendere il proprio diritto a vivere sopprimendo quello altrui rappresentò, per loro, la risorsa estrema.
-Gli altri e i sentimenti di colpa La necessità di deflettere all’esterno le proprie tendenze distruttive, l’esigenza di rovesciare la pressione della pulsione di morte, il bisogno imperioso di vendetta e di risarcimento a seguito dell’antica ferita narcisistica: tutto questo porta i criminali come Perry Smith e Donato Bilancia a dover fare i conti con l’esistenza degli altri e con i sentimenti di colpa che i danni a loro arrecati potrebbero suscitare. Che gli altri siano propri “simili” deve essere ignorato o negato. In Donato Bilancia è evidente, a questo proposito, una forte limitazione della sua capacità di comprensione empatica:
“L’importanza assegnata alle esigenze interiori e alla stessa esistenza degli altri e la risonanza alle emozioni altrui sono molto limitate. Gli altri non contano se non come personaggi della scena interiore che rientrano nel copione già scritto dentro e, come tali, possono essere considerati e risparmiati, oppure non essere oggetto di alcuna pietà o comprensione” [I, 17, pag. 14]
Prevale, in quest’uomo, un’esigenza di dominio e controllo sulle persone con cui ha a che fare, in modo da asservirle alle proprie esigenze interiori. In parte, egli lo ottiene tramite la manipolazione e la seduzione:
“Esiste, in Bilancia, un paradossale bisogno d’approvazione continua, incondizionata, totale, non critica. Nel contempo, l’importanza dell’altro come essere autonomo è negata, con un atteggiamento pseudo-indipendente. Il bisogno d’approvazione non tollera frustrazioni (per la legge del tutto o nulla); esso coesiste con l’angoscia dell’intimità. Ogni comportamento ha lo scopo di ottenere approvazione evitando l’intimità: il pagare o prestare denaro, il giocare grosse somme creano legami stretti, ma non intimi. L’illusione del potere e del controllo onnipotente è causata dall’angoscia della situazione fuori controllo e senza speranza. L’altra illusione è di un sé onnipotente, che evita sempre d’essere ferito, umiliato (e, se questo avviene, le rappresaglie sono immense) e soprattutto libero dalla colpa” [I, 17, pag. 14]
La tendenza ad esercitare lo stesso, totale controllo tramite la violenza è evidente nei suoi omicidi, soprattutto quelli commessi sui treni. Freud riconduce tale pulsione di dominio (“Bemächtigungstrieb”) alla crudeltà infantile. Il suo scopo non è la sofferenza altrui, ma la sua negazione: il bambino ignora la sofferenza provocata, ignorando del tutto l’alterità [I, 3]; facilitato, in questo, dall’attivazione tardiva (dopo i tre anni) della funzione della “teoria della mente” che consente di formulare ipotesi su ciò che avviene nel mondo interno altrui [I, 16, pag. 60]. Possiamo, quindi, pensare che, in Bilancia, esista una regressione (e/o una fissazione) a tale fase precoce.
Più faticosa e sofferta è la lotta, contro la considerazione degli altri ed i sentimenti di colpa, che avviene in Perry Smith. Una vera e propria afflizione è evidente nei particolari agghiaccianti dei crimini commessi, che emergono dalla sua memoria involontaria:
“Aveva accessi di sbigottimento, c’erano momenti in cui ricordava, suo malgrado, certe cose: una luce azzurrina che esplode in una stanza buia [l’esplosione dei colpi di pistola], gli occhi di vetro di un orsacchiotto [il giocattolo della ragazzina assassinata]; momenti in cui alcune voci cominciavano ad assillargli la mente: “Oh no! Vi prego! Non fatelo!” [le parole della Signora Clutter prima d’essere uccisa]. E tornavano certi rumori: un dollaro d’argento che rotola sul pavimento, passi per una scala di legno, e il respiro, i rantoli, l’ansimare frenetico di un uomo con la trachea recisa [gli ultimi momenti del Signor Clutter]. Quando disse [a Dick]: “Secondo me, deve esserci qualcosa di sbagliato in noi due”, Perry stava facendo un’ammissione che detestava fare. Dopotutto era doloroso pensare di non essere del tutto regolare, specie qualora ciò che andava storto fosse non già una tua colpa, bensì qualcosa con cui si è nati”. Egli allude, qui, (e ne parla subito dopo) alla famiglia d’origine: alla madre “alcolizzata, morta soffocata dal proprio vomito”, e ai due fratelli morti suicidi: “Jimmy, il maggiore [che] aveva spinto sua moglie al suicidio e il giorno dopo si era ucciso”, e Fern, la sorella prediletta, che “si era buttata dalla finestra di un albergo a San Francisco” [II, 2, pag. 567]
Ammettere i pur evidenti sentimenti di colpa è, per Perry, cosa detestabile: è troppo forte, in lui, il dolore antico, originario, di una ferita narcisistica, subìta del tutto passivamente, legata al rapporto arcaico con una madre distruttiva e autodistruttiva che non ha amato i propri figli. C’è, in lui, il sentimento di un enorme danno subito, non per colpa sua, e mai risarcito. Come possono, il mondo e la sua coscienza morale, pretendere che egli si preoccupi dei danni subiti dagli altri, quando nessuno si è mai preoccupato di quelli subiti da lui? Questo sentimento di inaccettabilità della colpa è reso ancora più intenso dal fallimento dei suoi sforzi riparativi nei confronti della sorella Fern, l’unica tra i familiari che egli abbia amato, e morta suicida. La lotta contro i sentimenti di colpa crea, in Perry, l’illusione di averli completamente soppressi. Dice all’amico, venuto a fargli visita in prigione:
“…no, non sono pentito. Non provo nulla. Vorrei tanto! Ma non c’è niente che mi rimorda (…) Forse siamo disumani. Io sono abbastanza umano da provare dolore per me stesso. Mi dispiace di non poter uscire di qui quando tu te ne andrai. Ma nient’altro (…) ho conosciuto i Clutter appena per un’ora circa. Se li avessi conosciuti veramente forse sarebbe diverso,  forse non riuscirei a continuare a vivere. Ma così com’è andata, è stato come colpire bersagli al tirassegno” [II, 2, pag. 774, 775]
Anche qui Perry contrappone, al dispiacere per il danno inferto agli altri, il dolore ancora più grande per se stesso. Sopprime ogni preoccupazione per le sue vittime negando la loro qualità di esseri umani, come fossero semplici “bersagli di tirassegno”, ossia “de-oggettualizzandole” [I, 2, pag. 1087]; operazione, questa, resa più facile dal fatto di non conoscerle da vicino.
-Crimine e malattia Nei due casi qui considerati, sono evidenti alcuni segni di sofferenza che rappresentano altrettante défaillances nell’organizzazione criminale della loro personalità. Un aspetto ossessivo, comune sia a Perry Smith sia a Donato Bilancia, è la convinzione superstiziosa riguardo ad un loro “destino” ineluttabile di solitudine e di morte. In entrambi, la deflessione all’esterno dell’aggressività è imperfetta: Perry non riesce a risparmiarsi, se non con grande fatica, il tormento interiore per i suoi gesti criminosi; Bilancia, preciso e implacabile in altri omicidi, si ferma, o agisce in modo imperfetto, di fronte a personaggi che rappresentano parti del suo mondo interno che egli vuole preservare: il transessuale Lorena (la parte di sé con difetto d’identità e identificata con la madre), e la prostituta che si appellò al bisogno del suo piccolo di non essere privato della mamma (la diade madre-bambino interiorizzata) e che egli risparmiò [I, 17, pag. 15]. D’altra parte, la stessa efferatezza dei loro crimini è significativa di una perdita del senso del limite e del pericolo (altri rapinatori, per esempio, evitano quando possibile d’uccidere, per non andare incontro a sanzioni penali più pesanti), il che attesta un inadeguato controllo dell’Io sulle azioni, e un’insufficiente funzione protettiva del Superio. Particolare rilievo ha, poi, la patologia del narcisismo comune a entrambi. In Perry Smith, l’attivazione reattiva di un Sé grandioso criminale è incompleta: permane, in lui, il bisogno di un oggetto-sé idealizzato e soccorrevole; egli lo cerca affidandosi al caso, come fosse un neonato che lancia i suoi vagiti (e le sue richieste d’aiuto) “al vento”, nell’attesa che qualcuno li raccolga. In Donato Bilancia, le esigenze del Sé grandioso esibizionistico prevalgono sulla prudenza. Il suo bisogno centrale è d’essere “qualcuno”, se non un uomo di mondo ammirato da tutti, almeno un grande criminale temuto da tutti; e questo per sfuggire al timore d’essere “nessuno”, un individuo costantemente tradito e malvoluto [I, 17, pag. 10]. È, probabilmente questo il motivo per cui, nel corso dei suoi delitti, lascia alcune tracce: l’uso della stessa arma da fuoco, l’impiego di un’autovettura presa in prova e non restituita; tracce che porteranno gl’investigatori ad individuarlo. Se i suoi delitti fossero stati attribuiti ad un anonimo serial killer, il suo bisogno d’emergere e di esibirsi non sarebbe stato appagato.
Per inciso, è probabile che le suddette imperfezioni appartengano soprattutto ai criminali che agiscono individualmente. Coloro che, viceversa, fanno parte di un’organizzazione criminale dispongono di risorse che rendono più solido il loro assetto interiore. Come in tutti i raggruppamenti umani, anche in un’associazione a delinquere il leader (il “boss”) si costituisce come ideale dell’Io e prende il posto del Superio; parallelamente, si costituisce anche un legame affettivo, per la comune condizione, fra i membri del clan [F]. Ciò “legittima”, in ciascuno, le istanze distruttive e, nel contempo, le argina entro limiti più realistici e razionali.
Tra i criminali “imperfetti” e i pazienti psichiatrici (passando attraverso i malati di mente con tendenze delinquenziali) esiste tutto uno spettro di situazioni intermedie tra le quali non esiste soluzione di continuità. Ciò coinvolge gran parte della patologia psichiatrica. Tra i fattori psicopatologici che influiscono sull’equilibrio pulsionale, quelli maggiormente coinvolti nella dimensione aggressiva impulsiva sono i Disturbi psicorganici, il Disturbo Bipolare (negli stati maniacali o negli stati misti) e la Schizofrenia. In queste condizioni patologiche, qualora si venga a creare una situazione emotiva, il controllo pulsionale risulta precario [I, 15, pag. 67]. Ad essi, si aggiungono altre affezioni in cui l’aggressività distruttiva può essere in primo piano:  i Disturbi dello spettro autistico (soprattutto nel caso di cambiamenti di ambiente ed abitudini), i Disturbi del controllo degli impulsi (in particolare il Disturbo Esplosivo intermittente), I Disturbi legati all’uso di sostanze (sia per l’effetto dell’intossicazione, sia per quello dell’astinenza) e i Disturbi di Personalità (in particolare quelli del Cluster B, caratterizzati da disregolazione emotiva) [I, 1, pag. 3, 4]. Il carattere, per lo più, impulsivo e disorganizzato delle manifestazioni aggressive di queste affezioni e la presenza di altri aspetti psicopatologici, rendono meno evidente quella stessa distruttività primitiva che troviamo allo stato puro in Perry Smith e Donato Bilancia. Nondimeno, tale forma di aggressività riconosce un’origine simile a quella dei due criminali ed è altrettanto difficile da comprendere.
 
IV – Difficoltà di comprensione e trattamento
La difficoltà a capire è il primo ostacolo che s’incontra quando si considerano le tendenze omicide; ostacolo che, se non superato, rende ovviamente impossibile qualsiasi trattamento curativo. L’esistenza di simili attitudini, in altri o in noi stessi, è, per i più, inaccettabile, soprattutto se si tratta di forme di violenza fine a se stessa. Solo persone eccezionali riescono, a tale proposito, a cogliere acutamente la verità nel proprio mondo interno senza cadere nella depressione (o indulgere a condotte criminali) [I, 4, pag. 106]. In tutti gli altri esseri “normali”, le forme primitive d’aggressività vengono fortemente rimosse, oppure espulse dalla mente. Esiste, in quasi tutti, una contrapposizione (cui non si sottraggono neppure gli studiosi e i terapeuti) tra i sostenitori della “comprensione” e quelli della “punizione”; come se comprendere empaticamente l’assassino e prendere misure rigorose nei suoi confronti fossero due cose tra loro inconciliabili. I fautori della giustificazione e quelli della condanna degli atti delinquenziali proiettano entrambi le proprie tendenze omicide sull’assassino. I primi appagano i propri desideri “per procura” nella persona del delinquente e gli sono, in un certo senso, grati perché egli, uccidendo, ha consentito loro di non farlo (è l’intuizione formidabile di Dostoewskij quando, nei Karamazov, fa inginocchiare padre Zosima di fronte al parricida Mitja [II, 3 – I, 7]); è naturale, quindi, che costoro assumano, verso il criminale, un atteggiamento eccessivamente indulgente. Al contrario, i sostenitori della condanna e della punizione, scindendo dalla propria mente le proprie tendenze omicide e proiettandole sull’assassino, cercano di annientare, con lui, questa parte di se stessi, nell’illusione che essa non esista e non sia mai esistita. Essi, pertanto, saranno fautori intransigenti dell’espulsione definitiva dalla società civile o della pena di morte per chi ha ucciso.
Troviamo un esempio di quest’ultimo atteggiamento in Dewey, l’ispettore di polizia che dirigeva le indagini che portarono all’arresto di Perry Smith e del suo complice. Egli fece amicizia con Truman Capote, e gli confidò un suo sogno. In esso, egli vede Herbert Clutter ricomparso vivo in un ristorante e, accanto a lui, ci sono i suoi due assassini. “Ma i due subito si accorsero d’essere stati riconosciuti. Fiutato il pericolo, se la diedero a gambe, saltando fuori dalla finestra”. Dewey cerca di raggiungere i malviventi, finché inseguiti e inseguitore si trovano in un cimitero. “Dewey è solo con quegli uomini braccati. Sebbene non riesca a vederli, è certo che stanno nascosti tra i morti… acquattati là, dietro una lapide… forse proprio quella di suo padre “Qui giace Alvin Adams Dewey”… udendo delle risate, e dirigendosi là dove provengono, si accorge che Hickock e Smith non stavano affatto nascosti, bensì eccoli là sopra la fossa” [di Clutter] “a ridere, ridere… Dewey fa fuoco… e poi ancora… e poi ancora. Nessuno dei due cade sebbene entrambi siano stati colpiti al cuore… solo, si sono fatti trasparenti… a poco a poco dileguano nell’aria… ora sono invisibili ma la loro risata seguita a risuonare, sempre più fragorosa… finché Dewey esasperato s’allontana di là, si mette a correre in preda a una disperazione così intensa da svegliarlo” [II, 2, pag. 665, 666]
Gli assassini Perry e Dick, accostati alla tomba del padre di famiglia Clutter e a quella del genero dello stesso Dewey, si rivelano come la personificazione delle tendenze parricide del poliziotto. Egli cerca disperatamente di fermarle e di sopprimerle, ma ciò non è possibile: dapprima invulnerabili, i due delinquenti divengono invisibili, pur continuando a far sentire la loro voce. Ciò significa che i suoi desideri parricidi non possono essere annientati come oggetti esterni. Essi, rientrati dalla proiezione (divenuti non più percepibili ai suoi occhi), si rivelano come parti di lui stesso e, come tali, permarranno finché lui resterà in vita. Dal suo mondo interno, questa parte “indemoniata” di Dewey continua a far sentire la sua risata beffarda, diretta ai suoi vani tentativi di annientarla. Questo riconoscimento simbolico del fatto che le tendenze parricide gli appartengono suscita in Dewey un’angoscia insopportabile, ed egli si sveglia.
L'espulsione dalla sua mente della propria violenza primitiva è talmente spinta, in Dewey, da impedirgli di capire la motivazione profonda del delitto. Egli riesce a provare una generica e superficiale comprensione per Perry, ma prevale il desiderio di annientare, con lui, le parti inaccettabili di se stesso:
“Quelle confessioni [di Perry e Dick], per quanto rispondessero alle domande “come?” e “perché?”, non soddisfacevano l'esigenza che egli aveva di scorgere un senso, un disegno in quanto era accaduto. Quel delitto era un incidente psicologico, un atto virtualmente impersonale, come se le vittime fossero state uccise da un fulmine (…)  riusciva a guardare senza rabbia l'uomo seduto al suo fianco, anzi, semmai con una certa comprensione, poiché la vita di Perry Smith non era stata certo rose e fiori… ma codesta comprensione non era tanto profonda da ammettere perdono o clemenza. Egli sperava di vedere Perry e il suo complice impiccati” [II, 2, pag. 725, 726].
Comprendere empaticamente la violenza primitiva, comune ai criminali ed a molti pazienti psichiatrici, non è cosa facile. Ciò significa saper vedere, nell’interlocutore, le proprie tendenze distruttive senza concedere, nel giudizio sulla gravità di esse, alcuno “sconto”. In Truman Capote, privo dello “equipaggiamento interiore” che solo un’analisi personale può fornire, l’esperienza di una prolungata immersione empatica nel mondo interno degli assassini produsse un intenso sconvolgimento che durò per il resto della sua vita.
Un primo quesito che si pone, affrontando il trattamento di tendenze distruttive primitive, è: com’è possibile “scommettere” sulla possibilità di trasformarle in forme d’aggressività socialmente accettabili, quando queste identiche inclinazioni arcaiche e irrazionali esistono nello stesso terapeuta? La risposta è che si richiede, nel curante, un sufficiente grado di equilibrio e di padronanza sulla propria vita interiore. L’esistenza in ciascuno, almeno in tracce, di una distruttività primitiva dipende dal fatto, ovvio, che a questo mondo “nulla è perfetto”. L’incontro di aspetti costituzionali fragili con inadeguatezze delle cure parentali, anche minime, produce in tutti quella stessa ferita narcisistica e quella stessa aggressività primitiva che troviamo, elevata al massimo grado, in criminali come Bilancia o Smith, e in molti pazienti psichiatrici. Tuttavia, nella mente della persona sana, esiste un congruo numero di strutture primarie intatte e di “strutture compensative”; queste, ben distinte da quelle “difensive” [I, 14, pag. 70 e seg.], consentono l’accesso alla coscienza delle tendenze inaccettabili e, nello stesso tempo, un sufficiente dominio su di esse da parte dell’Io.
Stabilito un rapporto empatico con i criminali (o con pazienti psichiatrici con tendenze criminali), risulta evidente che molti di loro si rivelano trattabili a scopo terapeutico. Scrive Romolo Rossi a proposito di Donato Bilancia:
“Lo psichiatra-analista, al di là dei compiti peritali, non può trattenersi dall’osservare che quest’uomo, altamente sofferente anche se responsabile, dovrebbe essere seguito con un adeguato intervento psicologico profondo, per poter alleviare la tensione angosciosa e la tragica trama interiore che ha sconvolto la sua vita e quella di tante altre persone” [I, 17, pag. 16]
Anche nei colloqui a scopo peritale, Bilancia dà chiari segni di una propensione ad una traslazione narcisistica verso un oggetto-sé rispecchiante (da cui trarre conferme e sostegni al suo Sé grandioso) che potrebbe essere utilizzata a scopo terapeutico. Una tendenziale traslazione narcisistica, nel suo caso di tipo idealizzante, è evidente anche in Perry Smith nella sua ricerca di un oggetto-sé idealizzato con cui fondersi e da cui acquisire buone qualità. In lui, purtroppo, tale potenzialità terapeutica non fu né riconosciuta, né utilizzata. In casi di criminali o di pazienti psichiatrici di questo genere, l’evoluzione del rapporto terapeutico può produrre la graduale trasformazione della matrice narcisistica dalla quale nasce la forma più primitiva di aggressività, ossia la “rabbia narcisistica”. Se essa riesce, l’aggressività nel settore narcisistico della personalità potrà essere impiegata al servizio delle ambizioni realistiche di un Sé solido e degli ideali di un Superio che è subentrato, nella sua funzione, all’oggetto arcaico onnipotente e ne è divenuto indipendente [I, 12, pag. 652].
Tuttavia, anche il più riuscito dei trattamenti ha i suoi limiti: nella mente, nulla si distrugge [I, 8]; ciò significa che, anche se è possibile favorire lo sviluppo, nell’area di “neutralizzazione progressiva”, di un livello di funzionamento mentale evoluto in cui l’Io sia autonomo da istanze narcisistiche distruttive [I, 10], esse nondimeno permangono inalterate nell’area “di traslazione” e nelle profondità della psiche. Di qui, la necessità da parte del paziente, ad analisi finita, di affrontare una residua propensione all’aggressività e alla violenza ogni volta che le sue attese narcisistiche siano frustrate [K, pag. 653]. Se il paziente è lasciato libero e responsabile di sé stesso, è sempre possibile che egli incontri, nella vita, situazioni di crisi in cui le strategie d’adattamento, acquisite con la cura, vengano sopraffatte [I, 1, pag. 3] e la sua distruttività si risvegli. È, perciò, inevitabile la prescrizione, al malato in dimissione, di un atteggiamento d’allerta riguardo alla possibilità d’essere sorpreso da un attacco di rabbia narcisistica. Ciò implica uno stato più vicino all’autonomia dell’Io che al pieno dominio di quest’istanza; imperfezione, questa, accettabile quando essa interessa solo un ristretto settore della psiche [I, 12, pag. 653 in nota], ma inammissibile quando l’area del “narcisismo maligno” è ampia ed il paziente è stato autore di numerosi delitti efferati. Che un alto grado di sublimazione e di autonomia dell’Io non escluda la pericolosità sociale è attestato dalle vicende di sommi Artisti come il Caravaggio: nel momento in cui, allontanandosi dai mecenati che lo ospitavano, rimaneva solo con se stesso, egli si rivelava delinquente abituale e, in un’occasione, commise un assassinio.
Se un pur riuscito trattamento analitico non esclude una futura pericolosità, ancor meno vantaggi offre un trattamento farmacologico. Negli studi sulle radici biologiche (genetiche, neurobiologiche, endocrine) dei comportamenti violenti., su cui si basa tale tipo di terapia, prevale una “impostazione riduzionistica”: si tratta di indagini che, di fatto, riguardano più l’impulsività che l’aggressività. La “cura” che ne deriva “assomiglia al trattamento di una malattia geneticamente determinata, con la sequenza di DNA ancora da definire, di cui si cerchi di arginare la sintomatologia” [I, 15, pag. 74, 75]. Tra i “sintomi” da sopprimere, finisce per essere inclusa anche la forma più sana dell’aggressività (quella su cui ogni individuo fonda l’affermazione di sé e l’adattamento) che riconosce una base neurobiologica, comune con la forma patologica e distruttiva, nell’attività del nucleo centrale dell’amigdala e di altre strutture sottocorticali [I, 1, pag. 5]. Un Caravaggio trattato farmacologicamente sarebbe diventato innocuo da un punto di vista sociale, ma completamente incapace di produrre Arte. La “camicia di forza” chimica dei farmaci, inoltre, non dà garanzie sufficienti di prevenzione dei crimini: la mente umana è molto flessibile e lo “zombie” in libertà, curato farmacologicamente, può sempre ritrovare una sua vitalità e, con essa, la possibilità di delinquere. Chi scrive ha esperienza di pazienti, da anni completamente spenti per l’assunzione di antipsicotici, che improvvisamente manifestavano impulsi aggressivi; in un caso, una paziente diede fuoco alla casa.
Da un punto di vista strettamente scientifico, la pericolosità sociale non è prevedibile: in uno studio condotto in Francia, le false predizioni di pericolosità (falsi positivi e falsi negativi) risultarono variare tra il 54 e il 99% [I, 2, pag. 1089]. Solo misure restrittive della libertà assicurano che il criminale (o il paziente criminale) sia messo nell’impossibilità di nuocere, e, nello stesso tempo, libero da carcerazioni chimiche, trovi spazio per attività creative o, comunque, gratificanti e socialmente utili; a condizione, naturalmente, che glie ne sia data la possibilità. La reclusione in carcere o in Ospedale Psichiatrico Giudiziario, la reperibilità GPS, l’assegnazione ai domiciliari, la schedatura: tutte queste condizioni rappresentano elementi che suppliscono alla défaillance originaria dei contenitori, o “avvolgimenti” (enveloppements) psichici primari. Qui il paziente criminale ritrova una forma di equilibrio: il pericolo è contenuto nello spazio di detenzione (in particolare, i pedofili in stato di detenzione non pongono problemi particolari); qui quest’uomo, protetto dalla sua stessa violenza, può dare il meglio di sé [I, 2, pag. 1092].
 
Bibliografia
I – Lavori scientifici
1.     Benarous X. – Guedj M. J. (2015) Sémiologie des conduites agressives (EMC – Psychiatrie 2015 ; 12 (4) : 1 – 6 [Article 37-114-A-50])
2.     Bessoles Philippe (2012) Récidive criminelle. Figures de l'emprise et criminalité (Revue Française de Psychanalyse Vol. 76, N° 4, pag. 1083)
3.     Freud Sigmund (1905) Tre saggi sulla teoria sessuale (O.S.F.  Vol. 4 – Boringhieri 1970)
4.     Freud Sigmund (1915) Lutto e melanconia (O.S.F. Vol. 8 – Boringhieri 1976)
5.     Freud Sigmund (1920) Al di là del principio di piacere (O.S.F. Vol. 9 – Boringhieri 1977)
6.     Freud Sigmund (1921) Psicologia delle masse e analisi dell'io (O.S.F. Vol. 9 – Boringhieri 1977)
7.     Freud Sigmund (1927) Dostoewskij e il parricidio (O.S.F. Vol.10 – Boringhieri  1978)
8.     Freud Sigmund (1929) Il disagio della civiltà (O.S.F. Vol.10 – Boringhieri  1978)
9.     Grunberger Bela (1975) “Le Narcissisme” (Payot)
10.  Kohut Heinz  – Seitz Philip F. D. (1963) Concepts and theories of  psychoanalysis (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut: 1950 – 1978 Vol. 1 International Universities Press 1978)
11.  Kohut Heinz (1971) Narcisismo e analisi del Sé (Boringhieri 1976)
12.  Kohut Heinz (1972) Thoughts on narcissism and narcissistic rage (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut 1950 – 1978 Vol. 2 – International Universities Press 1978)
13.  Kohut Heinz (1978) The disorders of the Self and their treatment: an outline (The search for the self. Selected writings of Heinz Kohut 1978 – 1981 Vol. 3 – International Universities Press – 1990)
14.  Kohut Heinz (1984) La cura psicoanalitica (Boringhieri 1986)
15.  Rossi Romolo (2005) Psicodinamica dell'aggressività. Dalla distruttività alla sublimazione (In: Pancheri Paolo e altri [Rossi R. – Perugi G.] Il punto su: Psicopatologia e terapia dei comportamenti aggressivi e violenti, pag. 49 – Scientific Press – 2005)
16.  Rossi Romolo (2007) I paradossi dell'empatia (In: Atti del convegno “Conosco le tue intenzioni. Empatia in Psichiatria” – Casa di cura “Villa S. Chiara” – Verona 2007)
17.  Rossi Romolo – De Fazio Francesco (2012) Consulenza su Donato Bilancia (Psychiatry on line http://www.psychiatryonline.it/node/2424 )
18.  Schmidt-Hellerau Cordelia (2002) Why aggression? (Int. J. Psychoanal. Vol. 83, N° 6, pag. 1269)
19.  Symington Neville (1983) The analyst's act of freedom as agent of therapeutic change (Int. Rev. Psycho-Anal. Vol. 10, pag. 293)
20.  Winnicott Donald W. (1965) The maturational processes and the facilitating environment (The Hogart Press and the Institute of Psycho-Analysis 1985)
 
II – Opere letterarie
1.     Baudelaire Charles (1861) I fiori del male (Garzanti 1981)
2.     Capote Truman (1965) A sangue freddo (n: Capote Romanzi e racconti – Mondadori – 2003)
3.     Dostoevskij Fëdor (1880) I fratelli Karamazov (Einaudi 1970)
4.     Shakespeare William (1592?) La tragedia di Re Riccardo III (Signorelli 1957)
 

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