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Anoressia e Bulimia, nuove forme del sintomo nella società contemporanea: la cura tra clinica e politica

18 Apr 19

Di raggi
ABSTRACT
I disturbi del comportamento alimentare, così come tutti i cosiddetti “nuovi sintomi”, hanno una genesi multifattoriale, con ampia attinenza al contesto sociale e culturale. Stando ai fatti, si può dunque ancora solo pensare a un sistema di cura incentrato unicamente sull’individuo e sulla sua patologia? L’autore, a partire da questa considerazione, si interroga sulle responsabilità politiche di una cura che passi per il contesto e per il sistema sociale.
 
Anoressia e Bulimia possono essere letti non solo come sintomi dell’individuo, ma anche come sintomi di quello che i filosofi tedeschi chiamavano zeitgeist, “lo spirito del tempo”. Queste manifestazioni cliniche si possono, infatti, leggere e tentare di comprendere secondo almeno due punti di vista: individuale e collettivo.
PROSPETTIVA INDIVIDUALE
Anoressia, Binge-eating, Obesità, Bulimia, possono essere osservate come sintomi, o come segni, ma non come sindromi, seppure nei manuali diagnostici siano classificati come tali, e su questo ormai converge praticamente tutta la letteratura e la clinica psicoanalitica. Anoressia e bulimia, infatti, andrebbero sempre riportate al plurale: esistono le anoressiche e le bulimiche. Ognuna è profondamente differente dall’altra a dispetto dell’apparenza del sintomo che le vorrebbe tutte uguali. L’aspetto stereotipato, l’apparenza standardizzata della loro manifestazione sintomatica, non deve perciò trarre in inganno il clinico, il quale necessita di risalire alla radice di questi disagi attraverso una attenta valutazione diagnostica differenziale degli elementi di personalità. Come ha insegnato peraltro la clinica delle tossicomanie, che ha introdotto anni addietro il concetto di “doppia diagnosi”. Anoressie e Bulimie, e così tutto il resto delle numerose varianti nosografiche dei cosiddetti DCA, fanno parte di un unico universo, alla cui base vi è un profondo disagio di natura psicologica. Si può dire perfino psicosociale.
Questi disturbi paradossalmente intaccano il corpo, ma non si generano attraverso il corpo, non sono infatti “malattie” in senso medico, ossia non sono riconducibili a cause univoche, ben circoscritte e accertate. Possiamo riferirci ad anoressie e bulimie come a “malattie” per enfatizzare il dolore di chi ne soffre e la difficoltà dei curanti, ma questa distinzione va molto ben compresa e considerata, specialmente da parte dei clinici meno esperti che si approcciano a trattare questi disagi.
Sono sintomi spesso privi di una reale domanda di cura. È molto difficile che sia stesso il soggetto anoressico-bulimico a chiedere aiuto, se non in casi molto particolari. Spesso l’individuo trova, invece, in questi sintomi addirittura una soluzione – per quanto patologica e paradossale – al suo malessere interiore che non è riuscito a manifestare in maniera diversa.  La domanda di cura, dunque, proviene da parte dei familiari, spesso dei genitori. Sintomo senza domanda e domanda senza sintomo.
 
 
 
PROSPETTIVA COLLETTIVA
Le nuove forme del sintomo
Freud mostrò quanto le forme del sintomo fossero correlate alle esigenze della società piuttosto che dell’individuo. Anzi, è proprio dalla frustrante rinuncia alle spinte pulsionali individuali, che si può pensare a una dimensione sociale condivisa secondo norme, leggi, regole. Anoressie e Bulimie rientrano, invece, tra le cosiddette “nuove forme del sintomo” (AA.VV, 1991), con cui i clinici si confrontano sempre più spesso. Dalla nevrosi isterica dei primi del ‘900, ai narcisismi degli anni ‘80 e ’90, si è giunti alle contemporanee forme sintomatiche compulsive, caratterizzate da importanti acting-out, cioè azioni non mediate dal pensiero: tossicomanie, depressioni contemporanee, disturbi alimentari, ludopatie. Si ha a che fare con psicopatologie dalle manifestazioni sintomatiche “non simbolizzanti”, ovvero il paradigma psicoanalitico desiderio inconscio-rimozione-nevrosi non sembra più il presupposto alla base di questo tipo di forme cliniche.
L’aspetto della rimozione del desiderio inconscio, la sensualità del Principio di Piacere come spinta pulsionale non compatibile con il principio di Realtà imposto dal Super Io normativo, caratteristica di ogni forma nevrotica, in questi casi non sembra più funzionare.
Il Super Io è una metafora freudiana di natura non ontologica, ma prevalentemente relazionale e dunque influenzata dal contesto culturale.
Il sintomo non è più un compromesso – di natura simbolica – tra desiderio inconscio e realtà. Ecco perché parliamo, appunto, di “sintomi non simbolizzanti” per tutte le forme sintomatiche contemporanee.
Il “reale” sembra schiacciare l’individuo, al quale arriva senza più filtri di natura psicologica e simbolica. Il Super Io normativo, la norma sociale, appare snaturato, sempre più caratterizzato da un imperativo differente dal “divieto”, classico freno inconscio dei secoli precedenti. La richiesta superegoica ora chiede una sola cosa: che si produca, si acquisti e si consumi. In pratica, che si ricerchi non più il piacere (“Lust”) ma una forma di piacere sganciata dal limite, che Freud chiamava “Genuss”: il godimento.
 

Il cambiamento psicologico collettivo contemporaneo
Cosa c’è di male nel voler godere? Si potrebbe obiettare.
Le conseguenze psicologiche di una ricerca sfrenata del piacere, senza contenimento, possono essere in realtà drammatiche, come mostra in modo lampante la sofferenza psichica contemporanea. Il principio di realtà dell’individuo è oggi strutturato su una società che non ha più i divieti e i tabù precedenti. Viviamo in un mondo, quello più marcatamente caratterizzato dalla cultura contemporanea occidentale, dove il valore principale è il consumo immediato. Addirittura, possiamo parlare di iperconsumo come lo ha definito il filosofo Gilles Lipovetsky. L’epoca ipermoderna, ove tutto è a portata di click, dove i Miti – parafrasando Marino Niola (2012) – sono diventati mitemi: comete accecanti, che però svaniscono senza lasciare più alcuna traccia. Pier Paolo Pasolini ripeteva: “il potere moderno non vuole sudditi ma liberi consumatori!”. L’individuo contemporaneo non sembra, in effetti, più in grado di rinunciare a nulla. Tutto è diventato consumabile, immediato, ogni cosa appare come dovuta, un diritto inalienabile: una bella casa, frigo, automobile, smartphone. Nell’attuale “ipertrofia dei diritti” (Barbano, 2018), dove persino la salute è diventata un diritto senza compromessi, l’ineluttabilità della morte è stata rimossa dal campo di coscienza collettivo. L’idea stessa della morte non fa più parte della nostra cultura.
Aldo Carotenuto riteneva che la caratteristica della psiche umana risiedesse nelle sue capacità creative. La creatività, la funzione immaginativa – come ha insegnato Platone – nasce a sua volta dal desiderio generato da una mancanza. Il desiderio, dunque, diviene tale quando contempla la mortificazione della pulsione: la creatività nasce dalla frustrazione di un desiderio.
Al desiderio, all’amore quale attivatore delle caratteristiche umane della psiche, si è però sostituito il piacere sfrenato, il passaggio all’atto. Il “pensiero desiderante”, che invece per Leibnitz caratterizza la vera tensione liberatoria nell’uomo, è stato abolito e sostituito con l’azione immediata di appagamento. Il gesto compulsivo di godimento finisce così per spegnere il processo del desiderio. Per questi motivi, la ricerca del piacere istantaneamente fruibile e consumabile non è liberatoria per il soggetto, bensì, quando sganciata dalla dimensione erotica, rende manifesta tutta la sua forza repressiva, diventa alienante, ripetitiva, stereotipata.
Anoressia-Bulimia sintomi della civiltà del consumo
Cosa c’entra il godimento del consumo – dell’iperconsumo – con l’Anoressia e la Bulimia? Ebbene, sia l’Anoressia che la Bulimia sono in qualche modo sintomi di questo tipo di civiltà. Entrambe queste logiche sintomatiche oppongono una ricerca del piacere-godimento in maniera indefinita, a compensazione di un vuoto desolante: solo che una (l’anoressia) si sottrae a questa spinta illimitata rifiutando tutto – l’altra (la bulimia) cede alla pressione del godimento e s’ingozza di tutto, per poi vomitare tutto e ricominciare daccapo in un circuito ripetitivo.
La coscienza come accadimento sociale
Se come ben illustra Alva Noë (2010) la coscienza «non è qualcosa che accade dentro il cervello» dell’individuo, ma è piuttosto paragonabile a una “danza” intersoggettiva, allora tanto più la psiche – che non può dirsi riducibile alla sola coscienza – si svela come fatto sociale e non meramente individuale. Troppi sinora sono stati i danni prodotti da una psicologia incentrata esclusivamente sull’individuo. Jung parlava di inconscio collettivo già due secoli orsono e la prospettiva intersoggettiva che la psicoanalisi sembra aver recentemente riscoperto – la quale trova oggi le sue conferme in ambito neuroscientifico – è parte integrante della ricerca analitica junghiana sin dagli anni ’70 del secolo scorso. Si possono ricordare a tal proposito i lavori di Silvia Montefoschi (1997). Il concetto di “inconscio collettivo” – giova tenere a mente – non corrisponde a un concetto metafisico, ma rimanda alla Cultura, a ciò che è Pubblico, al Linguaggio: ovvero quelle forme e manifestazioni della Struttura sociale nella quale “siamo a bagno”, che a sua volta ci struttura psicologicamente.
L’identità dell’individuo non è data naturalmente, essa è una conquista culturale. È il frutto del riconoscimento da parte dell’Altro: è un fatto sociale. Se da piccolo gli altri ci dicono che siamo incapaci, la nostra identità sarà probabilmente quella di un incapace. Anche tra gli adulti avviene lo stesso e la nostra identità si rafforza e si indebolisce in funzione del nostro riconoscimento da parte della società.
L’identità si struttura sempre in relazione allo sguardo dell’altro. Ecco perché l’individuo senza Società è nulla. Il concetto stesso di individuazione, di matrice junghiana all’opposto dell’individualismo, è la responsabilizzazione del soggetto nella ricerca e nello svelamento del proprio potenziale, calato nella relazione con il mondo.


 

Da una cura individuale a una cura politica del sociale
Per ciò che si è tentato di illustrare sinora, potremmo affermare che i nostri primi “psicologi” sono i politici, i rappresentanti delle nostre istituzioni. Se molte patologie dell’individuo nascono, o si rafforzano, in patologie della società, a cosa serve dunque rimediare con lo psicologo a scuola, in ambulatorio, lo psicologo del territorio, ecc.? Questi appaiono tutti espedienti, probabilmente utili in alcuni casi, ma che non affrontano, né tantomeno risolvono, il malessere psicologico della società contemporanea alla sua radice. Anzi, sotto diversi punti di vista la patologizzazione del soggetto può rappresentare perfino un alibi per le Istituzioni, che delegano così al clinico problemi di natura estremamente più complessa e variegata.
Delegare unicamente al clinico problemi di ordine biopsicosociale – per utilizzare un’espressione tanto sgradevole quanto di moda – come l’anoressia, la bulimia, l’obesità, è come immaginare di risolvere il problema del surriscaldamento globale affidandosi ad esperti di aria climatizzata. Pensiamo ad esempio alla fantasia – oggi tanto in voga – che anoressia, bulimia, binge-eating, possano essere “risolte” con psicoterapie cognitivo-comportamentali, o con trattamenti manualizzati e standardizzati. Queste illusioni ricordano un po' il Don Quijote de la Mancha che, scambiandoli per giganti, tenta invano di combattere i mulini a vento con la propria lancia. Terapie di questo tipo, infatti, sono miranti più che altro alla rieducazione dell’individuo nell’adattarsi ad un sociale malato e come tali, producono un paradossale effetto ricorsivo, tale per cui, piuttosto che “curare”, riproducono puntualmente le medesime “cause” che scatenano quelle malattie.    
Essendo, per concludere, ormai assodato e unanimemente noto che (Vedi quaderno Min. Salute, 2013) queste patologie hanno anche cause di natura culturale e sociale, occorre che le Istituzioni pensino a interventi di prevenzione primaria che impattino sul Sociale e sul culturale. Simili interventi, per forza di cose, devono essere di natura politica. Nel senso nobile e alto della parola politica, intesa etimologicamente come “arte del governo della città”, della cosa pubblica.


 

Secondo questa accezione della parola “politica”, quindi, non ci si riferisce alla sponsorizzazione di iniziative d’informazione sulla corretta alimentazione, o alla istituzione di giornate celebrative, ma a qualcosa di assai più profondo e radicale. Certamente servono strutture dedicate e potenziamento dei servizi, iniziative di formazione degli operatori sanitari ancora troppo poco addestrati a riconoscere e trattare i disturbi del comportamento alimentare, soprattutto, però, la politica ha il dovere di pensare e proporre scelte lungimiranti. Occorrono idee politiche per una de-patologizzazione del sociale in cui viviamo. Scelte per una società al cui centro d’interesse torni l’uomo e non unicamente il consumo, il benessere e non l’economia fine a sé stessa, l’individuo e la famiglia e non un astratto “mercato” autoreferenziale.

 

Bibliografia:
        AA.VV. (1991), Le nuove forme del sintomo, Agalma n.6, Milano.
        BARBANO A. (2018), Troppi diritti. L'Italia tradita dalla libertà, Mondadori, Milano.
        CAROTENUTO A. (1995), Jung e la cultura del XX secolo, Bompiani, Milano.
        FREUD S. (1930), Das Unbehagen in der Kultur (Il disagio della civiltà).
        GALIMBERTI U. (1999), Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica, Feltrinelli, Milano.
        HILLMAN J. (1999), Politica della bellezza. Moretti & Vitali, Bergamo.
        LEIBNIZ G. W. (1686), Discorso di Metafisica. Universale Laterza, 1986, Bari.
        MONTEFOSCHI S. (1997), L’uno e l’altro. Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto analitico. Feltrinelli, Milano.
        NIOLA M. (2012), Miti d’oggi. Bompiani, Milano.
        NOË A. (2010), Perché non siamo il nostro cervello. Una teoria radicale della coscienza. Raffello Cortina, Milano.
        RAGGI. A. (2014), Il Mito dell’anoressia. Archetipi e luoghi comuni delle patologie del nuovo millennio. Franco Angeli, Milano.
        LIPOVETSKY G. (2007), Una felicità paradossale. Sulla società dell'iperconsumo. Raffaello Cortina, Milano.

 

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