Il presente contributo è mirato ad esaminare alcuni aspetti del ruolo che l’Emotività Espressa dei genitori di persone affette da Anoressia Nervosa può ricoprire nel perpetuarsi del disturbo oppure, al contrario, nel favorirne il miglioramento.
Recenti studi sulla prevalenza dei Disturbi dell’Alimentazione rilevano che il tasso di prevalenza lifetime dell’Anoressia Nervosa nella popolazione femminile è di circa 0,3-0,5 %, mentre quasi il 10% delle ragazze in età a rischio (tra i 15 e i 25 anni) manifesta un disturbo alimentare “parziale” o “subclinico”.
L’Anoressia Nervosa genera un impatto profondo non soltanto sulla persona che ne è affetta ma anche sulla vita dei familiari. Le caratteristiche cliniche, i danni fisici e psicosociali determinati da questo disturbo pongono spesso a dura prova le capacità relazionali della famiglia. I genitori hanno a volte la sensazione di essere tiranneggiati dalle regole imposte dal disturbo dell’alimentazione e sperimentano vissuti di intensa tensione e frustrazione.
Attualmente la ricerca scientifica, mediante vari studi trasversali e longitudinali finalizzati a valutare il ruolo delle interazioni familiari nell’eziopatogenesi dell’Anoressia Nervosa, ha attestato l’esistenza sia di una molteplicità di pattern relazionali differenti nelle famiglie delle persone che soffrono di Anoressia Nervosa, sia di un complesso intreccio di differenti fattori sotteso all’eziologia di tale Disturbo dell’Alimentazione.
In virtù di tali dati, attualmente non viene più accettata l’ipotesi che vi sia una famiglia “tipica” che favorisce l’insorgenza della patologia.
Viceversa, alcuni studi hanno evidenziato che l’Emotività Espressa dei genitori può avere un ruolo nel mantenere o aggravare il disturbo dell’alimentazione o al contrario favorirne il miglioramento.
L’Emotività Espressa (EE) è un costrutto che riflette la modalità con cui un membro della famiglia esprime le proprie emozioni nei confronti di un altro componente affetto da un disturbo mentale.
L’Emotività Espressa costituisce dunque un indicatore dell’intensità della risposta emotiva del familiare in un dato momento temporale, ed include cinque dimensioni: commenti critici, ostilità, eccessivo coinvolgimento emotivo, commenti positivi e calore.
Il primo strumento adottato per la misurazione di tale costrutto è stato la Camberwell Family Interview (CFI) ideata da Brown (1962)[1]; in seguito Magana e collaboratori (1986) introdussero un nuovo strumento, il Five Minute Speech Sample – FMSS, proposto come un metodo breve per la valutazione dell’EE.
In base a tali strumenti di misura, famiglie con elevata emotività espressa risultano più critiche, ostili e eccessivamente coinvolte emotivamente rispetto a quelle con bassa emotività espressa.
In relazione a ciò, Leff e Vaughn (1985) distinsero i familiari ad alta e bassa emotività in base a quattro caratteristiche:
1. Rispetto delle necessità relazionali del paziente: i familiari ad alta EE sono intrusivi, cercano il contatto con il paziente indipendentemente dalle sue richieste e vogliono esercitare un controllo su di essi; i familiari a bassa EE sono maggiormente capaci di adattarsi alle richieste e ai bisogni espressi dal paziente
2. Legittimazione della malattia: i familiari ad alta EE considerano il paziente responsabile delle sue azioni, anche di quelle che sono chiaramente dovute ai suoi sintomi, mentre i familiari a bassa EE cercano di capire le azioni del paziente e riconoscono quelle che sono legate alla sua patologia.
3. Aspettative per il paziente: i familiari ad alta EE nutrono aspettative piuttosto alte per il paziente, indipendentemente dalla sua patologia e dai suoi sintomi, i familiari a bassa EE nutrono invece aspettative realistiche e tollerano meglio livelli di funzionamento sociale anche molto bassi.
4. Risposte emotive: i familiari ad EE rendono in modo a volte eccessivamente drammatico le loro reazioni ai sintomi del familiare e tendono ad assumere atteggiamenti rigidi in risposta ai suoi momenti di crisi. I familiari a bassa EE sono capaci di controllare la loro emotività e sanno adottare risposte flessibili.
Nell’ambito dei Disturbi del Comportamento Alimentare, vari studi (Szmukler et al., 1985, Le Grange et al. , 1992, Van Furth et al, 1996, Hedlund et al. 2003, Sepulveda et al., 2009) hanno evidenziato che l’Emotività Espressa costituisce un importante fattore prognostico nell'esito del trattamento, dimostrando come un’alta emotività espressa nelle famiglie è associata a un maggiore tasso di drop-out, di ricadute, ed a un esito di trattamento più scadente. In particolare, i commenti critici sembrano avere un impatto negativo sull’esito del trattamento.
Parallelamente a ciò, gli studi realizzati hanno confermato che il calore genitoriale riveste un ruolo importante nel favorire un esito positivo del trattamento.
In merito a tali dati, è stato ipotizzato che la presenza di un temperamento ansioso e la tendenza ad essere eccessivamente sensibili alle ricompense rende le persone con Anoressia Nervosa particolarmente vulnerabili ai commenti critici.
Pertanto, in relazione a quanto precedentemente esposto in merito alla teoria multifattoriale, i risultati delle ricerche confermano come un alto livello di emotività espressa, dunque una “temperatura emotiva” negativa presente nel clima famigliare, costituisce un fattore perpetuante nell’Anoressia.
In tal senso, la critica e l’ostilità contribuiscono a mantenere il disturbo dell’alimentazione perché favoriscono nella figlia lo sviluppo di emozioni negative (es. rabbia, colpa, vergogna) ed autosvalutazione. Inoltre, maggiori sono la critica e l’ostilità nei confronti del comportamento della figlia, più tenace diventa il suo controllo su alimentazione, peso e forme corporee. Allo stesso modo, genitori eccessivamente coinvolti a livello emotivo favoriscono la regressione della figlia diventando iperprotettivi ed ipercontrollanti. Riuscire a ridurre il livello di emotività espressa è perciò di fondamentale importanza per aiutare la persona ad abbandonare i comportamenti sintomatici.
Attualmente non è stata raggiunta una conoscenza chiara ed esaustiva dei fattori che generano lo sviluppo di un’elevata EE.
Tuttavia l’evidenza clinica ed alcuni studi suggeriscono che alcune variabili importanti sono: il tipo di informazioni possedute dai genitori circa il disturbo alimentare e la modalità di interpretazione dei sintomi, la durata di malattia della figlia e la presenza di disturbi psicologici nei genitori.
Rispetto a ciò, infatti, si rileva come in molti casi la scarsa conoscenza del disturbo Anoressia Nervosa, unitamente a determinate caratteristiche individuali, possono causare interpretazioni scorrette dei comportamenti patologici e generare nei genitori reazioni disfunzionali di criticismo o iperprotettività che contribuiscono al mantenimento del disturbo.
In tal senso, ad esempio, per quanto riguarda le informazioni erronee relative alla malattia, la credenza che il disturbo alimentare rappresenti una vendetta verso i genitori può stimolare reazioni ostili nei confronti della persona oppure, al contrario, generare sensi di colpa ingiustificati e condurre i genitori ad assecondare ogni richiesta della figlia.
Parallelamente la convinzione che per guarire basti la forza di volontà può impedire di cogliere e apprezzare gli sforzi che la persona anoressica compie nella direzione del cambiamento, e non permette di comprendere l’ansia e le difficoltà che inevitabilmente essa sperimenta durante il percorso terapeutico.
Inoltre, il livello di EE appare correlato con la durata di malattia, ovvero le reazioni disfunzionali dei genitori aumentano in relazione all’aumentare della durata del disturbo.
Infine, elevati livelli di EE potrebbero dipendere da disturbi dell’umore nei genitori.
In merito a ciò vari studi (Winn et al., 2007; Kyriacou, Treasure & Schmidt, 2008, Perkins, Winn, Murray, Murphy, & Schmidt, 2004; Treasure et al., 2001; Santonastaso, Saccon, e Favaro, 1997), hanno constatato che molto spesso i familiari di pazienti con DCA manifestano una sintomatologia ansiosa e depressiva clinicamente significativa, isolamento sociale ed un elevato burden soggettivo.
Bibliografia
Leff J. and Vaughn C. (1985): Expressed Emotion in Families: Its Significance for Mental Illness. Guilford, New York.
Le Grange D, Eisler I, Dare C, Hodes M. (1992) Family criticism and self-starvation: a study of Expressed Emotion, J Fam therapy 14, 177-192
Santonastaso P., Saccon D., Favaro A. (1997) Burden and Psychiatric Symptoms on Key Relatives of Patients with Eating Disorders: A Preliminary Study “Eating and Weight Disorders” 1 44-48
Szmukler GI Burgess P Herrman H Benson A Colusa S & Bloch S (1996) Caring for relatives with serious mental illness: The development of the Experience of Caregiving Inventory “Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology” 31 137-148
Treasure J Murphy T Szumukler G Todd G Gavan K & Joyce J (2001) The Experience of Caregiving for Severe Mental Illness: A Comparison between Anorexia Nervosa and Psychosis “Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology” 36 434-347
Winn S Perkins S Murray J Murphy R & Schmidt U (2004) A Qualitative Study of the Experience of Caring for a Person with Bulimia Nervosa. Part 2: Carers’ Needs and Experiences of Services and Other Support “International Journal of Eating Disorders” 36 269-279
Winn S Perkins S Walwyn R Schmidt U Eisler I Treasure J et al (2007) Predictors of mental health problems and negative caregiving experiences in carers of adolescents with bulimia nervosa “International Journal of Eating Disorders” 40 171–178
Dall’osservazione di pazienti psichiatrici de-istituzionalizzati emerse che quando venivano reinseriti nel contesto familiare presentavano peggioramenti, a volte tanto gravi da rendere necessario un secondo ricovero in ospedale, in numero maggiore rispetto ai pazienti che venivano inseriti in altre strutture pubbliche. Questo portò all’ipotesi che la famiglia stessa, genitori, coniugi e figli potesse essere all’origine del ritorno dei sintomi. Brown partiva dall’assunto che il paziente schizofrenico non fosse un soggetto portatore di una malattia organica modificabile solo da eventi cerebrali, ma una persona in attivo interscambio con il suo ambiente (Bertrando 1997). Decise dunque di individuare le variabili che potevano avere un ruolo significativo nel peggioramento dei pazienti questi pazienti. Nacque così una serie di scale che nel loro complesso formarono l’emotività espressa (EE).
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