Nell’ottavo episodio della nona stagione dei Simpson (Lisa la scettica), Lisa rinviene, in un cantiere in cui stanno costruendo un Centro Commerciale, un misterioso scheletro provvisto di ali. Il bizzarro ritrovamento provoca un vero e proprio scisma: da una parte infatti la comunità dei fedeli – una sorta di ipostasi della pubblica opinione – difende strenuamente l’ipotesi che lo scheletro appartenga ad un angelo, dall’altra invece Lisa – da qui la laconicità del titolo dell’episodio – sostiene senza riserve che si tratti di una ciarlataneria, perché è sciocco credere all’esistenza degli angeli.
Il nodo centrale dell’episodio si sviluppa riproponendo la tipica, irriducibile opposizione tra la fede religiosa (la verità rivelata portatrice di un senso superiore, ultraterreno) e il coriaceo sapere delle scienze hardcore (un corpus di conoscenze sperimentalmente verificate che si fonda su ipotesi reali). Così, il “popolo” abbindolato che vede la rivelazione come un edulcorante all’insensatezza della vita (ovvero il fatto che vi sia un Aldilà ultraterreno) troverebbe il proprio scoglio nella ratio positivista di Lisa, il cui cinismo ateo coglie nella misteriosa manifestazione nientemeno che un cumulo di ossa e argilla. Mentre dunque il primo si appellano al miracolo, al puro evento che sospende qualsiasi logica prestabilita e sussiste sulla sola, aforistica base delle Scritture, Lisa rinforza il suo scetticismo grazie all’ipotesi assiomatica che, scientificamente, non si dà esistenza degli angeli: hegelianamente parlando, la puntualità delle equazioni scientifiche sarebbe pertanto in grado di riassorbire ogni apparente accidente entro i plausibili cardini della contingenza. Eppure, man mano che l’intreccio dell’episodio si svela, notiamo che le due posizioni finiscono, letteralmente, per ribaltarsi e scambiarsi di parte: contro ogni logica convenzionale, è proprio la credulona massa che, per sostenere l’attendibilità della rivelazione religiosa, si munisce di un invidiabile modello epistemologico: il miracolo della rivelazione può così essere spiegato e difeso attraverso il ricorso ad un modello epistemico rigoroso. Al contrario, è la stessa Lisa che, contro le confutazioni avanzate dalla comunità, è costretta a finire per credere alla propria ipotesi (scientifica) in modo dogmatico, compiendo un vero e proprio salto di fede.
Insomma, mentre la pubblica opinione/folla elabora la prova inconfutabile dell’esistenza degli angeli attraverso il ricorso ad un modello razionalista falsificabile (ovvero difendendo la religione mediante la confutazione scientifica), la seconda è costretta ad appellarsi alla credenza incondizionata che gli angeli non esistano in un modo radicalmente aprioristico (è ovvero portata a credere nella scienza come ad una religione). Ma non finisce qui.
Il finale infatti smentisce entrambe le posizioni, riducendole a mere congetture: il misterioso scheletro si scopre essere nient’altro che uno sfacciato escamotage per pubblicizzare l’apertura del Centro Commerciale in costruzione.
Una delle interpretazioni possibili dell’episodio, a questo punto, potrebbe essere la seguente: l’oggetto-angelo non è altro che la kantiana Cosa in sé del capitalismo (lettura cospirazionista molto familiare alla politica satirica delle prime stagioni della serie), l’osso in gola che attesta la parossistica logica soverchiante del Capitale: quella spietata macchina che, indifferente alla differenza, inghiotte indistintamente qualsiasi brandello simbolico senza attuare alcuna distinzione. Insomma, non importa quanto le posizioni scientifiche o religiose siano attendibili, la voracità del Capitale finirà comunque per assorbirle e detossificarle di senso, finirà per ritorcere i loro presupposti in meccanismi depersonalizzanti atti all’autoalimentazione dell’economia finanziaria. Anzi, questo annullamento spietato della religione e della scienza si rispecchia, sardonicamente, in quanto lapidariamente affermato da Zizek e Jameson: oggi è più facile immaginare la fine del mondo, piuttosto che quella del capitalismo. Insomma, che la fine del mondo sopraggiunga attraverso la rivelazione di un angelo o che essa avvenga con un crudo e secolarizzato apocalisse (spegnimento del sole, desertificazione, o altre prospettive naturalistico-ambientaliste) poco importa, la verità ultima del reale è e rimane l’osso del Capitale, il resto inassimilabile che insiste al di là di ogni realtà simbolica (Mark Fisher, avanzando il suo concetto di Realismo Capitalista, riconduce questa inesorabilità alla “sensazione diffusa che non solo [il capitalismo] sia l’unico sistema possibile, ma che non sia più nemmeno possibile immaginare un’alternativa concreta ad esso”[i]).
Secondo un’altra interpretazione invece, potremmo vedere nell’oggetto-angelo non tanto una realtà concreta (la merce come aborto irriducibile del Capitale), quanto piuttosto un posto vuoto, una fantomatica X che, non presupponendo alcuna essenza, marchi un puro intervallo, un vuoto inattingibile che, aprendosi tra le due parti rappresentate da Lisa da un lato e la comunità di Springfield dall’altro, permetta alle due posizioni di relativizzarsi, di attingere l’una dal registro dell’altra, formalizzando tra esse un rapporto dialettico. Insomma, la posizione dell’oggetto-angelo quale fantomatica X arriverebbe a coincidere, facendo fede al Seminario XI, con la stessa psicoanalisi: “la psicoanalisi, sia essa degna o meno di iscriversi in uno di questi due registri [scienza o religione], può anche illuminarci su ciò che dobbiamo intendere per una scienza e persino per una religione.”[ii]
Ma, prolungando il discorso di Lacan, in che modo esattamente la psicoanalisi potrebbe far luce sui due registri qui menzionati? A riguardo, nel corso del tempo la posizione di Lacan è rimasta piuttosto coerente, seppur non priva di oscillazioni. Potremmo, di primo acchito, semplicemente asserire che essa ci “illumini” rivelando le due irriducibili e strenue posizioni non come degli assoluti kantianamente contraddittori ed incommensurabili (poiché solo uno di essi è foriero della verità ultima), quanto piuttosto come dei precari discorsi tra loro in contrapposizione, due differenti modi di venire a patti con un nocciolo di inequivocabile non-senso. Scienza e religione, secondo la psicoanalisi, verrebbero ridimensionate alla stregua di due posizioni tra le tante, due specifici artifici che colmerebbero il buco del sapere con un miraggio, una congettura che preservi il soggetto dal trauma reale del non-senso.
Da questo punto di vista, l’oggetto-angelo porterebbe con sé la rivelazione che, del resto, anche la razionalità scientifica sia altrettanto barricata dietro congetture e saperi doxastici (insomma, che anch’essa sia, a modo suo, dogmatica), tanto da degenerare, come la religione, dal razionale alla razionalizzazione, a guisa di una demagogia che tenti di prevalere indebitamente sulle altre.
In conclusione, la metafora fornitaci dall’irriverente episodio dei Simpson concorda con la visione lacaniana secondo cui l’angelo-psicoanalisi non sarebbe che un sintomo inscritto tra la Scilla della Scienza e la Cariddi della religione, l’elemento particolare che fa vacillare le totalità universali entro cui si inscrive, che fa esplodere la loro unità mettendone a nudo il fallimento costitutivo (costitutivo perché non si dà totalizzazione del sapere, perché non c’è Altro dell’Altro). Ma se questo apologo è quasi completamente coestensivo all’idea della psicoanalisi-sintomo avanzata da Lacan sino a Posizione dell’inconscio, a partire da La scienza e la verità sino al culmine de Il trionfo della religione, questa associazione non è più bastevole e necessita di essere ulteriormente elaborata.
In breve, se fino a Posizione dell’inconscio possiamo dire che scienza e religione costituiscano due modi immanenti e differenti di venire a patti con il reale, successivamente le rispettive posizioni finiscono per particolarizzarsi ed assumere dei ruoli che, posteriormente, ridimensionano lo statuto della stessa psicoanalisi.
In La scienza e la verità, Lacan afferma che Cartesio ha liberato l’uomo moderno dal peso della verità: dissociando il sapere dalla verità, il filosofo avrebbe permesso al primo di proliferare autonomamente e separatamente dalla seconda. Il sapere scientifico, nel suo libero e scriteriato autoaccrescimento non deve più rendere conto di nulla alla verità, che così viene relegata nelle discipline “umanistiche” della poesia, della letteratura e della filosofia. La scienza, da Cartesio in poi, coltiverebbe un sapere che si autorizza da sé e che trova garanzia solo in se stesso, nelle griglie simboliche che legittimano la sua forsennata riproduzione. Questa breve ma cruciale specificazione ci porta dritti al succo de Il trionfo della religione, in cui Lacan definisce la religione “inaffondabile”[iii].
Ma in che modo la dissociazione di sapere e verità operata dalla scienza e annunciata in La scienza e la verità si riallaccerebbe, anni dopo, a questa controversa quanto incisiva proclamazione? E quali ripercussioni avrà questo rimaneggiamento sulle sorti della psicoanalisi? Nel corso della conferenza, Lacan non recede rispetto alla sua precedente posizione, ovvero non priva la psicoanalisi della sua irriverente natura sintomatica (“la psicoanalisi è un sintomo [e] l’analista (…) non può durare se non a titolo di sintomo”[iv]) ma, anzi, la radicalizza ulteriormente: “la psicoanalisi non è apparsa in un momento qualunque della storia [ma] correlativamente a un passo capitale, a un certo progresso del discorso della scienza”[v]. Questo passo capitale consisterebbe proprio nel disimpegno della scienza dalla verità e nella conseguenza di tale scissione, ovvero nel dilagare incontrollato degli sconvolgimenti scientifici e nell’imperversare di quella che Lacan definisce “l’angoscia degli scienziati”[vi].
In un primo momento, potrebbe sembrare che l’egemonia delle scienze rada letteralmente al suolo ogni rimasuglio di fede religiosa, che il sapere doxastico e congetturale delle religioni diventi obsoleto e inopportuno al cospetto di quest’incessante circolazione di saperi scientifici. Eppure, è vero il contrario, scienza e religione intrattengono un rapporto profondamente proporzionale: “bisognerà che a ogni sconvolgimento introdotto dalla scienza [le risorse della religione] diano un senso, [poiché esse] sono veramente capaci di dare un senso a qualunque cosa”[vii]. Insomma, più la scienza persevera scellerata nell’accumulo del sapere (un accumulo la cui meta non è la verità, come abbiamo detto, ma l’auto-accrescimento, la rigenerazione), più la religione sarà chiamata a propinare senso a bizzeffe, a turare l’angoscia dello scienziato con un senso che tenga anche “agli esperimenti più strani”[viii].
Dove si situa in tutto ciò la psicoanalisi? Ancora una volta nel mezzo, ancora una volta tra lo scoglio duro delle scienze e la fucina ermeneutica della religione che tappa il reale con la toppa del senso. Stretta tra questi due fianchi, essa avrebbe il compito di maneggiare, in quanto sintomo, il reale. Ma non si tratterebbe di un “reale reale”[ix], precisa Lacan, un reale allo stato puro, quanto piuttosto di una sua “manifestazione [che risulti tollerabile] al nostro livello di esseri viventi”[x]. La psicoanalisi insomma si proporrebbe come una propedeutica al reale, un mediatore, un filtro incuneato tra “il vero reale (…) delle piccole equazioni”[xi] e il suo massiccio drenaggio ad opera della religione. Perché? Perché se il reale si fa “sufficientemente aggressivo”[xii] allora diviene veramente intollerabile, e deve essere respinto, rigettato.
Ma è proprio in virtù del suo compito oneroso che, dice Lacan, la psicoanalisi è ora destinata a fallire, ad estinguersi, annegata dal trionfo della religione: “ma vedrete che si guarirà l’umanità dalla psicoanalisi. A forza di annegarlo nel senso, nel senso religioso beninteso, si arriverà a rimuovere questo sintomo.”[xiii] Ora, tirando le somme dello scritto, potremmo dire che il trionfo della religione avverrà, oltre che a spese della psicoanalisi (malamente sacrificata al senso), anche e soprattutto a detrimento del reale. Questo scacco si compirà quando la religione sarà riuscita a respingere completamente il reale e a rattopparne il buco con la presa rapida del senso. È a questo punto che, rispondendo ad un’affermazione del pubblico, Lacan compie, indirettamente, un paragone significativo, che a mio avviso rivela il doppio fondo dello scritto. Riporto l’intero botta e risposta:
Il nodo centrale dell’episodio si sviluppa riproponendo la tipica, irriducibile opposizione tra la fede religiosa (la verità rivelata portatrice di un senso superiore, ultraterreno) e il coriaceo sapere delle scienze hardcore (un corpus di conoscenze sperimentalmente verificate che si fonda su ipotesi reali). Così, il “popolo” abbindolato che vede la rivelazione come un edulcorante all’insensatezza della vita (ovvero il fatto che vi sia un Aldilà ultraterreno) troverebbe il proprio scoglio nella ratio positivista di Lisa, il cui cinismo ateo coglie nella misteriosa manifestazione nientemeno che un cumulo di ossa e argilla. Mentre dunque il primo si appellano al miracolo, al puro evento che sospende qualsiasi logica prestabilita e sussiste sulla sola, aforistica base delle Scritture, Lisa rinforza il suo scetticismo grazie all’ipotesi assiomatica che, scientificamente, non si dà esistenza degli angeli: hegelianamente parlando, la puntualità delle equazioni scientifiche sarebbe pertanto in grado di riassorbire ogni apparente accidente entro i plausibili cardini della contingenza. Eppure, man mano che l’intreccio dell’episodio si svela, notiamo che le due posizioni finiscono, letteralmente, per ribaltarsi e scambiarsi di parte: contro ogni logica convenzionale, è proprio la credulona massa che, per sostenere l’attendibilità della rivelazione religiosa, si munisce di un invidiabile modello epistemologico: il miracolo della rivelazione può così essere spiegato e difeso attraverso il ricorso ad un modello epistemico rigoroso. Al contrario, è la stessa Lisa che, contro le confutazioni avanzate dalla comunità, è costretta a finire per credere alla propria ipotesi (scientifica) in modo dogmatico, compiendo un vero e proprio salto di fede.
Insomma, mentre la pubblica opinione/folla elabora la prova inconfutabile dell’esistenza degli angeli attraverso il ricorso ad un modello razionalista falsificabile (ovvero difendendo la religione mediante la confutazione scientifica), la seconda è costretta ad appellarsi alla credenza incondizionata che gli angeli non esistano in un modo radicalmente aprioristico (è ovvero portata a credere nella scienza come ad una religione). Ma non finisce qui.
Il finale infatti smentisce entrambe le posizioni, riducendole a mere congetture: il misterioso scheletro si scopre essere nient’altro che uno sfacciato escamotage per pubblicizzare l’apertura del Centro Commerciale in costruzione.
Una delle interpretazioni possibili dell’episodio, a questo punto, potrebbe essere la seguente: l’oggetto-angelo non è altro che la kantiana Cosa in sé del capitalismo (lettura cospirazionista molto familiare alla politica satirica delle prime stagioni della serie), l’osso in gola che attesta la parossistica logica soverchiante del Capitale: quella spietata macchina che, indifferente alla differenza, inghiotte indistintamente qualsiasi brandello simbolico senza attuare alcuna distinzione. Insomma, non importa quanto le posizioni scientifiche o religiose siano attendibili, la voracità del Capitale finirà comunque per assorbirle e detossificarle di senso, finirà per ritorcere i loro presupposti in meccanismi depersonalizzanti atti all’autoalimentazione dell’economia finanziaria. Anzi, questo annullamento spietato della religione e della scienza si rispecchia, sardonicamente, in quanto lapidariamente affermato da Zizek e Jameson: oggi è più facile immaginare la fine del mondo, piuttosto che quella del capitalismo. Insomma, che la fine del mondo sopraggiunga attraverso la rivelazione di un angelo o che essa avvenga con un crudo e secolarizzato apocalisse (spegnimento del sole, desertificazione, o altre prospettive naturalistico-ambientaliste) poco importa, la verità ultima del reale è e rimane l’osso del Capitale, il resto inassimilabile che insiste al di là di ogni realtà simbolica (Mark Fisher, avanzando il suo concetto di Realismo Capitalista, riconduce questa inesorabilità alla “sensazione diffusa che non solo [il capitalismo] sia l’unico sistema possibile, ma che non sia più nemmeno possibile immaginare un’alternativa concreta ad esso”[i]).
Secondo un’altra interpretazione invece, potremmo vedere nell’oggetto-angelo non tanto una realtà concreta (la merce come aborto irriducibile del Capitale), quanto piuttosto un posto vuoto, una fantomatica X che, non presupponendo alcuna essenza, marchi un puro intervallo, un vuoto inattingibile che, aprendosi tra le due parti rappresentate da Lisa da un lato e la comunità di Springfield dall’altro, permetta alle due posizioni di relativizzarsi, di attingere l’una dal registro dell’altra, formalizzando tra esse un rapporto dialettico. Insomma, la posizione dell’oggetto-angelo quale fantomatica X arriverebbe a coincidere, facendo fede al Seminario XI, con la stessa psicoanalisi: “la psicoanalisi, sia essa degna o meno di iscriversi in uno di questi due registri [scienza o religione], può anche illuminarci su ciò che dobbiamo intendere per una scienza e persino per una religione.”[ii]
Ma, prolungando il discorso di Lacan, in che modo esattamente la psicoanalisi potrebbe far luce sui due registri qui menzionati? A riguardo, nel corso del tempo la posizione di Lacan è rimasta piuttosto coerente, seppur non priva di oscillazioni. Potremmo, di primo acchito, semplicemente asserire che essa ci “illumini” rivelando le due irriducibili e strenue posizioni non come degli assoluti kantianamente contraddittori ed incommensurabili (poiché solo uno di essi è foriero della verità ultima), quanto piuttosto come dei precari discorsi tra loro in contrapposizione, due differenti modi di venire a patti con un nocciolo di inequivocabile non-senso. Scienza e religione, secondo la psicoanalisi, verrebbero ridimensionate alla stregua di due posizioni tra le tante, due specifici artifici che colmerebbero il buco del sapere con un miraggio, una congettura che preservi il soggetto dal trauma reale del non-senso.
Da questo punto di vista, l’oggetto-angelo porterebbe con sé la rivelazione che, del resto, anche la razionalità scientifica sia altrettanto barricata dietro congetture e saperi doxastici (insomma, che anch’essa sia, a modo suo, dogmatica), tanto da degenerare, come la religione, dal razionale alla razionalizzazione, a guisa di una demagogia che tenti di prevalere indebitamente sulle altre.
In conclusione, la metafora fornitaci dall’irriverente episodio dei Simpson concorda con la visione lacaniana secondo cui l’angelo-psicoanalisi non sarebbe che un sintomo inscritto tra la Scilla della Scienza e la Cariddi della religione, l’elemento particolare che fa vacillare le totalità universali entro cui si inscrive, che fa esplodere la loro unità mettendone a nudo il fallimento costitutivo (costitutivo perché non si dà totalizzazione del sapere, perché non c’è Altro dell’Altro). Ma se questo apologo è quasi completamente coestensivo all’idea della psicoanalisi-sintomo avanzata da Lacan sino a Posizione dell’inconscio, a partire da La scienza e la verità sino al culmine de Il trionfo della religione, questa associazione non è più bastevole e necessita di essere ulteriormente elaborata.
In breve, se fino a Posizione dell’inconscio possiamo dire che scienza e religione costituiscano due modi immanenti e differenti di venire a patti con il reale, successivamente le rispettive posizioni finiscono per particolarizzarsi ed assumere dei ruoli che, posteriormente, ridimensionano lo statuto della stessa psicoanalisi.
In La scienza e la verità, Lacan afferma che Cartesio ha liberato l’uomo moderno dal peso della verità: dissociando il sapere dalla verità, il filosofo avrebbe permesso al primo di proliferare autonomamente e separatamente dalla seconda. Il sapere scientifico, nel suo libero e scriteriato autoaccrescimento non deve più rendere conto di nulla alla verità, che così viene relegata nelle discipline “umanistiche” della poesia, della letteratura e della filosofia. La scienza, da Cartesio in poi, coltiverebbe un sapere che si autorizza da sé e che trova garanzia solo in se stesso, nelle griglie simboliche che legittimano la sua forsennata riproduzione. Questa breve ma cruciale specificazione ci porta dritti al succo de Il trionfo della religione, in cui Lacan definisce la religione “inaffondabile”[iii].
Ma in che modo la dissociazione di sapere e verità operata dalla scienza e annunciata in La scienza e la verità si riallaccerebbe, anni dopo, a questa controversa quanto incisiva proclamazione? E quali ripercussioni avrà questo rimaneggiamento sulle sorti della psicoanalisi? Nel corso della conferenza, Lacan non recede rispetto alla sua precedente posizione, ovvero non priva la psicoanalisi della sua irriverente natura sintomatica (“la psicoanalisi è un sintomo [e] l’analista (…) non può durare se non a titolo di sintomo”[iv]) ma, anzi, la radicalizza ulteriormente: “la psicoanalisi non è apparsa in un momento qualunque della storia [ma] correlativamente a un passo capitale, a un certo progresso del discorso della scienza”[v]. Questo passo capitale consisterebbe proprio nel disimpegno della scienza dalla verità e nella conseguenza di tale scissione, ovvero nel dilagare incontrollato degli sconvolgimenti scientifici e nell’imperversare di quella che Lacan definisce “l’angoscia degli scienziati”[vi].
In un primo momento, potrebbe sembrare che l’egemonia delle scienze rada letteralmente al suolo ogni rimasuglio di fede religiosa, che il sapere doxastico e congetturale delle religioni diventi obsoleto e inopportuno al cospetto di quest’incessante circolazione di saperi scientifici. Eppure, è vero il contrario, scienza e religione intrattengono un rapporto profondamente proporzionale: “bisognerà che a ogni sconvolgimento introdotto dalla scienza [le risorse della religione] diano un senso, [poiché esse] sono veramente capaci di dare un senso a qualunque cosa”[vii]. Insomma, più la scienza persevera scellerata nell’accumulo del sapere (un accumulo la cui meta non è la verità, come abbiamo detto, ma l’auto-accrescimento, la rigenerazione), più la religione sarà chiamata a propinare senso a bizzeffe, a turare l’angoscia dello scienziato con un senso che tenga anche “agli esperimenti più strani”[viii].
Dove si situa in tutto ciò la psicoanalisi? Ancora una volta nel mezzo, ancora una volta tra lo scoglio duro delle scienze e la fucina ermeneutica della religione che tappa il reale con la toppa del senso. Stretta tra questi due fianchi, essa avrebbe il compito di maneggiare, in quanto sintomo, il reale. Ma non si tratterebbe di un “reale reale”[ix], precisa Lacan, un reale allo stato puro, quanto piuttosto di una sua “manifestazione [che risulti tollerabile] al nostro livello di esseri viventi”[x]. La psicoanalisi insomma si proporrebbe come una propedeutica al reale, un mediatore, un filtro incuneato tra “il vero reale (…) delle piccole equazioni”[xi] e il suo massiccio drenaggio ad opera della religione. Perché? Perché se il reale si fa “sufficientemente aggressivo”[xii] allora diviene veramente intollerabile, e deve essere respinto, rigettato.
Ma è proprio in virtù del suo compito oneroso che, dice Lacan, la psicoanalisi è ora destinata a fallire, ad estinguersi, annegata dal trionfo della religione: “ma vedrete che si guarirà l’umanità dalla psicoanalisi. A forza di annegarlo nel senso, nel senso religioso beninteso, si arriverà a rimuovere questo sintomo.”[xiii] Ora, tirando le somme dello scritto, potremmo dire che il trionfo della religione avverrà, oltre che a spese della psicoanalisi (malamente sacrificata al senso), anche e soprattutto a detrimento del reale. Questo scacco si compirà quando la religione sarà riuscita a respingere completamente il reale e a rattopparne il buco con la presa rapida del senso. È a questo punto che, rispondendo ad un’affermazione del pubblico, Lacan compie, indirettamente, un paragone significativo, che a mio avviso rivela il doppio fondo dello scritto. Riporto l’intero botta e risposta:
- L’unica salvezza possibile di fronte a questo reale diventato così distruttivo è di sottrarsi al reale.
- JL: Respingere completamente il reale?
- Una sorta di schizofrenia collettiva. Da cui la fine del ruolo della psicoanalisi.
- JL: È un modo pessimistico di rappresentare quello che credo essere più semplicemente il trionfo della religione. Etichettare la vera religione come una schizofrenia collettiva è un punto di vista molto particolare. Sostenibile, lo ammetto, ma molto psichiatrico.[xiv]
A riguardo, mi permetto di riformulare quanto sinora detto, facendo propendere il discorso verso questo nuovo polo cui Lacan, sebbene non si presti in questo specifico scritto ad una sua totale adozione, aveva precedentemente mostrato di aderire: tra la Scilla della scienza, che con il suo imperversare “finisce per provocare angoscia agli scienziati stessi”[xv] e la Cariddi della religione, che dà un senso ad “ogni sconvolgimento introdotto dalla scienza”[xvi], la psicoanalisi si interporrebbe come un sintomo-zavorra che, trattenendo uno scampolo di reale (l’oggetto a), rispetto all’overdose immaginaria della religione, riuscirebbe a preservare il soggetto dal baratro della psicosi.
Ma la schizofrenia collettiva cui si fa qui riferimento non è altro, non a caso, che quell’ubriacatura sconvolgente di senso del Seminario III per cui “tutto è segno”[xvii]. L’esperienza psicotica del paranoico descritta in apertura del Seminario (l’uomo della macchina rossa)[xviii], caratterizzandosi come un debordamento irrecuperabile di senso, un suo eccesso che finisce per inghiottire l’intera vita del soggetto, si distinguerebbe dalle altre configurazioni cliniche proprio perché mancante di un non-senso fondamentale, il solo in grado di rendere la vita dopotutto sopportabile, vivibile.
Respingere totalmente il reale, sottrarsi alla sua dimensione eccentrica al senso – far trionfare la religione – vuole dire cedere all’esperienza psicotica come incontro mancato con il reale quale limite del senso. Lo straripare del senso, nell’ininterrotto riferimento con cui esso insiste sul paranoico, decreterebbe la posizione del soggetto psicotico per come la compendia efficacemente Recalcati: “l’invadenza del senso toglie senso alla vita”[xix].
È con questo paradosso che dobbiamo prendere confidenza: affinché la vita abbia senso, deve possedere la sua dose salvifica di non-senso. L’assunzione di questa mancanza corrisponde precisamente alla capacità di farsi carico della verità ultima apportata dalla psicoanalisi – se proprio dobbiamo formularne una: non c’è totalizzazione della verità, non c’è sapere della verità eccetto che della sua incompletezza. O meglio, parafrasandolo in lacanese: non c’è Altro dell’Altro, nessun Altro autoconsistente che possa soddisfare veramente la nostra domanda o garantire per il nostro essere. È probabilmente a questo che fa riferimento Miller quando dice che “la scomparsa della domanda è la stessa cosa che acconsentire ad assumere la castrazione”[xx], cosa che appunto, nello psicotico incapace di sottrarre il reale della vita al suo non-senso di fondo, non avverrebbe.
Ma quest’ultimo punto costituisce un argomento certamente nevralgico del contributo di Lacan, e sarebbe grossolano svilupparlo limitandosi ad affiancare un paio di criptiche citazioni. Per poter arrivare al fondo della questione senza dissipare alcuna risorsa occorre prima compiere un giro più largo, che non può che farci passare per quello che è probabilmente uno dei lavori più pertinenti e densi offertici dall’editoria italiana sull’argomento. Sto parlando di Jacques Lacan e il buco del sapere (Orthotes, 2018, 242 pp.), mirabile fatica di Luigi Francesco Clemente.
Nel suo testo, un elaborato mausoleo di vicissitudini e strettoie filologiche, l’autore ingaggia un’approfondita e critica campagna contro la trappola che ha osteggiato – ma, ahimé, anche in parte sedotto – la psicoanalisi sin dall’inizio della sua storia: la degradazione al senso, la sfrontata riduzione dell’inconscio ad un’impagliatura ermeneutica. L’apporto malevolo dell’ermeneutica filosofica consisterebbe nel mettere una toppa al buco del sapere, nel coprire la falla dell’inconscio e, così facendo, dissimularne la natura, forzare l’interpretazione oltre il limite, ristabilendo allucinatoriamente un senso ultimo che garantisca una (pseudo)verità risolutiva al mistero della vita. Per far ciò, Clemente ripropone dettagliatamente il confronto-simbolo della questione, la tenzone tra Lacan e Ricoeur, per poi sviluppare la propria dissertazione – una volta risolti i “fraintendimenti” dell’illusione ermeneutica – sino al nocciolo dell’inconscio, l’altolà di ogni sapere che lo stesso Lacan ha definito essere “senza speranza”, un punto “su cui non abbiamo nessuna chance di riuscire”, lì dove “perdiamo radicalmente la bussola”[xxi]: la sessualità.
Sin dalla sua nascita, la psicoanalisi è stata chiamata al confronto serrato con il sapere filosofico (già Ferenczi, in Filosofia e psicoanalisi, metteva in guardia gli psicoanalisti contro il pericolo di adattare il loro rispettivo corpus di conoscenze ad uno speculativo strumento filosofico), a dimostrare di potersi distinguere da esso pur mantenendo una propria dignità epistemologica. In questo senso, Clemente fa della pubblicazione di Della Interpretazione (1965) di Ricoeur non solo la deflagrazione per antonomasia della bomba ermeneutica, ma – mi permetto di inferire – un vero e proprio ritorno del rimosso di tutte quelle questioni che Freud stesso non è stato in grado (o non ha avuto il tempo) di portare a termine. Agli occhi di Lacan, che chiama in causa Ricoeur ogni qualvolta, nel corso dei Seminari, si pronuncia sull’ermeneutica (ovvero tre esigue volte), Della Interpretazione non costituisce un cattivo testo – se così fosse stato, probabilmente non vi avrebbe fatto menzione alcuna. Ad essere pericolosi, nonché incorretti e deleteri, non sarebbero tanto i suoi contenuti, quanto gli stessi presupposti su cui lo scritto si fonda: per Ricoeur il culmine della svolta freudiana sarebbe consistito nel demolire “la tesi secondo la quale la coscienza avrebbe potere di autosignificarsi”.[xxii] Ovvero, merito di Freud sarebbe stato, secondo il filosofo, l’aver proclamato la detronizzazione dell’Io, tematizzando l’esistenza di una camera oscura, di un’Altra scena (eine andere Schauplatz) nella quale si staglierebbe il fondo di realtà ignota del soggetto. Sebbene la tesi di Ricoeur non costituisca di per sé un’eresia (almeno fino a questo punto), essa è tuttavia incorretta: a rendere complicato lo svincolo della psicoanalisi dalla filosofia è stata proprio la nozione di inconscio e il fatto che Freud non sia stato il primo a farvi menzione. Come anche lo stesso Lacan fa notare, già in La Rochefoucauld e nella sua nozione di amour-propre possiamo rinvenire un’”autentica ingannevolezza” dell’uomo che non ha nulla da invidiare al più sintetico concetto di inconscio. Con le parole di David Macey – tanto per citare un esempio rappresentativo – , “per Lacan, la nozione di amour-propre costituisce uno scorcio della natura dell’Io (…), la motivazione segreta nascosta dietro le azioni apparentemente ed altrimenti più altruistiche; il principale movente dietro ciascun comportamento umano, che però, trattandosi di una forza proteiforme (…), si occulta dietro maschere e travestimenti, non si manifesta mai in quanto tale.”[xxiii] A dire il vero, potremmo scardinare sin da subito il testo di Ricoeur opponendogli la cruciale e fatale conclusione propugnata da Macey, quel “non si manifesta mai in quanto tale” che basterebbe a ridurre, in un sol colpo, le cinquecento pagine di Della Interpretazione ad una commovente fatica di Sisifo. Ma procediamo con magnanimità.
Il fatto che dunque Ricoeur si limiti ad utilizzare Freud “contro l’idea di un cogito autocentrato” è tutt’al più grossolano, ma non grave. Ciò che fa problema è piuttosto il modo in cui egli concepisca questa dimensione, la natura dell’altra scena, che ritiene essere sì oscura, ma infondo conoscibile, velata ma svelabile: l’inconscio di Ricoeur è una dimensione interamente aperta alla chiarificazione interpretativa della parola, una realtà “essenzialmente conoscibile”[xxiv] sotto forma di “decifrazione delle espressioni della coscienza”[xxv].
La pericolosità di associare la psicoanalisi ad uno scavo ermeneutico sta proprio nel ridurre la verità dell’inconscio ad un senso estraibile – farne un sapere alla stregua degli altri -, nel rigettare il fatto che, come direbbe Sciacchitano, l’inconscio sia “un pozzo epistemico senza fondo”[xxvi]. Il peccato originale di Ricoeur, in definitiva, consisterebbe nell’aver negato la macchia “autenticamente pestifera dell’inconscio”[xxvii], quella da cui, a suo tempo, anche Jung si ritrasse: la sessualità. Per dirla con Clemente, l’errore di Ricoeur e della causa ermeneutica tout court risiederebbe nel passaggio “dal sesso al senso”[xxviii].
Ma se la questione dei tranelli del sesso non finisce qui – la riprenderemo poi –, il nome di Ricoeur si argina sulla riva del Seminario XIII, là dove, per l’ultima volta, la filosofia tocca l’oscurantismo per mezzo dell’ermeneutica. Insomma, se è vero che in ognuna delle tre apparizioni del termine ermeneutica nei Seminari si nasconda, non troppo velatamente, il nome di Ricoeur, lo stesso non può dirsi per il processo che Lacan muove alla filosofia. Se Ricoeur è il significato del significante ermeneutica, nel corso degli anni Sessanta l’ermeneutica riappare sotto le spoglie della filosofia facendo a meno del suo martire: “dire ermeneutica e dire filosofia, almeno a partire dagli anni Sessanta, per Lacan significa dire esattamente la stessa cosa”[xxix]. Il motivo per cui tale disciplina sarebbe così indigesta alla psicoanalisi, fa notare Clemente, è insito nella sua capacità di trascendere il proprio campo, di riversarsi pervasivamente là dove le falle dell’universo necessitano di essere turate con le pezze del senso o, per dirla con l’autore: “a fare la specificità della filosofia è esattamente l’estensione universale del suo campo”[xxx]. L’inclinazione filosofica a “mette[re] le pezze alle lacune e ai buchi dell’universo in quanto tale” la pone in stretta contraddizione con le politiche anti-totalizzanti della psicoanalisi, con la sua repellenza a far tornare i conti. Difatti, mentre la prima gode, letteralmente, della capacità di rendere il proprio edificio esente da falle, esponendo un sapere terso, lucido (e in quanto tale artificioso, ritoccato), quest’ultima avrebbe come indice di verità non tanto la chiarezza espressiva del materiale inconscio, il clamore lampante del significato del sintomo, ma piuttosto “la mancanza di verosimiglianza, la mancanza di un significato apparente.”[xxxi]
Anche Zizek, nel suo mastodontico Meno di niente sottoscrive questa tesi – seppur in diversa sede: la verità dell’inconscio non dipende dalla riproduzione fedele dei fatti, “ciò che rende veritiero [l’inconscio] (…) è proprio la sua inattendibilità fattuale, la sua confusione, la sua incoerenza”[xxxii].
A testimoniare dell’autenticità del materiale inconscio non sono i saperi inoppugnabili, ma le fratture e i traumi del simbolico, i punti ciechi da cui si propaga quell’insensatezza irriducibile alla storia soggettiva dell’individuo, alla sua storicizzazione. Sebbene di primo acchito quest’ultima possa sembrare una nozione provocatoria, articolata a tavolino per sabotare i legittimi tentativi della filosofia di impadronirsi della psicoanalisi, in realtà tale circoscrizione di non-senso viene a coincidere con l’emersione stessa della creatura freudiana.
Mi spiego meglio. Lungi dall’essere un suo effetto distale, un adeguamento a posteriori per ermetizzare la teoria psicoanalitica dalle incursioni esterne, il nocciolo intrattabile ed ininterpretabile dell’inconscio è invece da concepire come la causa, anziché l’effetto, della psicoanalisi, e questa evidenza è rinvenibile sin dagli Studi sull’Isteria: ““Proprio il carattere insignificante di tanti motivi, l’irrazionale di tanti nessi, saranno a favore della loro realtà.”[xxxiii]
In lacanese, potremmo dire che l’inclusione del soggetto nel simbolico – e dunque la stessa inaugurazione della soggettività – produca (e a sua volta venga prodotta da) una “scissione soggettiva”, uno scarto che separa irrimediabilmente il soggetto dal significante. Il problema della filosofia, a riguardo, risiede nell’incapacità di mettere le mani su tale nozione senza, irreparabilmente, ricomporre tale scarto, riempire le fessure e le scappatoie del senso ripresentando il soggetto come un tutto coeso, un’integra totalità trasparente a se stessa. La filosofia maschera lo scarto, “offusca la perdita”[xxxiv] e, in questo modo, produce la saturazione del senso, “non si avvede della dimensione evenemenziale”[xxxv] su cui si fonda la stessa psicoanalisi.
Una prima fondamentale conseguenza di questa distinzione dal punto di vista clinico, paradossalmente, ci viene proprio dalla penna di un (eminente) filosofo come Peter Sloterdijk, certo non un fan della psicoanalisi. In Fenomenologiche I, quarto capitolo della sua celebre Critica della ragion cinica, il filosofo tedesco lamenta di come “siamo stati abituati dalla psicoanalisi ad associare automaticamente la chiarificazione della nostra vita interiore con quella della nostra sessualità.”[xxxvi] Secondo Sloterdijk, in sintesi, la psicoanalisi sarebbe una sovrastruttura al servizio del capriccio borghese in grado di rimpinguare l’ideologico bisogno di realismo di questo viziato ceto sociale e contemporaneamente conservare l’inalienabilità dei loro valori (“non malvolentieri il borghese va sì al bordello, ivi convincendosi del comune denominatore tra dame e puttane; ma le due realtà restano separate, le differenze protette”[xxxvii]). Quest’analisi è difettante, oltre che difettosa, per una serie di ragioni.
In primo luogo, riconducendo l’inconscio alla curiosa animalità che abita il pomposo borghese civilizzato, l’autore raddoppia l’errore compiuto dalla fazione ermeneutica intestina alla psicoanalisi stessa, la Psicologia dell’Io. Entrambi insomma non solo peccherebbero del fare dell’inconscio una realtà materiale concreta, equivalente ad una mera fenomenologia pulsionale, una palude da bonificare (Sloterdijk non cede certamente al miraggio ortopedico dell’incivilimento dell’inconscio, il suo errore starebbe piuttosto nell’appiattire l’intera psicoanalisi su questa credenza, nel ridurre la psicoanalisi tout court alle misure ridotte della sua critica – un appiattimento dell’universale sul particolare che puzza di pregiudizio, insomma), ma finirebbero, identificando quest’ultimo con l’animale su cui poggia l’umano, per postularne la possibilità di prosciugarlo, di drenare da esso la sfera animal-sessuale. In particolare, la psicologia dell’Io farebbe questo tramite il ridicolo proposito di modellare la soggettività del paziente, il suo Io debole, su quella dell’Io forte dell’analista (proposito che si risolve in una grottesca trappola immaginaria); mentre Sloterdjik, punto ancor più importante, non potendo sottrarsi all’obbligatorietà di significare ideologicamente l’inconscio, ipostatizzerebbe il suo fondo concreto sotto forma di segreto: “con la tendenziale confusione di ‘segreto’ e ‘inconscio’ due generazioni di analisti e di pazienti sono state condannate a irreparabili e dolorose peripezie.”[xxxviii] Concludendo l’excursus, si evince come – che si “simpatizzi” o meno per la psicoanalisi – ciascun tentativo di significare “il nucleo di non-senso (…) che insiste al fondo di ogni sintomo”[xxxix] – come scrive Franco Lolli nella Prefazione a Clemente – non possa che misinterpretare l’inconscio (la roccia biologica freudiana, l’insensatezza che resiste ad ogni effrazione interpretativa) concependolo come conscio (il segreto, l’animalesco primordiale). Tentando di far apparire sotto forma di senso la verità dell’essere, l’ermeneutica finisce per alienarsi, per chiudersi in un circolo vizioso che, credendo di aver toccato il fondo dell’inconscio, dimora ancora prigioniera della parte più adombrata della coscienza. Lacan ha denunciato un simile fenomeno definendolo, sulla scia dell’illusione arcaica di Levi-Strauss[xl], psicologizzazione del soggetto, il tentativo di propinare un’interpretazione sull’inconscio che faccia leva sulle supposte credenze consce del soggetto.
La psicoanalisi allora sarebbe un sintomo proprio nell’accezione marxiana del termine: la sua natura, ciò che la distingue da una filosofia o da un’”ermeneutica ontologica, fondativa”[xli] starebbe proprio nel fatto che essa non si risolva nell’essere semplicemente il lume che getta luce sull’Altra scena, il detective che stana il doppio fondo insito in ogni discorso del Padrone. La natura marxiana del sintomo consiste nella rilevazione non del contenuto del trucco, ma del processo stesso che soprassiede e permette l’applicazione di questo trucco, la sua logica dissimulativa (retrocedendo questa analisi sullo stesso Marx, la psicoanalisi come sintomo non starebbe nella rilevazione del plus-valore, ma nella delucidazione della forza-lavoro come merce paradossale). Il genio freudiano risiede esattamente nella messa in risalto di questa contraddizione, nello sfaldamento, per ricorrere alle parole di Benvenuto, “di quell’avvallo dato a ogni ideologia e credenza che sia attuale, in atto, purché cioè abbia kairos, tempestività e successo storico.”[xlii]
Ma come nota Clemente, Lacan alla mano, la psicoanalisi non sarebbe potuta emergere senza la scissione inaudita operata da Cartesio, il filosofo che ha separato la questione del sapere da quella della verità: “le nostre rappresentazioni sono, in quanto rappresentazioni, assolutamente evidenti, ma non è evidente che ad esse corrisponda ciò che rappresentano.”[xliii] Nulla, insomma, ci può dire se alla certezza delle rappresentazioni corrisponda una qualche forma di verità. Questo agnosticismo scientifico fa sì che l’uomo di scienza, con Cartesio, “[possa] passare ad accumulare sapere su sapere, darsi allo studio della natura senza troppo stare ad arrovellarsi sui suoi fondamenti.”[xliv] Come anticipato nell’introduzione al presente scritto, il sapere, svincolato dall’onere della verità, può finalmente autorizzarsi da sé, “misura[rsi] in base a se stesso (…), alla propria capacità di produrre più sapere.”[xlv]
Il sapere insomma, come intuisce Clemente, diventa un plus-sapere, un sapere accumulativo che, proprio come il Capitale e come la pulsione lacaniana, tende ciecamente ed unicamente a incrementare costantemente la propria propagazione, esiste e resiste nonostante e contro tutto, imponendo la sua esigenza di autoperpetuamento; meta che, appunto come la pulsione, vortica attorno ad un vuoto e trae proprio dall’inconcludenza di quest’ultimo le ragioni del proprio acefalico rinnovamento. Per continuare il clamoroso parallelismo con la pulsione, così come essa si sgancia da ogni esigenza di vita finendo persino per lavorare contro di essa, così il sapere si svincola da qualsiasi rapporto con la verità, arrivando persino ad operare a suo detrimento nel caso in cui quest’ultima finisse per opporsi alla produzione di plus-sapere.
Ma la novità introdotta dal cogito cartesiano produce delle cruciali ripercussioni anche sulla religione. Se il sapere si è reso indipendente dalla verità, se il suo operato ha trovato nel suo stesso operare la sua meta, la religione rimane l’ambito elettivo per ripristinare un possibile quanto necessario rapporto tra sapere e verità. “La differenza tra religione e scienza riguarda essenzialmente, e senza possibilità di compromissione reciproca, due diverse modalità di accesso alla posizione del soggetto (…), due diverse modalità, assolutamente irriducibili l’una all’altra, di avvicinare la questione del rapporto sapere-verità.”[xlvi]
Cerchiamo di sviluppare ulteriormente tale decisiva questione. Con il passaggio alla scienza moderna (lo spettro di Koyré è un presupposto irrinunciabile ad ogni discorso del genere), la relazione tra sapere e verità fin lì tenuta insieme dalla scienza si risolve, con Cartesio, in un non-rapporto. Difatti “il sapere scientifico è produttivo proprio perché si è disinteressato dei suoi fondamenti di verità”[xlvii]. A questo punto, la verità viene relegata nella stretta asfissiante della religione e, così facendo, viene data come rivelata (“l’ermeneutica, situandosi nel solco della religione, mira ad un faccia a faccia tra sapere e verità”[xlviii]). Il postulato cardine della religione è che c’è un sapere sulla verità e che questo sapere deve essere in grado di “tradurre la Parola nelle parole”[xlix]. Questa distribuzione tra sapere e verità permette, contro la credenza comune, di far andare la scienza mano nella mano con la religione. Infatti “più la scienza porterà avanti le sue scoperte, più la religione fiorirà, fornendo quella “mappatura di senso” necessaria affinché l’uomo (e lo stesso scienziato) non rischi di “perdere l’orientamento”[l].
È solo a questo punto che si può comprendere perché Lacan faccia dell’ermeneutica l’ancella della religione. Il passaggio dall’ermeneutica ontologico-fondativa di Ricoeur al trionfo della religione, deduco, avverrebbe allora proprio nell’istante in cui quest’ultima riesca a sussumere la prima nel suo programma, a farne un suo strumento. Di conseguenza, come specifica Lacan, rispetto a tale assetto la psicoanalisi-sintomo non può che, se vuole rimanere fedele a se stessa (cioè etica), assumere una posizione “essenzialmente demistificante”[li]. La psicoanalisi è chiamata a demistificare l’idea che questa ricerca del senso possa condurre ad una verità nascosta da qualche parte, in attesa di essere saputa. In che modo? Perpetuando e mantenendo attivamente vivo lo scarto fondamentale tra sapere e verità. L’inconscio, del resto, non è che l’altro volto di questo non-rapporto o, come sostiene Lacan in Radiofonia “quel sapere che non si sostiene altrimenti che prestandosi come impossibile”[lii]. Del resto, è proprio il fatto che questo sapere si presenti come impossibile a generare il sentimento di verità, quel sentimento di visceralità che, pur non scommettendo su di un nucleo teorico espressamente formalizzato, riesce a prenderci per la credenza, a suscitare in noi il sentimento della verità[liii]. Ridurre il simbolico ad una teleologia del senso, marchio messianico del trionfo della religione, produrrebbe un grave fraintendimento, poiché implicherebbe “il fare della seduta analitica e della propria posizione un luogo in cui e da cui discernere senso”, nonché “il trasformare l’interpretazione analitica in interpretazione religiosa”[liv], nella vincolante proclamazione delfica senza scampo del tu sei questo.
Ritengo che anche Lorenzo Chiesa, a riguardo, abbia centrato il punto: nel suo ormai classico Subjectivity and otherness descrive proprio come i fraintendimenti del discorso dell’analista finirebbero per ribaltarsi con grossolana fragilità in quello stesso discorso del Padrone che la psicoanalisi si propone di smontare.[lv] Estendendo il discorso di Clemente con quello di Chiesa, un’interpretazione che non si voglia religiosa, che non voglia rimanere preda delle tagliole assolutizzanti del discorso del Padrone, non deve puntare ad ampliare il sapere dell’analizzando, prefigurandosi di espanderne le conoscenze o propinandogli una formula di salvifico auto-accrescimento, è vero esattamente il contrario: l’interpretazione di fine analisi è tale proprio perché circoscrive quella roccia, quel nocciolo di non-senso o “significante irriducibile” che, anziché sostenersi su saperi pregressi faccia vacillare quest’ultimi sino a rivelarne l’inesorabile inconsistenza. Non basta semplicemente dire cinicamente che “non ci avviciniamo alla realtà sapendo di più”[lvi], ma bisogna estremizzare questa tesi fino a farla toccare con il più viscerale degli effetti di verità, ovvero che “c’è uno scarto irriducibile” e questo abisso agnostico si staglia, precisamente, “tra sesso e sapere”[lvii].
Quando in Il mio insegnamento Lacan afferma esplicitamente che “la sessualità buca la verità” e che essa sia precisamente quel terreno “in cui non si sa che pesci pigliare a proposito di ciò che è vero”[lviii] arriva, contemporaneamente, a toccare il punto più alto del suo “romanticismo” e a distaccarsi massimamente dall’indulgenza ermeneutica, in quanto la mancanza che queste parole tematizzano, il buco del sapere, è reale, extrasoggettivo e, allo stesso tempo, fulcro e origine della soggettività.
Apprestandoci alla conclusione della nostra analisi, non resta che, come anticipato, riportare il buco del sapere alla stessa sessualità e vedere sin dove tale dissertazione ci conduca. Ripartirò, nuovamente, dall’eloquente prosa dell’autore: “il soggetto dell’inconscio è quello che evita il sapere del sesso.”[lix]
Come abbiamo osservato, l’accumulazione del sapere finisce per rivelarsi, oltre che uno schermo illusorio, anche una pratica asintotica, che urta contro un’inesorabile inconcludenza, e questo perché il sapere stesso è un paiolo bucato. Possiamo rintracciare questa falla esattamente a livello della sessualità, là dove Freud ha piantato le colonne d’Ercole dell’analisi, ovvero la roccia biologica.
Nella postilla a Leggere Freud, Sergio Benvenuto riprende un noto articolo – per lo meno tra i biologi – di Gould e Lewontin in cui gli autori, riportando l’esempio dei pennacchi della cupola di San Marco, avanzano l’ipotesi che questi ultimi non risponderebbero ad alcuna esigenza estetica, ma sarebbero semplicemente il prodotto collaterale obbligato che consegue alla costruzione degli archi, ovvero dei free rider. Questo curioso argomento serve a Benvenuto per tracciare uno strano quanto seducente parallelismo, potendo così arrivare a dire che anche “la sessualità come la intende Freud è un free rider”[lx], ovvero un’inestricabile eccedenza che deborda dalla fitness riproduttiva esercitando, ciononostante, effetti strutturali. Anzi, volendo spingere il discorso alle sue estreme conseguenze, potremmo riformulare quest’ultimo punto ricorrendo ad una declinazione persino più radicale, sebbene non estranea a Benvenuto: nel passaggio concettuale che dalla sessualità come fitness (1) conduce obbligatoriamente alla sua insensata escrescenza (2), notiamo come la seconda unità opposizionale, effetto distale di (1), finisca per prevaricare sulla prima. Prevaricazione che, come scrive lo stesso autore in Confini dell’interpretazione, deve essere qui intesa nella doppia accezione del termine: un dominio illegittimo e allo stesso tempo un semplice scavalcamento. Insomma, questa specie di Aufhebung ibrida non avverrebbe per mezzo di un terzo termine che (e)levi dialetticamente la tesi (1) e l’antitesi (2), che sintetizzi e superi la loro contraddizione, ma piuttosto essa consisterebbe “in un gioco di asimmetria per cui un termine derivato [strutturalmente] (per opposizione o implicazione) prevale di volta in volta sul precedente”[lxi]. Insomma, la sessualità freudiana, il misterioso free rider, apparirebbe geneticamente come un termine secondario al processo filogenetico di procreazione e preservazione della specie, ma poi, con una sorta di ritorsione, finirebbe per assoggettare strutturalmente quest’ultimo come suo sotto-insieme, divenendone un principio tanto soverchiante quanto antitetico. È questa prevaricazione della sessualità (2) sul sesso (1) (per differenziare e fluidificare l’utilizzo dei termini) a divenire la causa strutturale irrecuperabile e non simbolizzabile che, sfuggendo a qualsiasi comprensione o magnetismo del senso, viene isolata ed esaltata come buco del sapere, roccia ultima che resiste e proclama la fine dell’analisi. Ma questo nucleo della comprensione, l’isolamento prodotto dall’interpretazione di fine analisi, “è un nucleo di non-senso che sfugge al soggetto stesso”[lxii] precisa Clemente, ovvero, la sua comprensione come incomprensione ultimativa (la “verità dell’incompletezza”, direbbe Chiesa) può essere colta solo come effetto tardivo, anzi, è la comprensione stessa ad equivalere a questo effetto tardivo, coincidente con il tentativo disperato e necessario di rattoppare, in qualche modo, la traumatica esposizione di questa falla di senso. Ma sostenere che l’emergenza del buco del sapere possa essere colta solo tramite l’atto retroattivo di turare questa stessa mancanza fa corrispondere tale processo al duplice momento di dissoluzione e ricodificazione specifico della cornice fantasmatica. Ciò implica due importanti conseguenze:
Ma la schizofrenia collettiva cui si fa qui riferimento non è altro, non a caso, che quell’ubriacatura sconvolgente di senso del Seminario III per cui “tutto è segno”[xvii]. L’esperienza psicotica del paranoico descritta in apertura del Seminario (l’uomo della macchina rossa)[xviii], caratterizzandosi come un debordamento irrecuperabile di senso, un suo eccesso che finisce per inghiottire l’intera vita del soggetto, si distinguerebbe dalle altre configurazioni cliniche proprio perché mancante di un non-senso fondamentale, il solo in grado di rendere la vita dopotutto sopportabile, vivibile.
Respingere totalmente il reale, sottrarsi alla sua dimensione eccentrica al senso – far trionfare la religione – vuole dire cedere all’esperienza psicotica come incontro mancato con il reale quale limite del senso. Lo straripare del senso, nell’ininterrotto riferimento con cui esso insiste sul paranoico, decreterebbe la posizione del soggetto psicotico per come la compendia efficacemente Recalcati: “l’invadenza del senso toglie senso alla vita”[xix].
È con questo paradosso che dobbiamo prendere confidenza: affinché la vita abbia senso, deve possedere la sua dose salvifica di non-senso. L’assunzione di questa mancanza corrisponde precisamente alla capacità di farsi carico della verità ultima apportata dalla psicoanalisi – se proprio dobbiamo formularne una: non c’è totalizzazione della verità, non c’è sapere della verità eccetto che della sua incompletezza. O meglio, parafrasandolo in lacanese: non c’è Altro dell’Altro, nessun Altro autoconsistente che possa soddisfare veramente la nostra domanda o garantire per il nostro essere. È probabilmente a questo che fa riferimento Miller quando dice che “la scomparsa della domanda è la stessa cosa che acconsentire ad assumere la castrazione”[xx], cosa che appunto, nello psicotico incapace di sottrarre il reale della vita al suo non-senso di fondo, non avverrebbe.
Ma quest’ultimo punto costituisce un argomento certamente nevralgico del contributo di Lacan, e sarebbe grossolano svilupparlo limitandosi ad affiancare un paio di criptiche citazioni. Per poter arrivare al fondo della questione senza dissipare alcuna risorsa occorre prima compiere un giro più largo, che non può che farci passare per quello che è probabilmente uno dei lavori più pertinenti e densi offertici dall’editoria italiana sull’argomento. Sto parlando di Jacques Lacan e il buco del sapere (Orthotes, 2018, 242 pp.), mirabile fatica di Luigi Francesco Clemente.
Nel suo testo, un elaborato mausoleo di vicissitudini e strettoie filologiche, l’autore ingaggia un’approfondita e critica campagna contro la trappola che ha osteggiato – ma, ahimé, anche in parte sedotto – la psicoanalisi sin dall’inizio della sua storia: la degradazione al senso, la sfrontata riduzione dell’inconscio ad un’impagliatura ermeneutica. L’apporto malevolo dell’ermeneutica filosofica consisterebbe nel mettere una toppa al buco del sapere, nel coprire la falla dell’inconscio e, così facendo, dissimularne la natura, forzare l’interpretazione oltre il limite, ristabilendo allucinatoriamente un senso ultimo che garantisca una (pseudo)verità risolutiva al mistero della vita. Per far ciò, Clemente ripropone dettagliatamente il confronto-simbolo della questione, la tenzone tra Lacan e Ricoeur, per poi sviluppare la propria dissertazione – una volta risolti i “fraintendimenti” dell’illusione ermeneutica – sino al nocciolo dell’inconscio, l’altolà di ogni sapere che lo stesso Lacan ha definito essere “senza speranza”, un punto “su cui non abbiamo nessuna chance di riuscire”, lì dove “perdiamo radicalmente la bussola”[xxi]: la sessualità.
Sin dalla sua nascita, la psicoanalisi è stata chiamata al confronto serrato con il sapere filosofico (già Ferenczi, in Filosofia e psicoanalisi, metteva in guardia gli psicoanalisti contro il pericolo di adattare il loro rispettivo corpus di conoscenze ad uno speculativo strumento filosofico), a dimostrare di potersi distinguere da esso pur mantenendo una propria dignità epistemologica. In questo senso, Clemente fa della pubblicazione di Della Interpretazione (1965) di Ricoeur non solo la deflagrazione per antonomasia della bomba ermeneutica, ma – mi permetto di inferire – un vero e proprio ritorno del rimosso di tutte quelle questioni che Freud stesso non è stato in grado (o non ha avuto il tempo) di portare a termine. Agli occhi di Lacan, che chiama in causa Ricoeur ogni qualvolta, nel corso dei Seminari, si pronuncia sull’ermeneutica (ovvero tre esigue volte), Della Interpretazione non costituisce un cattivo testo – se così fosse stato, probabilmente non vi avrebbe fatto menzione alcuna. Ad essere pericolosi, nonché incorretti e deleteri, non sarebbero tanto i suoi contenuti, quanto gli stessi presupposti su cui lo scritto si fonda: per Ricoeur il culmine della svolta freudiana sarebbe consistito nel demolire “la tesi secondo la quale la coscienza avrebbe potere di autosignificarsi”.[xxii] Ovvero, merito di Freud sarebbe stato, secondo il filosofo, l’aver proclamato la detronizzazione dell’Io, tematizzando l’esistenza di una camera oscura, di un’Altra scena (eine andere Schauplatz) nella quale si staglierebbe il fondo di realtà ignota del soggetto. Sebbene la tesi di Ricoeur non costituisca di per sé un’eresia (almeno fino a questo punto), essa è tuttavia incorretta: a rendere complicato lo svincolo della psicoanalisi dalla filosofia è stata proprio la nozione di inconscio e il fatto che Freud non sia stato il primo a farvi menzione. Come anche lo stesso Lacan fa notare, già in La Rochefoucauld e nella sua nozione di amour-propre possiamo rinvenire un’”autentica ingannevolezza” dell’uomo che non ha nulla da invidiare al più sintetico concetto di inconscio. Con le parole di David Macey – tanto per citare un esempio rappresentativo – , “per Lacan, la nozione di amour-propre costituisce uno scorcio della natura dell’Io (…), la motivazione segreta nascosta dietro le azioni apparentemente ed altrimenti più altruistiche; il principale movente dietro ciascun comportamento umano, che però, trattandosi di una forza proteiforme (…), si occulta dietro maschere e travestimenti, non si manifesta mai in quanto tale.”[xxiii] A dire il vero, potremmo scardinare sin da subito il testo di Ricoeur opponendogli la cruciale e fatale conclusione propugnata da Macey, quel “non si manifesta mai in quanto tale” che basterebbe a ridurre, in un sol colpo, le cinquecento pagine di Della Interpretazione ad una commovente fatica di Sisifo. Ma procediamo con magnanimità.
Il fatto che dunque Ricoeur si limiti ad utilizzare Freud “contro l’idea di un cogito autocentrato” è tutt’al più grossolano, ma non grave. Ciò che fa problema è piuttosto il modo in cui egli concepisca questa dimensione, la natura dell’altra scena, che ritiene essere sì oscura, ma infondo conoscibile, velata ma svelabile: l’inconscio di Ricoeur è una dimensione interamente aperta alla chiarificazione interpretativa della parola, una realtà “essenzialmente conoscibile”[xxiv] sotto forma di “decifrazione delle espressioni della coscienza”[xxv].
La pericolosità di associare la psicoanalisi ad uno scavo ermeneutico sta proprio nel ridurre la verità dell’inconscio ad un senso estraibile – farne un sapere alla stregua degli altri -, nel rigettare il fatto che, come direbbe Sciacchitano, l’inconscio sia “un pozzo epistemico senza fondo”[xxvi]. Il peccato originale di Ricoeur, in definitiva, consisterebbe nell’aver negato la macchia “autenticamente pestifera dell’inconscio”[xxvii], quella da cui, a suo tempo, anche Jung si ritrasse: la sessualità. Per dirla con Clemente, l’errore di Ricoeur e della causa ermeneutica tout court risiederebbe nel passaggio “dal sesso al senso”[xxviii].
Ma se la questione dei tranelli del sesso non finisce qui – la riprenderemo poi –, il nome di Ricoeur si argina sulla riva del Seminario XIII, là dove, per l’ultima volta, la filosofia tocca l’oscurantismo per mezzo dell’ermeneutica. Insomma, se è vero che in ognuna delle tre apparizioni del termine ermeneutica nei Seminari si nasconda, non troppo velatamente, il nome di Ricoeur, lo stesso non può dirsi per il processo che Lacan muove alla filosofia. Se Ricoeur è il significato del significante ermeneutica, nel corso degli anni Sessanta l’ermeneutica riappare sotto le spoglie della filosofia facendo a meno del suo martire: “dire ermeneutica e dire filosofia, almeno a partire dagli anni Sessanta, per Lacan significa dire esattamente la stessa cosa”[xxix]. Il motivo per cui tale disciplina sarebbe così indigesta alla psicoanalisi, fa notare Clemente, è insito nella sua capacità di trascendere il proprio campo, di riversarsi pervasivamente là dove le falle dell’universo necessitano di essere turate con le pezze del senso o, per dirla con l’autore: “a fare la specificità della filosofia è esattamente l’estensione universale del suo campo”[xxx]. L’inclinazione filosofica a “mette[re] le pezze alle lacune e ai buchi dell’universo in quanto tale” la pone in stretta contraddizione con le politiche anti-totalizzanti della psicoanalisi, con la sua repellenza a far tornare i conti. Difatti, mentre la prima gode, letteralmente, della capacità di rendere il proprio edificio esente da falle, esponendo un sapere terso, lucido (e in quanto tale artificioso, ritoccato), quest’ultima avrebbe come indice di verità non tanto la chiarezza espressiva del materiale inconscio, il clamore lampante del significato del sintomo, ma piuttosto “la mancanza di verosimiglianza, la mancanza di un significato apparente.”[xxxi]
Anche Zizek, nel suo mastodontico Meno di niente sottoscrive questa tesi – seppur in diversa sede: la verità dell’inconscio non dipende dalla riproduzione fedele dei fatti, “ciò che rende veritiero [l’inconscio] (…) è proprio la sua inattendibilità fattuale, la sua confusione, la sua incoerenza”[xxxii].
A testimoniare dell’autenticità del materiale inconscio non sono i saperi inoppugnabili, ma le fratture e i traumi del simbolico, i punti ciechi da cui si propaga quell’insensatezza irriducibile alla storia soggettiva dell’individuo, alla sua storicizzazione. Sebbene di primo acchito quest’ultima possa sembrare una nozione provocatoria, articolata a tavolino per sabotare i legittimi tentativi della filosofia di impadronirsi della psicoanalisi, in realtà tale circoscrizione di non-senso viene a coincidere con l’emersione stessa della creatura freudiana.
Mi spiego meglio. Lungi dall’essere un suo effetto distale, un adeguamento a posteriori per ermetizzare la teoria psicoanalitica dalle incursioni esterne, il nocciolo intrattabile ed ininterpretabile dell’inconscio è invece da concepire come la causa, anziché l’effetto, della psicoanalisi, e questa evidenza è rinvenibile sin dagli Studi sull’Isteria: ““Proprio il carattere insignificante di tanti motivi, l’irrazionale di tanti nessi, saranno a favore della loro realtà.”[xxxiii]
In lacanese, potremmo dire che l’inclusione del soggetto nel simbolico – e dunque la stessa inaugurazione della soggettività – produca (e a sua volta venga prodotta da) una “scissione soggettiva”, uno scarto che separa irrimediabilmente il soggetto dal significante. Il problema della filosofia, a riguardo, risiede nell’incapacità di mettere le mani su tale nozione senza, irreparabilmente, ricomporre tale scarto, riempire le fessure e le scappatoie del senso ripresentando il soggetto come un tutto coeso, un’integra totalità trasparente a se stessa. La filosofia maschera lo scarto, “offusca la perdita”[xxxiv] e, in questo modo, produce la saturazione del senso, “non si avvede della dimensione evenemenziale”[xxxv] su cui si fonda la stessa psicoanalisi.
Una prima fondamentale conseguenza di questa distinzione dal punto di vista clinico, paradossalmente, ci viene proprio dalla penna di un (eminente) filosofo come Peter Sloterdijk, certo non un fan della psicoanalisi. In Fenomenologiche I, quarto capitolo della sua celebre Critica della ragion cinica, il filosofo tedesco lamenta di come “siamo stati abituati dalla psicoanalisi ad associare automaticamente la chiarificazione della nostra vita interiore con quella della nostra sessualità.”[xxxvi] Secondo Sloterdijk, in sintesi, la psicoanalisi sarebbe una sovrastruttura al servizio del capriccio borghese in grado di rimpinguare l’ideologico bisogno di realismo di questo viziato ceto sociale e contemporaneamente conservare l’inalienabilità dei loro valori (“non malvolentieri il borghese va sì al bordello, ivi convincendosi del comune denominatore tra dame e puttane; ma le due realtà restano separate, le differenze protette”[xxxvii]). Quest’analisi è difettante, oltre che difettosa, per una serie di ragioni.
In primo luogo, riconducendo l’inconscio alla curiosa animalità che abita il pomposo borghese civilizzato, l’autore raddoppia l’errore compiuto dalla fazione ermeneutica intestina alla psicoanalisi stessa, la Psicologia dell’Io. Entrambi insomma non solo peccherebbero del fare dell’inconscio una realtà materiale concreta, equivalente ad una mera fenomenologia pulsionale, una palude da bonificare (Sloterdijk non cede certamente al miraggio ortopedico dell’incivilimento dell’inconscio, il suo errore starebbe piuttosto nell’appiattire l’intera psicoanalisi su questa credenza, nel ridurre la psicoanalisi tout court alle misure ridotte della sua critica – un appiattimento dell’universale sul particolare che puzza di pregiudizio, insomma), ma finirebbero, identificando quest’ultimo con l’animale su cui poggia l’umano, per postularne la possibilità di prosciugarlo, di drenare da esso la sfera animal-sessuale. In particolare, la psicologia dell’Io farebbe questo tramite il ridicolo proposito di modellare la soggettività del paziente, il suo Io debole, su quella dell’Io forte dell’analista (proposito che si risolve in una grottesca trappola immaginaria); mentre Sloterdjik, punto ancor più importante, non potendo sottrarsi all’obbligatorietà di significare ideologicamente l’inconscio, ipostatizzerebbe il suo fondo concreto sotto forma di segreto: “con la tendenziale confusione di ‘segreto’ e ‘inconscio’ due generazioni di analisti e di pazienti sono state condannate a irreparabili e dolorose peripezie.”[xxxviii] Concludendo l’excursus, si evince come – che si “simpatizzi” o meno per la psicoanalisi – ciascun tentativo di significare “il nucleo di non-senso (…) che insiste al fondo di ogni sintomo”[xxxix] – come scrive Franco Lolli nella Prefazione a Clemente – non possa che misinterpretare l’inconscio (la roccia biologica freudiana, l’insensatezza che resiste ad ogni effrazione interpretativa) concependolo come conscio (il segreto, l’animalesco primordiale). Tentando di far apparire sotto forma di senso la verità dell’essere, l’ermeneutica finisce per alienarsi, per chiudersi in un circolo vizioso che, credendo di aver toccato il fondo dell’inconscio, dimora ancora prigioniera della parte più adombrata della coscienza. Lacan ha denunciato un simile fenomeno definendolo, sulla scia dell’illusione arcaica di Levi-Strauss[xl], psicologizzazione del soggetto, il tentativo di propinare un’interpretazione sull’inconscio che faccia leva sulle supposte credenze consce del soggetto.
La psicoanalisi allora sarebbe un sintomo proprio nell’accezione marxiana del termine: la sua natura, ciò che la distingue da una filosofia o da un’”ermeneutica ontologica, fondativa”[xli] starebbe proprio nel fatto che essa non si risolva nell’essere semplicemente il lume che getta luce sull’Altra scena, il detective che stana il doppio fondo insito in ogni discorso del Padrone. La natura marxiana del sintomo consiste nella rilevazione non del contenuto del trucco, ma del processo stesso che soprassiede e permette l’applicazione di questo trucco, la sua logica dissimulativa (retrocedendo questa analisi sullo stesso Marx, la psicoanalisi come sintomo non starebbe nella rilevazione del plus-valore, ma nella delucidazione della forza-lavoro come merce paradossale). Il genio freudiano risiede esattamente nella messa in risalto di questa contraddizione, nello sfaldamento, per ricorrere alle parole di Benvenuto, “di quell’avvallo dato a ogni ideologia e credenza che sia attuale, in atto, purché cioè abbia kairos, tempestività e successo storico.”[xlii]
Ma come nota Clemente, Lacan alla mano, la psicoanalisi non sarebbe potuta emergere senza la scissione inaudita operata da Cartesio, il filosofo che ha separato la questione del sapere da quella della verità: “le nostre rappresentazioni sono, in quanto rappresentazioni, assolutamente evidenti, ma non è evidente che ad esse corrisponda ciò che rappresentano.”[xliii] Nulla, insomma, ci può dire se alla certezza delle rappresentazioni corrisponda una qualche forma di verità. Questo agnosticismo scientifico fa sì che l’uomo di scienza, con Cartesio, “[possa] passare ad accumulare sapere su sapere, darsi allo studio della natura senza troppo stare ad arrovellarsi sui suoi fondamenti.”[xliv] Come anticipato nell’introduzione al presente scritto, il sapere, svincolato dall’onere della verità, può finalmente autorizzarsi da sé, “misura[rsi] in base a se stesso (…), alla propria capacità di produrre più sapere.”[xlv]
Il sapere insomma, come intuisce Clemente, diventa un plus-sapere, un sapere accumulativo che, proprio come il Capitale e come la pulsione lacaniana, tende ciecamente ed unicamente a incrementare costantemente la propria propagazione, esiste e resiste nonostante e contro tutto, imponendo la sua esigenza di autoperpetuamento; meta che, appunto come la pulsione, vortica attorno ad un vuoto e trae proprio dall’inconcludenza di quest’ultimo le ragioni del proprio acefalico rinnovamento. Per continuare il clamoroso parallelismo con la pulsione, così come essa si sgancia da ogni esigenza di vita finendo persino per lavorare contro di essa, così il sapere si svincola da qualsiasi rapporto con la verità, arrivando persino ad operare a suo detrimento nel caso in cui quest’ultima finisse per opporsi alla produzione di plus-sapere.
Ma la novità introdotta dal cogito cartesiano produce delle cruciali ripercussioni anche sulla religione. Se il sapere si è reso indipendente dalla verità, se il suo operato ha trovato nel suo stesso operare la sua meta, la religione rimane l’ambito elettivo per ripristinare un possibile quanto necessario rapporto tra sapere e verità. “La differenza tra religione e scienza riguarda essenzialmente, e senza possibilità di compromissione reciproca, due diverse modalità di accesso alla posizione del soggetto (…), due diverse modalità, assolutamente irriducibili l’una all’altra, di avvicinare la questione del rapporto sapere-verità.”[xlvi]
Cerchiamo di sviluppare ulteriormente tale decisiva questione. Con il passaggio alla scienza moderna (lo spettro di Koyré è un presupposto irrinunciabile ad ogni discorso del genere), la relazione tra sapere e verità fin lì tenuta insieme dalla scienza si risolve, con Cartesio, in un non-rapporto. Difatti “il sapere scientifico è produttivo proprio perché si è disinteressato dei suoi fondamenti di verità”[xlvii]. A questo punto, la verità viene relegata nella stretta asfissiante della religione e, così facendo, viene data come rivelata (“l’ermeneutica, situandosi nel solco della religione, mira ad un faccia a faccia tra sapere e verità”[xlviii]). Il postulato cardine della religione è che c’è un sapere sulla verità e che questo sapere deve essere in grado di “tradurre la Parola nelle parole”[xlix]. Questa distribuzione tra sapere e verità permette, contro la credenza comune, di far andare la scienza mano nella mano con la religione. Infatti “più la scienza porterà avanti le sue scoperte, più la religione fiorirà, fornendo quella “mappatura di senso” necessaria affinché l’uomo (e lo stesso scienziato) non rischi di “perdere l’orientamento”[l].
È solo a questo punto che si può comprendere perché Lacan faccia dell’ermeneutica l’ancella della religione. Il passaggio dall’ermeneutica ontologico-fondativa di Ricoeur al trionfo della religione, deduco, avverrebbe allora proprio nell’istante in cui quest’ultima riesca a sussumere la prima nel suo programma, a farne un suo strumento. Di conseguenza, come specifica Lacan, rispetto a tale assetto la psicoanalisi-sintomo non può che, se vuole rimanere fedele a se stessa (cioè etica), assumere una posizione “essenzialmente demistificante”[li]. La psicoanalisi è chiamata a demistificare l’idea che questa ricerca del senso possa condurre ad una verità nascosta da qualche parte, in attesa di essere saputa. In che modo? Perpetuando e mantenendo attivamente vivo lo scarto fondamentale tra sapere e verità. L’inconscio, del resto, non è che l’altro volto di questo non-rapporto o, come sostiene Lacan in Radiofonia “quel sapere che non si sostiene altrimenti che prestandosi come impossibile”[lii]. Del resto, è proprio il fatto che questo sapere si presenti come impossibile a generare il sentimento di verità, quel sentimento di visceralità che, pur non scommettendo su di un nucleo teorico espressamente formalizzato, riesce a prenderci per la credenza, a suscitare in noi il sentimento della verità[liii]. Ridurre il simbolico ad una teleologia del senso, marchio messianico del trionfo della religione, produrrebbe un grave fraintendimento, poiché implicherebbe “il fare della seduta analitica e della propria posizione un luogo in cui e da cui discernere senso”, nonché “il trasformare l’interpretazione analitica in interpretazione religiosa”[liv], nella vincolante proclamazione delfica senza scampo del tu sei questo.
Ritengo che anche Lorenzo Chiesa, a riguardo, abbia centrato il punto: nel suo ormai classico Subjectivity and otherness descrive proprio come i fraintendimenti del discorso dell’analista finirebbero per ribaltarsi con grossolana fragilità in quello stesso discorso del Padrone che la psicoanalisi si propone di smontare.[lv] Estendendo il discorso di Clemente con quello di Chiesa, un’interpretazione che non si voglia religiosa, che non voglia rimanere preda delle tagliole assolutizzanti del discorso del Padrone, non deve puntare ad ampliare il sapere dell’analizzando, prefigurandosi di espanderne le conoscenze o propinandogli una formula di salvifico auto-accrescimento, è vero esattamente il contrario: l’interpretazione di fine analisi è tale proprio perché circoscrive quella roccia, quel nocciolo di non-senso o “significante irriducibile” che, anziché sostenersi su saperi pregressi faccia vacillare quest’ultimi sino a rivelarne l’inesorabile inconsistenza. Non basta semplicemente dire cinicamente che “non ci avviciniamo alla realtà sapendo di più”[lvi], ma bisogna estremizzare questa tesi fino a farla toccare con il più viscerale degli effetti di verità, ovvero che “c’è uno scarto irriducibile” e questo abisso agnostico si staglia, precisamente, “tra sesso e sapere”[lvii].
Quando in Il mio insegnamento Lacan afferma esplicitamente che “la sessualità buca la verità” e che essa sia precisamente quel terreno “in cui non si sa che pesci pigliare a proposito di ciò che è vero”[lviii] arriva, contemporaneamente, a toccare il punto più alto del suo “romanticismo” e a distaccarsi massimamente dall’indulgenza ermeneutica, in quanto la mancanza che queste parole tematizzano, il buco del sapere, è reale, extrasoggettivo e, allo stesso tempo, fulcro e origine della soggettività.
Apprestandoci alla conclusione della nostra analisi, non resta che, come anticipato, riportare il buco del sapere alla stessa sessualità e vedere sin dove tale dissertazione ci conduca. Ripartirò, nuovamente, dall’eloquente prosa dell’autore: “il soggetto dell’inconscio è quello che evita il sapere del sesso.”[lix]
Come abbiamo osservato, l’accumulazione del sapere finisce per rivelarsi, oltre che uno schermo illusorio, anche una pratica asintotica, che urta contro un’inesorabile inconcludenza, e questo perché il sapere stesso è un paiolo bucato. Possiamo rintracciare questa falla esattamente a livello della sessualità, là dove Freud ha piantato le colonne d’Ercole dell’analisi, ovvero la roccia biologica.
Nella postilla a Leggere Freud, Sergio Benvenuto riprende un noto articolo – per lo meno tra i biologi – di Gould e Lewontin in cui gli autori, riportando l’esempio dei pennacchi della cupola di San Marco, avanzano l’ipotesi che questi ultimi non risponderebbero ad alcuna esigenza estetica, ma sarebbero semplicemente il prodotto collaterale obbligato che consegue alla costruzione degli archi, ovvero dei free rider. Questo curioso argomento serve a Benvenuto per tracciare uno strano quanto seducente parallelismo, potendo così arrivare a dire che anche “la sessualità come la intende Freud è un free rider”[lx], ovvero un’inestricabile eccedenza che deborda dalla fitness riproduttiva esercitando, ciononostante, effetti strutturali. Anzi, volendo spingere il discorso alle sue estreme conseguenze, potremmo riformulare quest’ultimo punto ricorrendo ad una declinazione persino più radicale, sebbene non estranea a Benvenuto: nel passaggio concettuale che dalla sessualità come fitness (1) conduce obbligatoriamente alla sua insensata escrescenza (2), notiamo come la seconda unità opposizionale, effetto distale di (1), finisca per prevaricare sulla prima. Prevaricazione che, come scrive lo stesso autore in Confini dell’interpretazione, deve essere qui intesa nella doppia accezione del termine: un dominio illegittimo e allo stesso tempo un semplice scavalcamento. Insomma, questa specie di Aufhebung ibrida non avverrebbe per mezzo di un terzo termine che (e)levi dialetticamente la tesi (1) e l’antitesi (2), che sintetizzi e superi la loro contraddizione, ma piuttosto essa consisterebbe “in un gioco di asimmetria per cui un termine derivato [strutturalmente] (per opposizione o implicazione) prevale di volta in volta sul precedente”[lxi]. Insomma, la sessualità freudiana, il misterioso free rider, apparirebbe geneticamente come un termine secondario al processo filogenetico di procreazione e preservazione della specie, ma poi, con una sorta di ritorsione, finirebbe per assoggettare strutturalmente quest’ultimo come suo sotto-insieme, divenendone un principio tanto soverchiante quanto antitetico. È questa prevaricazione della sessualità (2) sul sesso (1) (per differenziare e fluidificare l’utilizzo dei termini) a divenire la causa strutturale irrecuperabile e non simbolizzabile che, sfuggendo a qualsiasi comprensione o magnetismo del senso, viene isolata ed esaltata come buco del sapere, roccia ultima che resiste e proclama la fine dell’analisi. Ma questo nucleo della comprensione, l’isolamento prodotto dall’interpretazione di fine analisi, “è un nucleo di non-senso che sfugge al soggetto stesso”[lxii] precisa Clemente, ovvero, la sua comprensione come incomprensione ultimativa (la “verità dell’incompletezza”, direbbe Chiesa) può essere colta solo come effetto tardivo, anzi, è la comprensione stessa ad equivalere a questo effetto tardivo, coincidente con il tentativo disperato e necessario di rattoppare, in qualche modo, la traumatica esposizione di questa falla di senso. Ma sostenere che l’emergenza del buco del sapere possa essere colta solo tramite l’atto retroattivo di turare questa stessa mancanza fa corrispondere tale processo al duplice momento di dissoluzione e ricodificazione specifico della cornice fantasmatica. Ciò implica due importanti conseguenze:
- In primo luogo, che la “creazione di senso, questo senso nuovo offerto al materiale simbolico, è perfettamente conciliabile con la perpetuazione del fantasma”[lxiii]: in poche parole, il senso ingrassa il fantasma;
- In secondo luogo, che, per lo meno in questi termini, non ci è possibile sostenere direttamente questo confronto con il buco del sapere, con il nocciolo intrattabile di non-senso, ma possiamo relazionarci ad esso solo dalla ricostituzione aprés-coup dello schermo fantasmatico
A questo proposito, facendo riferimento al punto 2., potremmo chiederci: esisterebbe un modo per far sì che quest’assunzione della mancanza/castrazione si prolunghi sino alla possibilità non solo di cogliere, ma di sostenere stabilmente (assumere) la verità che non c’è Altro dell’Altro senza dover riadottare nuovamente la profilassi dello schermo fantasmatico? Miller, in Domanda e desiderio, conclude che una simile assunzione possa avvenire solo con l’uscita dalla domanda, ma unicamente a patto di soggettivare, insieme con tale uscita, un fallimento radicale e supplementare: la desolante verità che smettere di aspettarsi qualcosa dall’analisi non eliminerebbe la domanda, la quale continuerebbe a pulsare, nonostante tutto, con la stessa inesorabilità di prima e finirebbe, semplicemente, per spostare il proprio focus su un sostituto: messa così, l’analisi o è infinita o è deludente. A riguardo, Clemente, sempre seguendo il discorso di Miller, specifica che “non basta dire che la cura si conclude con lo sparire della domanda (…), ma [semmai] con la sparizione stessa del luogo della domanda”[lxiv]. Sarebbe proprio questo venir meno del luogo formale della domanda, più che lo svuotamento chenotico del suo contenuto, a permettere al soggetto di assumere la propria castrazione, di resistere al fardello traumatico e mortifero di non-senso celato nell’eccedenza strutturale della sessualità. Ma come giustamente nota Chiesa[lxv], questa soluzione, per quanto benaugurante, rischia di rivelarsi paradossale. Infatti, dire che la castrazione possa essere assunta solo per mezzo della definitiva sospensione della cornice fantasmatica e con la soppressione della dimensione formale della domanda equivale, grossomodo, a dire che tale processo sia possibile solo grazie all’instaurazione di un sinthomo, un singolare-universale in grado di scrivere la propria contingenza senza ricorrere al compromesso ideologico del sintomo. Ma questa particolare scrittura, nella misura in cui abolisce il ricorso ad una logica fantasmatica comune, rischia di produrre una frammentazione pluralistica di Simbolici idiosincratici tale da degenerare in un soliloquio collettivo, evento che coinciderebbe con l’abolizione stessa del Simbolico. Insomma, sarebbe necessaria una soluzione che possa, da un lato, preservare la singolarità sinthomatica del soggetto e, dall’altro, far coesistere tale singolarità con il Simbolico, con l’Altro, pagando il prezzo dell’alienazione che tale rapporto comporta. Ma anche questa soluzione rischia di vacillare facilmente nel paradosso, a meno che non la si sostenga con un periodico riattraversamento del fantasma. Ma a questo punto, l’analisi, seppur scandita da sospensioni, ripiomberebbe nell’interminabilità.
Come si può vedere, il dubbio di Freud rispetto alla fine dell’analisi rimane tutt’ora irrisolto.
Bibliografia
Benvenuto S.
Come si può vedere, il dubbio di Freud rispetto alla fine dell’analisi rimane tutt’ora irrisolto.
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[i] M. Fisher (2009), p.2.
[ii] J. Lacan (2003), p.8.
[iii] J. Lacan (2006), p.98.
[iv] Ivi, pp.99-100.
[v] Ivi, p.99.
[vi] Ivi, p.95.
[vii] Ivi, p.98.
[viii] Ivi, p.99.
[ix] Ivi, p.105.
[x] Ibid.
[xi] Ibid.
[xii] Ibid.
[xiii] Ivi, p.100.
[xiv] Ivi, p.105.
[xv] Ivi, p.99.
[xvi] Ivi, p.98.
[xvii] J. Lacan (2010), p.12.
[xviii] Cfr. Ivi, pp. 12-13.
[xix] M. Recalcati (2012), pp.153-154.
[xx] J.A. Miller (2008), p.236.
[xxi] J. Lacan (2006), p.106.
[xxii] L.F. Clemente (2018), p.58.
[xxiii] D. Macey (1988), p.84 (traduzione mia).
[xxiv] L.F. Clemente (2018), p.58.
[xxv] Ivi, p.59.
[xxvi] A. Sciacchitano, Tu puoi sapere in modo non medico, in www.sciacchitano.it.
[xxvii] L.F. Clemente (2018), p.62.
[xxviii] Ivi, p.63.
[xxix] Ivi, p.68.
[xxx] Ivi, p.74.
[xxxi] Ibid.
[xxxii]S. Zizek (2013), p.34.
[xxxiii] S. Freud (1982), p.209.
[xxxiv] L.F. Clemente (2018), p.76.
[xxxv] Ivi, p.90.
[xxxvi] P. Sloterdij (2013), p.192.
[xxxvii] Ibid.
[xxxviii] Ivi, p.193.
[xxxix] L.F. Clemente (2018), p.6.
[xl] Errore sistematico secondo cui si tende a vedere nei membri delle tribù versioni sottosviluppate, regredite rispetto alla norma dell’individuo occidentale medio.
[xli] L.F. Clemente (2018), p.67.
[xlii] S. Zizek – G. Daly, S. Benvenuto (a cura di) (2006), p.29.
[xliii] L.F. Clemente (2018), p.95.
[xliv] Ivi, p.99.
[xlv] Ivi, p.100.
[xlvi] Ivi, p.108.
[xlvii] Ivi, p.109.
[xlviii] Ibid.
[xlix] Ibid.
[l] Ivi, p.221. A riguardo, Cfr. anche S. Benvenuto, Lo jettatore, Mimesis, Milano 2011, pp. 42-48.
[li] L.F. Clemente (2018), p.111.
[lii] J. Lacan (2013), p.421.
[liii] Cfr. S. Benvenuto (1984), pp.32-33.
[liv] L.F. Clemente (2018), p.119.
[lv] Cfr. L. Chiesa (2007), p.191n.
[lvi] L.F. Clemente (2018), p.132.
[lvii] Ivi, p.182.
[lviii] J. Lacan (2014), p.27.
[lix] L.F. Clemente (2018), p.138.
[lx] S. Benvenuto (2017), p.192.
[lxi] S. Benvenuto (1988), p.60.
[lxii] L.F. Clemente (2018), p.136.
[lxiii] Ivi, p.213.
[lxiv] Ivi, p.238.
[lxv] Cfr. L. Chiesa (2006), pp.189-191.
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