A quali condizioni oggi un artista può essere definito tale? Esiste un criterio in grado di legittimare in maniera convincente ed univoca lo statuto artistico di un’opera? E, in caso affermativo, da dove deriverebbe questa legittimazione? È con questo insieme di quesiti che intende fare i conti L’arte ansiosa, recente lavoro del filosofo e docente di Estetica Aldo Marroni. A partire dall’inizio del Novecento, e ancor più drasticamente dagli anni Cinquanta in poi, il mondo dell’arte e l’identità dell’artista sono stati avvolti da una nube di fuligginosa incertezza, che ha scosso drasticamente il valore essenzialistico dell’estetica e le sue basi filosofiche. A rendere questo mondo così inquieto sarebbe stata la caduta dei grandi riferimenti normativi dell’arte (il canone, la sacralizzazione, il Bello), un passaggio che nella storia recente ha acquisito una criticità tanto vertiginosa quanto non del tutto elaborata. Volendo sintetizzare l’eclettico insieme di correnti, teorie e manifesti artistici che ha segnato tale irrecuperabile svolta in una formula, potremmo dire che l’arte è passata da un tipo di identificazione ontologica (“che cos’è l’arte?”) ad una pragmatica (“quando vi è arte?”), in cui il contesto e il fondamento della performance artistica devono essere di volta in volta ricreati ex novo, a partire dalle rovine degli scenari precedenti. L’ipotesi di fondo del libro è che l’odierno statuto di incertezza dell’arte sia strettamente connesso con la mancata elaborazione di questo cambiamento di prospettiva: in tal senso, il quesito originario sulle condizioni dell’arte costituisce per Marroni il grande rimosso del XX secolo, qualcosa che torna impetuosamente a galla dalle tracce mute della storia e che oggi si ritrova futilmente intrappolato (con forme e declinazioni diverse) nel cosiddetto “mondo dell’arte”, un sistema mediatico-pubblicitario frutto di una pervasiva museificazione dello spazio estetico e sociale.
Secondo Marroni, la “crisi” del Novecento avrebbe prodotto ciò che Benjamin ha definito lo “svuotamento dell’aura” artistica, un processo attraverso cui l’arte tout court sarebbe divenuta una pratica desacralizzata, costantemente esposta sull’orlo di un problematico bivio: perseverare nella magnificenza del passato nonostante la sua desueta inadeguatezza o errare nella discontinuità di un presente senza garanzie né punti di riferimento? In altre parole, cosa occorre fare una volta che, per dirla alla Lacan, il grande Altro dell’Arte si rivela inconsistente? Quale strada occorre prendere se si è anticipatamente consapevoli che non esistono più le certezze dell’essenzialismo estetico e, ciononostante, si teme il salto nel vuoto della tautologica arte per l’arte? Che si opti per l’uno o per l’altro dei sentieri, scrive Marroni, ciò non modifica in nessun modo la realtà dei fatti: l’estetica che ci ha lasciato il XX secolo è un’estetica “spinta ai margini degli eventi”i, agnostica, che ha tramutato l’arte in una perpetua performance del rischio, un eccesso illegittimo e costantemente bisognoso di essere riconosciuto. Da un lato infatti, il risvolto produttivo di questa incertezza può fungere indubbiamente da innesco per una libertà creativa fuori dagli schemi e svincolata da ogni genere di regolamentazione. Dall’altro, però, questa stessa incertezza finisce per trasformare l’intero ambito dell’estetica in un’inquieta zona grigia in cui a regnare è l’“assoluta confusione” tra arte e non-arteii. Presa in questo meccanismo a doppio scatto, l’arte contemporanea ne esce “de-estetizzata”, cioè scissa dal suo originario rapporto coi sensi, e il suo oggetto diventa un oggetto “ansioso”, qualcosa di informe, che non si distingue chiaramente né da un inoppugnabile “capolavoro” né da una volgare “porcheria”iii.
Tuttavia, la post-modernità si sarebbe soltanto limitata a mettere in atto la crisi dell’arte. Come nota Marroni, se vogliamo localizzare l’origine di questa crepa, è ad Hegel che dobbiamo fare ritorno, e in particolare alla sua Estetica (1835). Qui, il filosofo tedesco colloca l’arte sul gradino più basso del cammino verso l’autocoscienza, subordinandola ai momenti più ‘elevati’ della religione e, in ultimo, della filosofia. Il problema dell’arte, ovvero la sua precarietà, risiederebbe per Hegel nell’incapacità di quest’ultima di liberarsi dalla propria complicità con il sensibile, cosa che la relegherebbe in ultima istanza nell’antro dell’ingannevole e del corruttibile. Per tale ragione, l’arte è tanto necessaria quanto transeunte, un momento dello spirito che è costitutivamente prossimo all’auto-annullamento. Le tesi dell’Estetica rendono la responsabilità di Hegel nei confronti dell’arte contemporanea duplice: non solo infatti egli ne avrebbe pronunciato la sentenza di morte, avviandola verso la sua necessaria dissoluzione nella pura potenza del concetto, ma avrebbe anche piantato il seme di ciò che, a partire dall’inizio del Novecento, si sarebbe slatentizzato come proposito dell’arte di uccidere la filosofia. Per Marroni, è esattamente questo doppio fondo dell’opera hegeliana il nocciolo dell’incertezza ontologica dell’arte contemporanea, che può essere sinteticamente formulato attraverso un paradosso dai toni vagamente sofoclei: per sfuggire alla profezia oracolare di Hegel, e cioè farsi uccidere dalla filosofia, è l’arte stessa che deve uccidere la filosofia. Eppure, e qui sta l’aspetto sibillino della formula, perché riesca in un simile escamotage, è l’arte che deve suicidarsi, in quanto “solo negandosi come arte [quest’ultima] può raggiungere gli stessi livelli di astrazione del pensiero”iv che la rendono schiava della filosofia. Affinché non venga fagocitata dalla filosofia, l’arte deve negare se stessa, perché è solo trascendendosi in un’ennesima filosofia dell’arte o proclamando l’inutilità stessa dell’oggetto estetico che essa può sfuggire alla sentenza dello Spirito. Di conseguenza, ciascuna negazione diretta della filosofia finisce per ricondurre l’arte verso la non-arte, come in una spirale infinita. Le numerose avanguardie e movimenti che hanno caratterizzato l’eclettismo del Novecento, al riguardo, non sarebbero che tanti e svariati modi di compiere indefinitamente lo stesso harakiri, una arborizzazione indefinita della profezia hegeliana che, nel tempo, avrebbe raggiunto quell’autonomia artistica ed intellettuale a cui oggi diamo il nome di stili. Per fornire un eloquente esempio di questa progressiva differenziazione dell’identico è sufficiente confrontare brevemente due forme di arte contemporanea apparentemente molto diverse quanto, in realtà, estremamente simili: il Minimalismo e l’arte concettuale. Laddove, a prima vista, la prima si presenterebbe come una “fredda esposizione di oggetti”, brutale nella sua scabra immediatezzav, l’arte concettuale scaturirebbe dalla radicale rinuncia all’immagine, così da inghiottire la componente estetica negli eccessi intellettuali del concetto e dell’elucubrazionevi. Tuttavia, ad un più attento esame, l’iconofilia del Minimalismo e l’iconoclastia dell’arte concettuale non si rivelerebbero altro che le due facce di una stessa medaglia: la fredda solidità del visibile del primo tipo di arte e la prevaricazione filosofica del secondo costituiscono due diversi e opposti modi di venire a patti con il lutto del grande Altro dell’Arte.
È significativo che, retrodatando la morte dell’arte all’estetica hegeliana, Marroni eviti di inciampare nella facile retorica post-moderna dell’insubordinazione e della trasgressione, una mossa che rivela la propria utilità nel momento in cui diventa necessario inquadrare la problematica nozione di “non-arte”: il prefisso negativo in questo caso non si esaurisce nella sua funzione puramente logico-sintattica, e cioè come nella mera negazione dell’arte pre-novecentesca – cosa che può valere, tutt’al più, per alcune avanguardie dei primi anni del Novecento, che hanno fatto della “morte dell’arte” il proprio stendardo. Piuttosto che essere una reazione alla dissoluzione del canone moderno, la non-arte descritta da Marroni è tale per la sua fondamentale irrelatezza rispetto al passato dell’estetica: il “non”, al riguardo, non nega il canone in quanto decaduto, ma il legame dialettico che legherebbe l’arte al canone tout court. Una simile materializzazione del negativo è evidente nella valorizzazione della discontinuità, del disarmonico e dell’informe che troviamo già nel pensiero di alcuni pensatori della ‘letteratura minore’ del Novecento (ma che in generale risale già a Nietzsche e si realizzerà massimamente in Deleuze). Come appare chiaro nel Faux traité d’esthétique di Fondane ad esempio, per sottrarsi al cortocircuito del suicidio, l’oggetto artistico deve inscriversi sotto il segno dello scarto, o persino del contagio, facendosi – per dirla alla Carmelo Bene – osceno (O-Skené), fuori scena. L’evento (non-)artistico non sussiste più attraverso l’armonizzazione estetico-percettiva tra il soggetto e l’oggetto, né in qualsiasi altro genere di conciliazione estetica. Quella prodotta dall’arte non è più una pacificazione dei sensi, né una loro sublime esasperazione, quanto piuttosto una fitta, un turbamento che può arrivare a provocare nausea, una disarticolazione che, lungi dal produrre legame, crea repulsione e diniego. Come specifica Marroni, non si tratta di un banale piacere negativo, di un qualcosa di talmente sgradevole da offendere i sensi, ma di una degradazione in toto dell’estetico prodotta dall’incursione dell’irrappresentabile nel campo della rappresentazione, una neutralizzazione del sentire rispetto a cui l’oggetto, indigeribile e inassimilabile, non può che essere “vomita[to]” in quanto “altro assoluto”.vii
Rispetto a questo complesso scenario, che ne è della figura dell’artista? Se l’arte può ricomporre temporaneamente la propria consistenza solo attraverso un evento di assoluta efferatezza, qual è il compito che spetta all’artista? Sempre più vittima del “disagio” dell’arte contemporanea, sono tre secondo Marroni le strade che può percorrere oggi l’artista ansioso: primo, tollerare la solitudine della creazione, plasmando un’opera che rompa i ponti con la storia e si ponga con quest’ultima in un rapporto di paradossale esclusione interna (l’arte è arte in quanto non-arte o, parafrasando il mantra “ridurre, ridurre, ridurre” di Duchamp, l’opera si compie solo nel suo annientamento nella non-opera); secondo, limitare il proprio consenso ad una corte selezionata di specialisti e di critici, perdendo in questo modo il rapporto con la società e con la sua “coscienza collettiva”; terzo, assumere l’indeterminatezza del proprio status di artista, transitando costantemente tra il margine dell’arte e quello della non-arte, tra il versante vetero-feticistico dell’iconofilia e quello anarco-inquisitorio dell’iconoclastia. In quest’ultimo caso, probabilmente quello più augurabile dal punto di vista etico-politico, l’artista è colui che riesce meglio di altri a compiere una sintesi tra grandezza e marginalità in cui il “fare del non-fare” diviene, attraverso un cortocircuito che è logico oltre che psico-logico, la cifra stessa del “fare arte”viii. È per questo che, probabilmente, Marroni sembra eleggere il Bartelby di Melville a soggettività prototipica dell’artista contemporaneo. Un tipo di soggetto in cui la caduta del velo sacrale dell’arte non degenera in un individualismo narcisistico, atomico, e in cui l’interpretazione del mondo contemporaneo non è ridotta ad una costellazione di opere mute e autoreferenziali. Piuttosto Bartelby è l’incarnazione dell’indiscernibile come unica forma espressiva possibile, un modo non disfattista e non nichilista di continuare a fare arte dopo l’arte: “Bartelby non è un artista, ma opera come se lo fosse, il suo ‘no’ nasce da una estrema negazione metafisica, in cui la non-opera prende forma di arte […] Bartelby sembra essere l’incarnazione di un abbandono di sé alle cose, continuamente alla deriva, per questo […] può fare a meno, come l’arte contemporanea, di un nuovo fondamento”ix.
Ad avere l’ultima parola come sintomo di tale assoluta indecisione è il kitsch, una contro-estetica che, anziché patire l’indeterminatezza tra arte e non-arte, se ne appropria, nutrendosene avidamente. L’oggetto kitsch, un oggetto sgraziato e brutto in cui dimora quel je ne sais quoi che cattura il desiderio del soggetto, celebra quella “circolarità senza centro” in cui emergono, in forma tanto eccessiva quanto banale, tutte le caratteristiche distintive dell’arte contemporanea: “l’infinta riproducibilità dell’oggetto artistico, il valore attribuito al falso, la potenza delle pulsioni e la ricerca del godimento”x. Portando alle estreme conseguenze le varie forme di opera d’arte dominanti attraverso i decenni del XX secolo, il kitsch si propaga come una specie di virus culturale in grado di penetrare qualunque barriera sociale, economica, politica e, soprattutto, filosofica: “nonostante l’estetica si rifiuti di dare ospitalità al kitsch, quest’ultimo è presente dappertutto, dalla casa dell’impiegato all’arricchito, nella moda come nel cinema, fino a sfiorare il trash e lo splatter”xi.
Filosoficamente parlando infatti, è proprio il kitsch che, nella sua natura di ultra-corpo, riesce a conservare una distorta ma paradossalmente effettiva funzionalità dialogica, “l’unico strumento in grado di mettere in comunicazione tutta l’umanità”. È in questo tipo di oggetto sgradevole, sempre fuori posto, che l’arte sembrerebbe oggi costretta a ricostruire la propria precaria identità. O, in altre parole, è proprio nella non-arte, nell’immolazione verso il proprio auto-annullamento, che l’arte ristabilisce le proprie radici identitarie. Per dirla ancora alla Lacan, si può azzardare che il kitsch, lungi dal fingere di ‘tappare’ la falla dell’Altro costruendogli intorno una parvenza di totalizzazione, abbia riaffermato il reale dell’arte proprio in quanto impossibile e non simbolizzabile, oggetto barrato e, appunto, ‘ansioso’.
In conclusione, come evitare di precipitare la critica di Marroni in un memoriale nostalgico che denuncia la corrosione di ogni valore essenzialistico dell’arte? O, al contrario, come fare per non intendere l’idea di estetica che ci propone L’arte ansiosa come una no man’s land in cui, come direbbe Burroughs, nulla è vero perché tutto è concesso? Per sfuggire ad entrambe queste trappole retoriche Marroni si affida alla filosofia del suo Maestro, Mario Perniola: la “de-sistenza” dell’arte, così come il suo statuto apparentemente agnostico e incerto, devono essere letti sullo sfondo di una più pervasiva “derealizzazione della società”, in cui le immagini sembrano aver preso il sopravvento sulla realtà, al punto di dissolverla. Il processo di prevaricazione dell’immagine sul reale, per come lo intende Perniola, riposa sulla nozione di simulacro, un’immagine “impregnata di simulazione”xii, che non si limita a sussistere indipendentemente dalla realtà da cui prende corpo ma (ed è fondamentalmente questa la caratteristica cruciale che la distingue dalla nozione più generica di “immagine”) finisce per mangiare il reale, dissolvendo l’originale da cui prende vita. Con il simulacro è possibile rompere la semplice dicotomia razionalista che opporrebbe l’originale alla sua copia, l’autentico all’inautentico, introducendo una dimensione del sentire che è, per così dire, “piegata”, fuori fuoco. Con la filosofia dell’esteriorità non dialettica e della derivazione non originaria di Perniola, Marroni può riformulare un tipo di estetica tale da non dover più né perseverare nel tentativo di riportare in vita qualcosa di già morto (come nel caso dell’essenzialismo estetico), né opporsi diametralmente all’arte con accento distruttivo e disfattista. L’estetica del simulacro, perfettamente incarnata nell’infinita riproducibilità del kitsch, ci invita ad assumere una prospettiva di parallasse, una “posizione laterale” rispetto all’oggetto ansioso che si risolve, anche e soprattutto, in una più generale messa a fuoco del controverso rapporto tra arte e tecnologia. Come scrive Marroni, “non vi è […] nessuna sacralizzazione alla rovescia, non bisogna togliere l’aura all’arte per porla sul capo della tecnologia informatica”xiii, ma nemmeno auspicare un aut aut tra le due. L’orizzonte tra arte e tecnologia non punta verso una nuova definizione dell’estetico, ma in una direzione etica e pragmatica di militanza nell’impossibile. Occorre insomma fare un passo laterale, né avanti né indietro, per cogliere come, nonostante tutto e pur non sottraendosi alla storia, l’arte rimanga ben viva sotto le fatiscenti rovine dell’autorialità e del generexiv.
i A. Marroni, 2019, p. 2 (Tutte le citazioni sono tratte dal testo recensito: Marroni A., 2019, L’arte ansiosa. Perché non ci sono più né artisti né arte, Mondadori, Milano).
ii Ivi, p. 5.
iii Ivi, p. 19.
iv Ivi, p. 111.
v Ivi, p. 139.
vi Ivi, p. 143.
vii Ivi, p. 47.
viii Ivi, p. 15.
ix Ivi, p. 28.
x Ivi, p. 166.
xi Ivi, p. 6.
xii Ivi, p. 84.
xiii Ivi, p. 108.
xiv Devo questo pensiero a una conversazione con Micaela Ponti Guttieres.
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