anche ciò che dà salvezza.
Friedrich Hölderlin
Scrivere è una pratica igienica che mi dà salute.
Giorgio Caproni
Scrivo perché non sono mai riuscito a essere felice. Scrivo per essere felice.
Orhan Pamuk
La poesia-/ ma cos’è mai la poesia?
Più di una risposta incerta/ è stata data in proposito.
ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come alla salvezza di un corrimano.
Wislawa Szymborska
«Cos’è la poesia che non salva / I popoli né le persone? »[i] si chiede e chiede ai suoi lettori Czeslav Milosz, che pochi versi più in là aggiunge: «Che volevo una buona poesia, senza esserne capace, / che ho capito tardi, il suo fine salvifico, / Questo e solo questo è la salvezza»[ii].
Fin dai tempi più antichi la poesia accompagna fedelmente l'uomo, è «ordinatrice di archetipi», «inseguimento appassionato del Reale»: sacerdotale, poi epica, psicologica e tragica, cristiana, teologica e sentimentale, neoclassica e infine romantica, essa è stata non solo testimone ma soprattutto dominatrice delle «incessanti trasformazioni del pensiero religioso, politico e sociale».
Eppure «quest'arte sacra della parola» sembra aver ormai disatteso il suo compito, le «sue terribili responsabilità» di dare forma alle aspirazioni della «grande anima popolare», trincerandosi dentro una sfera «quasi esclusivamente individuale».
Il ripiegamento nel proprio spazio interiore (la «poesia pura» ovvero il «puro lirismo» – Oscar Milosz, Qualche parola sulla poesia[iii]), la progressiva incapacità di spossessarsi del proprio piccolo io, ha portato a una rottura tra il poeta e la grande famiglia umana, trasformando la poesia in «malattia pericolosa»[iv], spesso mortale. Se gli dei tacciono dentro di noi e gli eroi hanno smesso di piangere[v], il canto del poeta diventa «nulla più» che un «sussurro ininterrotto» e un «riso soffocato»[vi] incomprensibile al mondo e che nessuno ascolta. Questa presunta deriva narcisistica, malcelata a volte da un'aura di unicità e autosufficienza, può arrivare a far pagare alle sue vittime un prezzo molto alto in termini di isolamento, solitudine e perdita del senso di appartenenza. Sembra essere un tratto essenziale del poeta una certa riluttanza a sottomettersi alle dure leggi dell'esistenza, la sua personalità di Puer aeternus[vii] (anche da ottuagenario avrà sempre, per dirla con Ungaretti, «quattro volte vent’anni») lo spinge «in direzione ostinata e contraria» (Fabrizio De André) rispetto alla crudelissima iniziazione del mondo degli adulti. Come ricorda Jung, «l’analisi psicologica degli artisti mette sempre in evidenza la potenza dell’impulso creativo artistico proveniente dall’inconscio, e ci mostra quanto esso sia irregolare e dispotico»[viii]. Mai pago di sé, se poeta autentico sarà/diverrà un «essere metafisico» (Eugenio Montale), inconsolabile consolatore del mondo (Odisseas Elitis) bilancerà le forze della realtà verso una stabilità trascendente (Simone Weil, Il peso e la grazia[ix]), outsider suo malgrado, «infelice agente che garantisce la felicità a milioni di insider»[x].
Se la poesia oggi non si mostra più come «un articolo di prima necessità al pari del pane»[xi] nei periodi di sciagure e carestie collettive, essa di fronte al dolore del mondo, all'Anima che si nasconde, è testimonianza e cura possibile di una «società liquida» in cui «le sofferenze individuali non sono più sincronizzate», «non si sommano e perciò non uniscono le loro vittime (…) lacerando il tessuto delicato delle solidarietà umane»[xii]. Emblematico, al riguardo, è il bellissimo racconto di Abraham Yehoshua Il poeta continua a tacere[xiii]: in esso un padre poeta che ha smesso di scrivere e il figlio “diverso”, forse autistico, rimangono entrambi senza parola. Il padre racconta la sua rinuncia alla poesia («quel che dovevo scrivere, l'ho già scritto»), il senso di vuoto che ha generato in lui tale scelta e, insieme, la storia del suo rapporto col figlio, i tentativi delusi per superare l'isolamento di quest'ultimo, il suo silenzio, la sua diversità. La narrazione procede con la descrizione della lenta, angosciosa scoperta della malattia del figlio durante l'infanzia, il suo mancato inserimento a scuola, l'adolescenza difficile, la solitudine che, con il passare degli anni, finisce per sembrare un destino. La moglie del poeta muore, le altre due figlie si sposano, il dono della poesia col tempo svanisce, i vecchi amici si allontanano e alla fine rimangono solo loro due, padre e figlio. Soltanto al termine del libro, il figlio si accosterà al linguaggio, componendo faticosamente piccole poesie, brevi versi che esprimono il mondo che ha dentro, altrimenti condannato al silenzio. Il figlio ha intuito, nelle opere del padre come in altre poesie, se non proprio una via di salvezza almeno la possibilità di sopravvivere, l'immensa ricchezza che ha in sé l'espressione artistica, le opportunità di cambiamento che accompagnano lo scrivere. Il lieto fine non è assicurato ma Yehoshua col suo racconto sembra confermare che «lo scopo della poesia resta quello fondamentale di proiettarci in uno stato secondo o, piuttosto, di far sì che lo stato secondo divenga lo stato primo»[xiv], dove «l'Io è miracolo del Tu»[xv] e l'unicità di ciascuno risuona con la pluralità del mondo.
La poesia di fronte al dolore del mondo non può tacere, essa resta, come aveva già testimoniato Leopardi, l'ultima illusione di salvezza per l'uomo, portando a un <<accrescimento>>[xvi] di vitalità, linguistica ma soprattutto sensoriale. La sua funzione riparatrice è sempre viva, il suo intento nobile, «una violenza interna che si oppone a una violenza esterna»[xvii] («l'immaginazione che preme contro la pressione della realtà», come specifica Seamus Heaney[xviii] nelle celeberrime lezioni di Oxford), l'effetto «abbastanza forte per aiutare»[xix] ad appagare il nostro costante bisogno di «recuperare un passato» e «prefigurare un avvenire»[xx], «e così chiudere il cerchio del nostro essere»[xxi]. Diventa di scarsa importanza, pura quisquilia, <<ordinaria e fortuita circostanza>>, distinguere il lettore dall'autore: essenziale è <<la modificazione fisica che ogni lettura riesce a suscitare>>[xxii].
Davvero scuotenti sono le parole di Maria Zambrano: <<sembra che dover rinascere sia condizione della vita umana; dover morire e risuscitare senza uscire da questo mondo>>[xxiii]. I poeti, che sono tutti ebrei in esilio (Marina Cvetaeva, Poema della fine), conoscono bene questa condizione di venire gettati nel mondo nudi, in un <<deserto senza frontiere>>[xxiv]. Tornare a nascere per riattraversare la condizione di Puer significa vulnerabilità ma anche plasticità, coraggio di essere <<aperti allo stupore>>[xxv]. Non può non risuonare famigliare la voce di Groddeck, autentico <<psicoanalista dell’immaginario>>[xxvi]: <<Ci accade ben di rado di essere completamente adulti, e, anche quando capita, lo siamo sempre solo in superficie: noi ci limitiamo a giocare a fare i grandi, proprio come i bambini, e ritorniamo bambini non appena siamo presi profondamente dalla vita>>[xxvii]. Sarà però ancora la Zambrano a specificare che nel poeta non si tratta della nostalgia della propria infanzia e quindi la poesia non è, come molti critici credono, <<una specie di lievitazione dell’infanzia>> quanto <<nostalgia di un tempo anteriore a ogni tempo vissuto>> e l’ansia della parola è <<l’ansia di restituire l’innocenza perduta>>[xxviii].
<<Un artista non necessita tanto di un pubblico, quanto di sentire un bisogno di rispondere, una promessa di reagire. La promessa può essere una contraddizione, può essere indesiderata, restare inascoltata… ma è dovuta, e per il senso che è dovuta è un requisito basilare perché il poeta sia contento della sua arte. Questo bisogno di rispondere, solido come un prestito o un debito in denaro, è il terreno su cui il centauro cammina>>[xxix]. Quale autore non sottoscriverebbe subito queste parole di Robert Pinsky su Le responsabilità del poeta?
0 commenti