Da un po’ di tempo, in molti paesi (Italia inclusa), chi detesta la psicoanalisi – psichiatri organicisti, cognitivisti, psicologi evoluzionisti – cavalca l’autismo come cavallo di battaglia per sferrare un attacco massiccio alla psicoanalisi. Dicono: gli autistici, bambini e adulti, non vanno affidati alle cure degli psicoanalisti perché la teoria della psicoanalisi sull’autismo si è rivelata sbagliata. Meglio far ricorso ad altre tecniche, di tipo cognitivo-comportamentale, a sistemi riabilitativi come l’ABA (Applied Behavior Analysis).
Premetto: esercito come psicoanalista. Penso che la teoria psicoanalitica sia molto potente e ingiustamente sottovalutata da psicologi e psichiatri oggi. Credo che un’analisi, se fatta correttamente, sia un sistema di cura potente. Insomma, non posso essere sospettato di essere un mangia-Freud. Tuttavia, credo che finora le teorie psicoanalitiche sull’autismo siano state un flop. Amicus Freudus, sed magis amica veritas.
Gli anti-psicoanalisi hanno scelto di focalizzarsi proprio sulla psicoanalisi dell’autismo e non su altri approcci psicoanalitici – ad esempio sulle nevrosi, sulle psicosi, sulle perversioni, sulle psicopatie – perché intuiscono che l’autismo è il tallone d’Achille della psicoanalisi. E che la psicoanalisi non provvede a coprire adeguatamente questo tallone. Come in una guerra, si attacca il nemico sul suo fianco più debole.
1.
La fragilità delle teorie psicoanalitiche sull’autismo finora articolate non consiste tanto, come pensano i suoi detrattori, nella debolezza della sua eziopatogenesi. Non è in questione quella che la psicoanalisi del mainstream invoca come causa essenziale dell’autismo, ovvero una relazione “disumana” madre-bambino (la teoria de “la mamma frigorifero”, che per decenni ha ispirato la spiegazione, soprattutto americana, dell’autismo). La debolezza delle teorie psicoanalitiche consiste piuttosto nella loro visione dell’autismo in quanto tale, ovvero nel loro modo di considerarne la specificità. Su questo punto, credo che le scienze cognitive siano in anticipo rispetto alla psicoanalisi.
Stranamente quelli che vogliono sostenere a ogni costo il corrente approccio psicoanalitico all’autismo si sono appiattiti sulla teoria dell’attaccamento (che – è vero – attraverso John Bowlby deriva dalla psicoanalisi): sull’idea che insomma la relazione madre-bambino spieghi tutto, dalle schizofrenie all’autismo, dalle perversioni alle sociopatie. Ma i grandi maestri della psicoanalisi, da Freud a Lacan passando per M. Klein, non hanno mai sostenuto una teoria simile: che tutta la “colpa” delle psicopatologie sia della madre o della persona che dà le prime cure. Ogni soggetto ci mette del proprio, per così dire, anche nella relazione con gli adulti fondamentali. Non siamo interamente i prodotti della nostra mamma o di chi ci dà le cure nella prima infanzia.
L’approccio psicoanalitico all’autismo è carente piuttosto nel capire che cosa l’autismo davvero sia. Prima di tutto occorre porsi la questione “che cosa esso essenzialmente è?” Ora, mi pare che molta psicoanalisi – a partire da Bruno Bettelheim, massimo esponente della teoria analitica dell’autismo, da decenni apertamente contestata da varie parti – confonda l’”autismo” di cui parlò Eugen Bleuler con l’autismo descritto successivamente da Kanner e Asperger, ovvero con l’autismo come lo si intende oggi. Autismo per Bleuler[1] era il sintomo fondamentale della schizofrenia, ovvero la modalità psicotica di ritiro dal mondo e dal rapporto con gli altri, ma non ha nulla a che vedere con quel che oggi viene chiamato “spettro autistico”[2]. Insomma, la psicoanalisi ha continuato a credere che l’autismo sia una forma specifica di psicosi, quindi spiegabile come vanno spiegate le altre psicosi[3].
L’analisi clinica di non-analisti secondo me ha invece colto qualcosa di più importante. Ovvero, per dirla molto semplicemente, costoro hanno capito che gli autistici sono dei soggetti cognitivo-comportamentali. Non nel senso che gli autistici crederebbero nelle teorie cognitive e comportamentali di oggi, ma nel senso che il funzionamento della mente autistica coincide più o meno con il modo in cui behavioristi e cognitivisti concepiscono la mente in generale. Detto in altro modo: se la teoria cognitivo-comportamentale della mente umana fosse universalmente valida, saremmo tutti autistici. Potremmo dire che la patologia autistica è la cognitività-comportamentalità.
Detto in modo molto stringato, l’autismo, nelle sue forme più o meno gravi, è una forma particolare di agnosia. Ovvero, è una sorta di cecità psichica a qualcosa di molto particolare. Ci sono varie agnosie[4]. Secondo i cognitivisti, nell’autismo si tratterebbe di una cecità a riconoscere la mente altrui. Ovvero, l’autistico sarebbe privo di una “teoria della mente”, sia propria che degli altri. La proverbiale goffaggine dell’autistico nel suo rapporto con gli altri dimostrerebbe che egli non capisce cosa passi nella mente altrui, mentre questo per la maggior parte di noi è un dato direi immediato, anche senza alcun speciale intuito psicologico.
Era autistico Asperger uno dei più grandi fisici del secolo scorso, Paul Adrien Maurice Dirac. Come racconta Carlo Rovelli[5]:
Durante una conferenza [di Dirac], un collega interloquì: “Non ho capito quella formula”. Dirac, dopo una breve pausa di silenzio, continuò imperterrito. Il moderatore lo interruppe chiedendogli se non volesse rispondere alla domanda, e Dirac, sinceramente stupito: “Domanda? Quale domanda? Il collega ha fatto un’affermazione” (“Non ho capito quella formula” è un’affermazione, non una domanda…) Non era spocchia: l’uomo che vedeva i segreti della natura che sfuggivano a tutti non comprendeva il linguaggio implicito, non comprendeva i suoi simili e prendeva ogni frase alla lettera[6].
In questo caso, Dirac non coglieva la dimensione che i filosofi del linguaggio chiamano performativa della parola: il fatto che il linguaggio non è semplicemente una serie di affermazioni, ma che noi agiamo col linguaggio. Nel caso qui sopra, il collega di Dirac aveva fatto una domanda, e quando si fa una domanda l’altro è costretto, in qualche modo, a dare una risposta; magari dicendo che non risponderà.
Per usare una distinzione della filosofia del linguaggio, quella tra ‘enunciato’ ed ‘enunciazione’, diremo che l’autistico capisce gli enunciati ma non coglie le enunciazioni. L’enunciato è la frase letterale, l’enunciazione è l’atto soggettivo di enunciare qualcosa, il cui senso dipende dal contesto e dalle intenzioni non esplicitate. Un esempio plastico di differenza tra enunciato ed enunciazione è dato da una famosa barzelletta ebraica, raccontata da Freud.
Due ebrei rivali nel commercio si incontrano in un treno in Polonia. Uno chiede all’altro dove vada, e quello risponde: “A Cracovia”. Al che l’altro si indigna: “Ma perché mi dici di andare a Cracovia per farmi credere che vai a Varsavia, mentre nella realtà vai veramente a Cracovia?”
Ecco un gioco linguistico che un autistico stenterebbe seriamente a capire. Del resto, se c’è una cosa a cui l’autistico non ha accesso, è il senso dell’humour.
Bisogna precisare che, nel caso dell’autismo la psichiatria del mainstream sta passando da un paradigma categoriale a uno dimensionale. Un approccio categoriale considera ogni malattia una categoria discontinua, una rottura rispetto alla normalità, implica una opposizione binaria tra “sano” e “malato”. Un approccio dimensionale invece vede tutto come un più o un meno. In questo modo, l’autismo tende a dimensionalizzarsi. Si è più o meno autistici così come si è più o meno alti e bassi, o come si ha un QI più o meno alto o basso. L’autismo non sarebbe una patologia, frutto di una lesione, ma un modo di essere più o meno. Perciò oggi si tende a parlare di spettro autistico, ovvero di una serie continua di sfumature.
Ma se il contrario di essere alti è essere bassi, e se il contrario di essere intelligenti è essere stupidi, quale sarà allora il contrario di essere autistici? Come vedremo, si tende oggi a pensare che l’inverso dell’autismo sia la capacità di empatia.
2.
Ora, la teoria cognitivista classica dell’autismo – come carenza di una teoria della mente[7] – è stata confutata da neuroscienziati che si ispirano alla fenomenologia filosofica, in particolare da Vittorio Gallese[8], uno degli scopritori dei neuroni specchio (équipe guidata da Giacomo Rizzolatti). Secondo questi neuroscienziati, noi percepiamo direttamente intenzioni, allusioni, impliciti, metafore degli altri non perché ci siamo costruiti col tempo una teoria della mente, come pretende il modello cognitivista, ma perché percepiamo direttamente l’altrui soggettività. Nell’affermazione del fisico “Non ho capito quella formula” tutti noi percepiamo – più che ‘interpretiamo’ – l’espressione di una domanda. Insomma, l’autismo è l’agnosia di un ‘oggetto’ molto particolare che il cognitivismo non riesce a delineare e a concettualizzare: la soggettività, sia propria che altrui. L’autistico, non percependo la soggettività, percepisce solo menti cognitive, nelle quali quindi è molto carente la funzione della metaforizzazione.
Questo è ben descritto in un film ungherese recente, Corpo e Anima di Ildikó Enyedi: la protagonista femminile è una donna autistica ben integrata, lavora da impiegata in un mattatoio, ma ha difficoltà a cogliere il senso del desiderio amoroso per un uomo e da parte di un uomo, perché il desiderio è espressione fondamentale della soggettività. E’ questa anche la specificità di Temple Grandin.
Temple Grandin è forse il soggetto autistico più noto al mondo[9]. Perché ha scritto molti saggi sull’autismo, ed è anche grande specialista di problemi di allevamento (inventò un sistema di macellazione del bestiame che rende il processo molto meno traumatico per le bestie), materia che insegna all’Animal Science Department della Colorado State University. La sua autobiografia pubblicata nel 1986 – Emergence: Labeled Autistic – è stata un bestseller tradotto in molte lingue[10]. Polemista brillante, ha attaccato la visione di Bettelheim e sostiene – come tutti gli autistici colti – una spiegazione puramente neurologica dell’autismo.
Va notato che, come molti autistici, Temple è priva di qualsiasi desiderio erotico, per lei le emozioni sessuali sono del tutto incomprensibili. Temple è nota anche per aver costruito una macchina mobile che la massaggia, e di cui dice di trarne grande benessere. Sue amiche e amici le hanno sempre detto che si tratta di una macchina per essere abbracciata. Temple non dà senso all’abbraccio sensuale di un uomo o di una donna, ma a quello di una macchina sì. Comunque, la scienziata autistica ha difficoltà nel mettere in relazione l’abbraccio umano e quello meccanico. Un esempio eloquente della natura stessa della soggettività autistica.
Nella nostra esperienza non-autistica dell’abbraccio, anche in assenza di un’attrazione sessuale per chi ci abbraccia, confluiscono almeno tre dimensioni che vanno distinte. Una è la dimensione fisica del “massaggio”, che di per sé è piacevole, come si vede dalle varie pratiche di massaggio professionale oggi praticate. Un’altra dimensione è di significazione diciamo “simbolica”: abbracciandoci, l’altro ci include metaforicamente in sé stesso, si fa luogo in cui ci accoglie, ci ‘interiorizza’ corporalmente a sé, come se ci mangiasse con le braccia. E c’è una dimensione squisitamente affettiva legata all’altro, l’abbraccio come modo corporeo di sentirsi amati da un altro. Ora, sembra evidente che in Grandin dell’abbraccio resta solo la prima dimensione, quella fisica, le altre due non compaiono; e questo le permette di sostituire una macchina da lei stessa costruita a un altro essere umano. La domanda delicata è: il piacere così intenso, calmante, che l’autistica trae da quel massaggio meccanico è solo fisico, oppure nell’esperienza fisica si traduce un’esperienza con un altro soggetto e un’esperienza di significazione ma entrambe “reificate”? E’ come se una madre traesse piacere dall’imboccare continuamente suo figlio piccolo pur non provando nessun affetto o amore per lui: eppure il piacere di imboccarlo meccanicamente potrebbe essere visto come il surrogato di un amore non percepito. Si tratterebbe di una madre autistica, certamente.
3.
Tutto quanto detto finora dovrebbe farci capire perché l’autismo non andrebbe confuso con le psicosi. Direi anzi che ne è l’opposto. In effetti, chiamiamo psicotici – schizofrenici, paranoici, maniaco-depressivi – soggetti i quali, a nostro giudizio, attribuiscono un eccesso di significazione al mondo, soprattutto a quello umano. Ovvero, essi vedono, percepiscono, intendono molto più significante di quanto non ce ne sia, perciò diciamo che delirano; e producono molto più significante di quanto non ne sia (per noi) necessario, come nel flusso di idee (disorganized speech, Ideenflucht).
Per tutti noi il tratto patognomico principale di ogni psicosi, si sa, è udire voci. Ovvero, per lo psicotico il mondo è molto più parlante di quanto non lo sia per noi. Nelle psicosi c’è sempre un eccesso di significante (il che non vuol dire affatto un eccesso di senso! Le voci possono essere pressanti, continue, pervasive, ma insensate). Nel delirio di interpretazione dei paranoici siamo convinti che il soggetto legga troppo significante in eventi reali che per noi sono irrilevanti o casuali. Insomma, parliamo di psicosi quando un soggetto vive in un mondo troppo significante rispetto al “nostro” mondo, e questo indipendentemente dal fatto che lo psicotico trovi senso a questo eccesso significante (come nei deliri paranoici sistematizzati) o non ne trovi affatto, abbandonandosi al puro nonsense del fluire sfrenato di parole che non circoscrivono alcun senso.
All’inverso, il mondo in cui vive l’autistico ci appare troppo povero di significante. L’autistico vede l’altro e anche sé stesso come una serie di comportamenti, ma ha difficoltà a vedere una soggettività che si significa dietro di questi. Potremmo anche dire che il mondo dell’autistico è anti-ermeneutico, è un mondo puramente ontico. Non è corretto quindi dire che l’autistico vive in un mondo tutto proprio: al contrario, è completamente sprofondato nel mondo reale, da cui è stata però sottratta ogni ambiguità metaforica, ogni fessurazione soggettiva. E’ un essere-nel-mondo spellato, da qui il suo orrore per sensazioni forti, per certi rumori, gesti… La “pelle” qui in questione è la nostra soggettività stessa, che fascia e in qualche modo ammortizza il nostro rapporto alla realtà, che rende la realtà esterna a noi qualcosa di meno brutale. In effetti, è proprio grazie all’autismo che, forse, possiamo desumere il senso di quel che chiamiamo soggettività, concetto quanto mai evaporante. La soggettività, infatti, non è coscienza o auto-coscienza (l’autistico è molto cosciente), ma nemmeno mente nel senso cognitivista. Diciamo che l’autismo ci fa cogliere qualcosa della nostra soggettività grazie alla sua carenza o assenza: ovvero, la soggettività è un vuoto attorno a cui si mette a ruotare ordinatamente il mondo.
Non siamo mai completamente esposti alla realtà nella sua piena insignificanza, la moduliamo sempre soggettivamente, sia attraverso i nostri pensieri, sia attraverso il nostro “leggere” pensieri e sentimenti degli altri. La soggettività sembra l’equivalente delle colonne sonore dei film, che caricano di senso le immagini e quindi ci aiutano a metabolizzarle. L’autistico non è insomma una fortezza vuota (The empty Fortress è il titolo che Bettelheim dette al suo libro principale sugli autistici[11]): l’autistico è alquanto vuoto di soggettività, ma non perché si sia ritirato dal mondo costruendosi una barriera difensiva attorno. Se l’ha costruita, essa è secondaria al suo sentirsi “sperduto” nel mondo di chi autistico non è. Piuttosto, per lui il mondo sociale, il mondo delle relazioni umane, è incomprensibile – e quindi minaccioso – perché non ha la capacità di “leggere” il versante soggettivo e significante del mondo. E’ quel che disse un autistico: “Sin da piccolo mi sentivo isolato perché vedevo che gli altri bambini si parlavano con gli occhi. Ma io non li capivo”.
Direi quindi che l’autistico è piuttosto “una casa senza mura”, ovvero, è una casa che in sostanza non c’è.
Nei casi più gravi, come è noto, gli autistici non accedono nemmeno al linguaggio articolato. Ma questo mancato accesso al linguaggio non è dovuto a un deficit cognitivo, a un’impossibilità di usare i simboli nella misura in cui questi sono segni astratti: è dovuto alla loro grande difficoltà ad accedere alla dimensione soggettiva del linguaggio, al fatto che parlare non è mettere insieme parole, ma manifestare qualcosa di soggettivo attraverso le parole. Per loro il linguaggio è qualcosa di astratto, disancorato dall’espressività soggettiva.
Un tratto caratteristico degli autistici è che essi guardano non gli occhi dell’altro, ma la sua bocca. Eppure bambini normali molto piccoli, sotto i due anni, guardano già gli occhi degli adulti prima di ogni altra cosa. Questa differenza è cruciale. Noi pensiamo che gli occhi siano “lo specchio dell’anima” anche se da essi non fuoriesce nulla, e sono solo sottili variazioni oculari a dirci che cosa l’altro sente; gli occhi rinviano a qualcosa di immateriale, vale a dire al supposto punto della soggettività, che sembra celarsi dietro gli occhi. Il “foro interiore” dicono alcuni. Dalla bocca invece escono suoni materiali, parole, e l’autistico è un materialista nato, per dir così: è sensibile a ciò che viene fuori dalla soggettività altrui, non a questa soggettività in sé. Gli occhi altrui ci rimandano a una funzione speculare alla nostra: l’altro guarda me così come io guardo lui. Ma la bocca non è speculare: l’altro parla, e quindi la mia bocca deve restare chiusa. La differenza è fatta dall’assunzione dell’altrui soggettività.
Per questa ragione trovo inesatto parlare dell’autismo come “disturbo dello sviluppo”: si suggerisce così che ogni bambino passerebbe per una fase autistica, solo che l’autistico si fermerebbe a questa fase e non andrebbe più avanti. Ma non c’è nessuna fase autistica nei bambini, a meno che non siano già autistici. L’autismo è disturbo dello sviluppo nel senso banale in cui possiamo dire che a un bambino che nasce cieco non si sviluppa la vista. Ma la cecità non è un disturbo dello sviluppo, è il mancato sviluppo di un organo e di una funzione.
4.
Non è vero quindi – sostiene Gallese – che l’autistico non sia riuscito a costruirsi una teoria della mente, come affermano i cognitivisti: la verità è che può entrare in contatto con gli altri solo grazie a una teoria della mente che si è costruita, non grazie all’intuizione immediata dell’altrui soggettività che rende fluidi e profondi (almeno fino a un certo punto) i nostri rapporti con gli altri. Egli si costruisce delle teorie, anche esatte, sulla mente, così come noi ci costruiamo delle teorie sugli elementi chimici o sulle galassie; ma appunto, non parliamo né con gli elementi chimici né con le galassie, per questa ragione abbiamo bisogno di teorie scientifiche. E’ come se l’altro, per l’autistico, fosse un oggetto di indagine obiettiva, non un suo essere-con-me o essere-contro-di-me. La soggettività dell’altro non si mostra attraverso quello che lui dice o fa.
Questo ci fa capire perché gli autistici siano bravi, talvolta più bravi della media, in operazioni matematiche, o di calcolo, o di memoria, o puramente logiche. I significanti matematici non esigono alcuna premessa soggettiva. Gli autistici sono bravi come computer – e possono essere molto bravi con i computer – perché hanno una analogia con il computer: non hanno soggettività. Nessuno pensa che il proprio computer abbia una mente, tutti sappiamo che è solo una macchina, anche se parla Siri. Nelle operazioni puramente formali, in effetti, è bene che non si mostri nulla della nostra o altrui soggettività.
Colpisce il fatto che gli autistici amino molto effettuare movimenti centripeti; ad esempio, far girare una corda a ruota. Molti di loro adorano girare nel rotore, quella macchina rotante dei luna park in cui le persone sono schiacciate, per dir così, sulla parete di un cilindro che gira vorticosamente. E’ quella che chiamerei la passione autistica della trottola. Come spiegare questa attrazione? Secondo me perché la nostra soggettività è come un centro che in qualche modo struttura il mondo circostante come un turbine attorno a essa. E’ quel che si vuol dire dicendo che ogni io è il centro del mondo. Il mondo è ordinato dalla soggettività, che è prima di tutto una centralizzazione, che fa ruotare tutte le cose attorno al nostro io, come la terra tolemaica. Ora, pare che gli autistici siano privi di questa soggettività centrale, da qui un certo loro terrore di essere come trasportati dalle cose e andare alla deriva. Hanno paura di essere risucchiati dal reale perché non possono dargli senso attraverso la preziosa angolarità soggettiva. E proprio per questo quando, nel mondo fisico, trovano qualcosa di cui la loro mente è priva – la centripeticità del mondo – essi ne sono molto sedotti. Nelle forme circolari concentriche vedono una soluzione di una loro difficoltà intrinseca nel loro essere-nel-mondo.
Analogamente, la loro tendenza a dondolarsi sembra voler delineare un perno, ovvero quel “fulcro” ideale che ognuno di noi pensa di avere o forse essere, attorno a cui si svolge il nostro corpo ma si svolgono anche i nostri pensieri. E’ come se l’autistico cercasse di ri-formare continuamente, nel reale, una centralità o una assialità come soggetto, centralità e assialità che non sono per noi spaziali ma mentali.
Diciamo comunque che non ci basta nemmeno la teoria neuro-fenomenologica che fa dell’autismo una carenza di capacità empatica (magari a causa di un disfunzionamento nei neuroni specchio, come sostiene Gallese). E’ vero che l’autistico manca di empatia, ma nella misura in cui l’empatia è la funzione diciamo affettiva che si accompagna alla percezione della soggettività propria o altrui. Chi riduce l’autismo a una carenza di empatia si trova in difficoltà a commentare il famoso test di Sally-Anne[12].
In questo test si vedono due bambine in una stessa stanza, Sally ha vicino a sé un paniere, Anne ha vicino a sé una scatola. Sally mette un cubetto nel paniere, poi va via. Nel frattempo Anne prende il cubetto dal paniere e lo introduce nella sua scatola. A un certo punto Sally rientra e si chiede alla persona testata: “Dove Sally crede che il cubetto stia?” E’ notevole che la maggior parte dei bambini normali e anche quelli con una sindrome di Down diano la risposta giusta, mentre la maggioranza degli autistici (come molti bambini piccoli sotto i quattro anni) dicono che Sally cercherà il cubetto nella scatola di Anne. Questa sarebbe la prova che gli autistici mancano di una “teoria della mente”.
La difficoltà per la teoria dell’autismo come carenza di empatia nasce dal fatto che l’errata risposta dell’autistico non sembra correlata a un rapporto empatico con l’altro, ma a qualcosa di ancora più profondo, che chiamerei il primato della dimensione ontologica dell’autistico rispetto alla dimensione epistemologica. Quel che conta è come le cose stanno, non chi considera come stanno le cose. Il sapere o non sapere tende a essere irrilevante per l’autistico, perché il sapere implica uno scarto tra la funzione soggettiva e la realtà extra-soggettiva. Se un autistico fosse filosofo, scommetto che non potrebbe essere mai kantiano: per lui o lei il noumeno e il fenomeno, la cosa-in-sé e le cose che ci appaiono, devono per forza coincidere. L’autismo è un realismo incarnato. Quindi, la carenza di empatia dell’autistico è un aspetto conseguente al fatto che egli non percepisce non solo la soggettività altrui, ma nemmeno la propria.
Insomma l’autismo, proprio grazie alla vistosa carenza che lo caratterizza – la percezione della soggettività – ci può dare di contraccolpo un’immagine preziosa di ciò che abbiamo chiamato soggettività, un ente che le due filosofie che oggi vanno per la maggiore – cognitivismo e fenomenologia – stentano a concettualizzare. Il cognitivismo si occupa solo della mente, che è essenzialmente una mente cognitiva, e quindi esso non sa vedere la soggettività, che è un’istanza al di là o al di qua della mente. La fenomenologia riduce invece la soggettività a qualcosa di integrato al nostro essere-nel-mondo, sempre risolta nella relazione con altri soggetti, ma mai descritta come tale. E’ qui allora che, forse, gli psicoanalisti avrebbero del lavoro da fare, dato che la psicoanalisi è un programma di ricerca che tematizza proprio la soggettività, anche se essa stessa ha grandi problemi nel descriverla. E l’autismo, proprio perché manca di questo quid, di riflesso può farci vedere meglio l’essenza di questo quid. Attorno a cui la psicoanalisi non cessa di girare.
5.
Purtroppo, però, non mi pare che per lo più gli analisti abbiano colto questa specificità dell’autismo, come agnosia della soggettività. Alcuni addirittura ipotizzano una fase autistica nello sviluppo infantile[13], che mi pare però del tutto fantasiosa.
Perciò non condivido la campagna difensiva che nei vari paesi vari analisti lanciano contro l’approccio non-psicoanalitico all’autismo. Si tratta di un atteggiamento piagnucoloso, e in fondo perdente perché quando ci si mette sulla difensiva si confessa la propria debolezza. All’epoca del suo massimo prestigio, anni 60 e 70, la psicoanalisi non si difendeva, attaccava; è così che essa ha potuto mettere alle corde, in quell’epoca, la psichiatria tradizionale, manicomiale e puramente nosologica. La psicoanalisi dovrebbe invece tesaurizzare quel che altre ricerche hanno chiarito, riformulando completamente le proprie ipotesi sull’autismo. Secondo una linea possibile a cui accenneremo.
Le strategie di difesa degli psicoanalisti puntano sull’opposizione netta tra due teorie eziopatogenetiche, da una parte “relazione con adulti (soprattutto madre)” dall’altra “costituzione cerebrale organica”. Questa opposizione rigida – chiamiamola “relazione versus stato cerebrale” – è però un tranello in cui la psicoanalisi non dovrebbe cadere. Ammettiamo che si scoprisse che occorrono certe predisposizioni organiche (cerebrali) per sviluppare un’isteria: questo falsificherebbe ipso facto tutto quello che la psicoanalisi ha detto e raccolto sull’isteria? Per nulla. A tutto ciò che diciamo in linguaggio psichico si può trovare, almeno in teoria, una equivalenza cerebrale, ma si tratta di due linguaggi appunto incommensurabili, anche se non incompatibili. La buona psicoanalisi non ha mai respinto a priori fattori costituzionali o predisposizioni cerebrali: il punto è che cosa il soggetto – e chi gli sta attorno – farà di queste predisposizioni. La realtà è che certe predisposizioni organiche e le storie soggettive sono tra loro talmente interconnesse e fuse, che non si può dividere con l’accetta “relazione” da “stato cerebrale”. Non escludo affatto che un certo rapporto che una madre stabilisce con il figlio autistico possa essere un fattore essenziale per l’evoluzione dell’autismo; ma appunto, il problema che qui pongo non è eziopatogenetico, ma di essenza.
Alla base di questa conversione “relazionista” della psicoanalisi – che è una forma rammodernata della vecchia opposizione “anima versus corpo”, solo che oggi l’anima è una inter-anima – nasce da un presupposto, in molti casi esplicitato: che l’analisi è una sorta di secondo appello di maternità, che l’analista è una seconda madre, questa volta abbastanza buona, che permetterà al soggetto quella evoluzione che la prima madre, non abbastanza buona, non ha reso possibile. Siccome l’analisi sarebbe un secondo maternage, occorre quindi che la causa (ma di fatto la colpa) dell’autismo sia la prima madre. Ma tutto questo è una enorme semplificazione. Non credo che le ricostruzioni analitiche, e le terapie analitiche tanto meno, siano semplici corollari di una teoria eziologica. Un’analisi è prima di tutto un’opzione etica, un certo modo di avere a che fare con inibizioni sintomi e angosce.
6.
In effetti, se tutto quello che ho detto prima è esatto, l’autistico rappresenta un problema arduo per lo psicoanalista, soprattutto quando intende operare terapeuticamente con lui o lei. Per la semplice ragione che, se l’autismo è un’agnosia della soggettività propria e altrui, la conclusione inevitabile è che l’autistico è praticamente privo di inconscio, almeno quello che lo psicoanalista coglie nelle nevrosi e nelle psicosi. Possiamo dire che mentre nelle psicosi l’inconscio viene fuori allo scoperto, ovvero, il soggetto è debordato dal proprio inconscio, nell’autismo al contrario il soggetto sembra carente di inconscio. L’autistico avrebbe bisogno di molto più inconscio per entrare in un contatto di scambio significativo con gli altri, nella misura in cui la nostra capacità di intendere gli altri trova le sue fonti nel nostro inconscio. Freud descriveva il lavoro psicoanalitico in analogia con lo Zuidersee olandese, come un immettere terra nel mare dell’inconscio; ma nel caso dell’autismo, abbiamo troppa terra arida, ci sarebbe bisogno piuttosto di una drastica irrigazione di Es. L’inconscio freudiano è un surplus di significante (e di impulsi) che il nostro Io (la parte della soggettività che controlla e organizza) non riesce a controllare, a usare, a metabolizzare. Per Freud l’inconscio non sono solo pulsioni rimosse: sono impulsi che si significano continuamente, e l’Io – le funzioni razionali e cognitive dell’essere umano – è spesso minacciato di essere subissato da questa plus-significazione, che ci fa carne (nel senso antico) significante. Ma l’Io si arricchisce anche di questi impulsi, che lo rendono creativo se riesce a gestirli. Nell’autistico accade l’inverso: la propria soggettività è impoverita da una minus-significazione. Questo non vuol dire certo che egli sia privo di affetti e di emozioni, che possono essere anzi tanto forti da soverchiarlo. Ma l’emotività autistica è povera di significazione soggettiva, è emozioni senza “io”. Certo gli autistici esprimono la gioia, la paura, la rabbia, ecc., ma non sono in sintonia con le attese sociali. Sono le emozioni sociali, in effetti, quelle di cui gli autistici appaiono incompetenti, perché le emozioni sociali implicano il riconoscimento dell’altrui soggettività, e il fatto che la propria soggettività venga riconosciuta da altri. Da qui il loro sentirsi, spesso, “animali”, non nel senso che sarebbero agitati da appetiti bestiali, ma nel senso che non si sentono pienamente umani – sono tra l’animale e il computer, saltando l’umanità.
In effetti, gli autistici non conoscono sentimenti come la modestia, la vergogna o i sensi di colpa. Non capiscono il perché dei tabù sociali e quindi non capiscono l’ipocrisia sociale che regola i nostri rapporti. Da qui le loro famose gaffe. Certamente molti di loro hanno imparato in modo molto esteriore come ci si deve comportare in pubblico; alcuni imparano così bene a vivere in società che quasi non ci si accorge della loro diversità. Ad esempio, sanno che se si è presentati a un bambino bisogna dire “che bello questo bambino!” Ma non bisogna essere “ipocriti” se questo bambino è orribile e malformato, non si può dire al bambino o ai genitori “che bello questo bambino!” Ed è proprio quello che per lo più fanno. Gli autistici non capiscono che l’ipocrisia sociale necessita di limiti, altrimenti si auto-denuncia come tale.
Così gli autistici non sanno ingannare, non cercano di far colpo sugli altri. Non manipolano mai, non si occupano mai di pettegolezzi. Non hanno senso della proprietà, sono privi di invidia e a loro piace dare. Insomma, sono privi di tutta la gamma degli affetti, anche spregevoli, che danno spessore al nostro essere-con-gli-altri.
Questo non toglie che essi possano provare compassione per persone o animali che soffrono. Grandin, ad esempio, compativa i maiali: li accompagnava al macello piangendo. Ma la compassione autistica è priva di empatia, come abbiamo detto. Questa non è avere simpatia per gli altri, e nemmeno compatirli: è sentire che la sofferenza degli altri è anche la mia. La compassione per un altro è quando l’altro subisce un danno, ma si empatizza direi con l’esistenza stessa dell’altro. E’ l’esistenza altrui a commuoverci, anche quando all’altro non accade nulla di terribile. Possiamo quindi dire che l’autistico è certamente capace di compassione – si può al limite compatire anche un oggetto – non di empatia. E’ la tesi di Gallese: per una carenza (probabile) di neuroni specchio, gli autistici sono incapaci di empatia. Ma abbiamo già detto che questa carenza di empatia per noi è il corollario di una più profonda agnosia.
7.
Per la psicoanalisi l’inconscio non è fatto di emozioni, che sono sempre consce. L’inconscio è quella rete di significazioni che rendono certe emozioni possibili in certe situazioni. L’inconscio è l’altra faccia del nostro rapporto con gli altri in quanto costoro vengono riconosciuti come soggetti – Lacan direbbe piuttosto che per il soggetto è l’Altro – condizione del fatto che gli altri soggetti possano riconoscermi a loro volta come soggetto. Il reciproco riconoscimento tra soggetti come appunto “soggetti”, il poter tessere delle significazioni soggettive, è alla base di ogni lavoro psicoanalitico.
Ma come curare allora analiticamente un autistico? L’analista, anche quando non interpreta, fa risuonare tutto ciò che l’analizzante dice come metaforico, come significante qualcosa di diverso da quel che dice o fa letteralmente, l’analista fa emergere la pletora significante del soggetto. E’ quel che comunemente vien detto “ascoltare con il terzo orecchio”. Questo terzo orecchio è la capacità di trovare significative cose che non appaiono significative, o che sembrano avere un significato piatto, letterale. Ma questo non è possibile con l’autistico proprio perché non sa ascoltare col terzo orecchio: egli vede il mondo umano, sé stesso compreso, come significativamente povero. Dirac non colse nel collega l’enunciazione di una domanda, vi colse solo la descrizione di un dato di fatto, perché gli era difficile leggere la significazione interrogativa. Per lui il collega descriveva la propria mente, non mostrava la propria domanda, ovvero il proprio desiderio di capire meglio.
Significa questo che siano possibili solo interventi di tipo cognitivo-comportamentale con gli autistici? Probabilmente non solo. Credo che certe madri o padri, a dispetto della diffamazione psicoanalitica nei loro confronti, sappiano istintivamente trovare dei surrogati, delle protesi di soggettività direi, che permettano ai loro figli autistici di capire un po’ la soggettività altrui, e la propria. E’ probabile che la madre di Grandin sia stata molto brava non nel “guarire” la figlia – è dubbio che si possa guarire dall’autismo, come non si può “guarire” dall’essere nani o giganti – ma nel compensarne le carenze al punto tale da farne una star come scrittrice e personaggio. E qualsiasi cosa un analista pensi di fare, dovrebbe partire dal riconoscimento della specificità vera dell’autismo: la sua povertà di inconscio. Ma è possibile innestare un po’ di inconscio in qualcun altro?
Non so dare alcun consiglio agli analisti che vogliano cimentarsi con gli autistici. Ma credo che possano fare qualcosa solo rovesciando la strategia tipica dell’ascolto analitico. L’analista non può ascoltare nell’autistico il suo inconscio perché questi ne è povero (non ne è completamente privo, diciamo che esso è congelato): dovrebbe piuttosto parlare lui o lei, analista, in modo da arricchire le capacità dell’autistico di percepire l’altrui soggettività. Con l’autistico, più che ascoltare, l’analista dovrebbe parlare.
Anche qui l’opposizione con la psicosi appare decisiva. Con gli psicotici si tende a non interpretare affatto, perché – come abbiamo detto – gli psicotici sono già fin troppo interpretanti per loro conto: essi super-significano il mondo. Se si interpreta un delirio, si rischia di alimentare il delirio, è come gettare olio sul fuoco. Molte interpretazioni analitiche vengono difatti recepite come persecutorie da parte dello psicotico, perché per lui le parole sono sempre atti. Con l’autistico un analista – che così facendo farebbe insomma il contrario di quel che fa sempre – dovrebbe essere attivo, esporre il soggetto autistico a esperienze da cui possa emergere l’alba di un riconoscimento di qualcosa che un essere puramente cognitivo come lui non riesce a percepire: la nostra soggettività umana come significante. Il fatto insomma che non conta solo quello che si dice, ma anche, attraverso quel che si dice o non si dice, quel che si mostra. E quel che si mostra è la propria soggettività che non si riduce mai al detto.
Premetto: esercito come psicoanalista. Penso che la teoria psicoanalitica sia molto potente e ingiustamente sottovalutata da psicologi e psichiatri oggi. Credo che un’analisi, se fatta correttamente, sia un sistema di cura potente. Insomma, non posso essere sospettato di essere un mangia-Freud. Tuttavia, credo che finora le teorie psicoanalitiche sull’autismo siano state un flop. Amicus Freudus, sed magis amica veritas.
Gli anti-psicoanalisi hanno scelto di focalizzarsi proprio sulla psicoanalisi dell’autismo e non su altri approcci psicoanalitici – ad esempio sulle nevrosi, sulle psicosi, sulle perversioni, sulle psicopatie – perché intuiscono che l’autismo è il tallone d’Achille della psicoanalisi. E che la psicoanalisi non provvede a coprire adeguatamente questo tallone. Come in una guerra, si attacca il nemico sul suo fianco più debole.
1.
La fragilità delle teorie psicoanalitiche sull’autismo finora articolate non consiste tanto, come pensano i suoi detrattori, nella debolezza della sua eziopatogenesi. Non è in questione quella che la psicoanalisi del mainstream invoca come causa essenziale dell’autismo, ovvero una relazione “disumana” madre-bambino (la teoria de “la mamma frigorifero”, che per decenni ha ispirato la spiegazione, soprattutto americana, dell’autismo). La debolezza delle teorie psicoanalitiche consiste piuttosto nella loro visione dell’autismo in quanto tale, ovvero nel loro modo di considerarne la specificità. Su questo punto, credo che le scienze cognitive siano in anticipo rispetto alla psicoanalisi.
Stranamente quelli che vogliono sostenere a ogni costo il corrente approccio psicoanalitico all’autismo si sono appiattiti sulla teoria dell’attaccamento (che – è vero – attraverso John Bowlby deriva dalla psicoanalisi): sull’idea che insomma la relazione madre-bambino spieghi tutto, dalle schizofrenie all’autismo, dalle perversioni alle sociopatie. Ma i grandi maestri della psicoanalisi, da Freud a Lacan passando per M. Klein, non hanno mai sostenuto una teoria simile: che tutta la “colpa” delle psicopatologie sia della madre o della persona che dà le prime cure. Ogni soggetto ci mette del proprio, per così dire, anche nella relazione con gli adulti fondamentali. Non siamo interamente i prodotti della nostra mamma o di chi ci dà le cure nella prima infanzia.
L’approccio psicoanalitico all’autismo è carente piuttosto nel capire che cosa l’autismo davvero sia. Prima di tutto occorre porsi la questione “che cosa esso essenzialmente è?” Ora, mi pare che molta psicoanalisi – a partire da Bruno Bettelheim, massimo esponente della teoria analitica dell’autismo, da decenni apertamente contestata da varie parti – confonda l’”autismo” di cui parlò Eugen Bleuler con l’autismo descritto successivamente da Kanner e Asperger, ovvero con l’autismo come lo si intende oggi. Autismo per Bleuler[1] era il sintomo fondamentale della schizofrenia, ovvero la modalità psicotica di ritiro dal mondo e dal rapporto con gli altri, ma non ha nulla a che vedere con quel che oggi viene chiamato “spettro autistico”[2]. Insomma, la psicoanalisi ha continuato a credere che l’autismo sia una forma specifica di psicosi, quindi spiegabile come vanno spiegate le altre psicosi[3].
L’analisi clinica di non-analisti secondo me ha invece colto qualcosa di più importante. Ovvero, per dirla molto semplicemente, costoro hanno capito che gli autistici sono dei soggetti cognitivo-comportamentali. Non nel senso che gli autistici crederebbero nelle teorie cognitive e comportamentali di oggi, ma nel senso che il funzionamento della mente autistica coincide più o meno con il modo in cui behavioristi e cognitivisti concepiscono la mente in generale. Detto in altro modo: se la teoria cognitivo-comportamentale della mente umana fosse universalmente valida, saremmo tutti autistici. Potremmo dire che la patologia autistica è la cognitività-comportamentalità.
Detto in modo molto stringato, l’autismo, nelle sue forme più o meno gravi, è una forma particolare di agnosia. Ovvero, è una sorta di cecità psichica a qualcosa di molto particolare. Ci sono varie agnosie[4]. Secondo i cognitivisti, nell’autismo si tratterebbe di una cecità a riconoscere la mente altrui. Ovvero, l’autistico sarebbe privo di una “teoria della mente”, sia propria che degli altri. La proverbiale goffaggine dell’autistico nel suo rapporto con gli altri dimostrerebbe che egli non capisce cosa passi nella mente altrui, mentre questo per la maggior parte di noi è un dato direi immediato, anche senza alcun speciale intuito psicologico.
Era autistico Asperger uno dei più grandi fisici del secolo scorso, Paul Adrien Maurice Dirac. Come racconta Carlo Rovelli[5]:
Durante una conferenza [di Dirac], un collega interloquì: “Non ho capito quella formula”. Dirac, dopo una breve pausa di silenzio, continuò imperterrito. Il moderatore lo interruppe chiedendogli se non volesse rispondere alla domanda, e Dirac, sinceramente stupito: “Domanda? Quale domanda? Il collega ha fatto un’affermazione” (“Non ho capito quella formula” è un’affermazione, non una domanda…) Non era spocchia: l’uomo che vedeva i segreti della natura che sfuggivano a tutti non comprendeva il linguaggio implicito, non comprendeva i suoi simili e prendeva ogni frase alla lettera[6].
In questo caso, Dirac non coglieva la dimensione che i filosofi del linguaggio chiamano performativa della parola: il fatto che il linguaggio non è semplicemente una serie di affermazioni, ma che noi agiamo col linguaggio. Nel caso qui sopra, il collega di Dirac aveva fatto una domanda, e quando si fa una domanda l’altro è costretto, in qualche modo, a dare una risposta; magari dicendo che non risponderà.
Per usare una distinzione della filosofia del linguaggio, quella tra ‘enunciato’ ed ‘enunciazione’, diremo che l’autistico capisce gli enunciati ma non coglie le enunciazioni. L’enunciato è la frase letterale, l’enunciazione è l’atto soggettivo di enunciare qualcosa, il cui senso dipende dal contesto e dalle intenzioni non esplicitate. Un esempio plastico di differenza tra enunciato ed enunciazione è dato da una famosa barzelletta ebraica, raccontata da Freud.
Due ebrei rivali nel commercio si incontrano in un treno in Polonia. Uno chiede all’altro dove vada, e quello risponde: “A Cracovia”. Al che l’altro si indigna: “Ma perché mi dici di andare a Cracovia per farmi credere che vai a Varsavia, mentre nella realtà vai veramente a Cracovia?”
Ecco un gioco linguistico che un autistico stenterebbe seriamente a capire. Del resto, se c’è una cosa a cui l’autistico non ha accesso, è il senso dell’humour.
Bisogna precisare che, nel caso dell’autismo la psichiatria del mainstream sta passando da un paradigma categoriale a uno dimensionale. Un approccio categoriale considera ogni malattia una categoria discontinua, una rottura rispetto alla normalità, implica una opposizione binaria tra “sano” e “malato”. Un approccio dimensionale invece vede tutto come un più o un meno. In questo modo, l’autismo tende a dimensionalizzarsi. Si è più o meno autistici così come si è più o meno alti e bassi, o come si ha un QI più o meno alto o basso. L’autismo non sarebbe una patologia, frutto di una lesione, ma un modo di essere più o meno. Perciò oggi si tende a parlare di spettro autistico, ovvero di una serie continua di sfumature.
Ma se il contrario di essere alti è essere bassi, e se il contrario di essere intelligenti è essere stupidi, quale sarà allora il contrario di essere autistici? Come vedremo, si tende oggi a pensare che l’inverso dell’autismo sia la capacità di empatia.
2.
Ora, la teoria cognitivista classica dell’autismo – come carenza di una teoria della mente[7] – è stata confutata da neuroscienziati che si ispirano alla fenomenologia filosofica, in particolare da Vittorio Gallese[8], uno degli scopritori dei neuroni specchio (équipe guidata da Giacomo Rizzolatti). Secondo questi neuroscienziati, noi percepiamo direttamente intenzioni, allusioni, impliciti, metafore degli altri non perché ci siamo costruiti col tempo una teoria della mente, come pretende il modello cognitivista, ma perché percepiamo direttamente l’altrui soggettività. Nell’affermazione del fisico “Non ho capito quella formula” tutti noi percepiamo – più che ‘interpretiamo’ – l’espressione di una domanda. Insomma, l’autismo è l’agnosia di un ‘oggetto’ molto particolare che il cognitivismo non riesce a delineare e a concettualizzare: la soggettività, sia propria che altrui. L’autistico, non percependo la soggettività, percepisce solo menti cognitive, nelle quali quindi è molto carente la funzione della metaforizzazione.
Questo è ben descritto in un film ungherese recente, Corpo e Anima di Ildikó Enyedi: la protagonista femminile è una donna autistica ben integrata, lavora da impiegata in un mattatoio, ma ha difficoltà a cogliere il senso del desiderio amoroso per un uomo e da parte di un uomo, perché il desiderio è espressione fondamentale della soggettività. E’ questa anche la specificità di Temple Grandin.
Temple Grandin è forse il soggetto autistico più noto al mondo[9]. Perché ha scritto molti saggi sull’autismo, ed è anche grande specialista di problemi di allevamento (inventò un sistema di macellazione del bestiame che rende il processo molto meno traumatico per le bestie), materia che insegna all’Animal Science Department della Colorado State University. La sua autobiografia pubblicata nel 1986 – Emergence: Labeled Autistic – è stata un bestseller tradotto in molte lingue[10]. Polemista brillante, ha attaccato la visione di Bettelheim e sostiene – come tutti gli autistici colti – una spiegazione puramente neurologica dell’autismo.
Va notato che, come molti autistici, Temple è priva di qualsiasi desiderio erotico, per lei le emozioni sessuali sono del tutto incomprensibili. Temple è nota anche per aver costruito una macchina mobile che la massaggia, e di cui dice di trarne grande benessere. Sue amiche e amici le hanno sempre detto che si tratta di una macchina per essere abbracciata. Temple non dà senso all’abbraccio sensuale di un uomo o di una donna, ma a quello di una macchina sì. Comunque, la scienziata autistica ha difficoltà nel mettere in relazione l’abbraccio umano e quello meccanico. Un esempio eloquente della natura stessa della soggettività autistica.
Nella nostra esperienza non-autistica dell’abbraccio, anche in assenza di un’attrazione sessuale per chi ci abbraccia, confluiscono almeno tre dimensioni che vanno distinte. Una è la dimensione fisica del “massaggio”, che di per sé è piacevole, come si vede dalle varie pratiche di massaggio professionale oggi praticate. Un’altra dimensione è di significazione diciamo “simbolica”: abbracciandoci, l’altro ci include metaforicamente in sé stesso, si fa luogo in cui ci accoglie, ci ‘interiorizza’ corporalmente a sé, come se ci mangiasse con le braccia. E c’è una dimensione squisitamente affettiva legata all’altro, l’abbraccio come modo corporeo di sentirsi amati da un altro. Ora, sembra evidente che in Grandin dell’abbraccio resta solo la prima dimensione, quella fisica, le altre due non compaiono; e questo le permette di sostituire una macchina da lei stessa costruita a un altro essere umano. La domanda delicata è: il piacere così intenso, calmante, che l’autistica trae da quel massaggio meccanico è solo fisico, oppure nell’esperienza fisica si traduce un’esperienza con un altro soggetto e un’esperienza di significazione ma entrambe “reificate”? E’ come se una madre traesse piacere dall’imboccare continuamente suo figlio piccolo pur non provando nessun affetto o amore per lui: eppure il piacere di imboccarlo meccanicamente potrebbe essere visto come il surrogato di un amore non percepito. Si tratterebbe di una madre autistica, certamente.
3.
Tutto quanto detto finora dovrebbe farci capire perché l’autismo non andrebbe confuso con le psicosi. Direi anzi che ne è l’opposto. In effetti, chiamiamo psicotici – schizofrenici, paranoici, maniaco-depressivi – soggetti i quali, a nostro giudizio, attribuiscono un eccesso di significazione al mondo, soprattutto a quello umano. Ovvero, essi vedono, percepiscono, intendono molto più significante di quanto non ce ne sia, perciò diciamo che delirano; e producono molto più significante di quanto non ne sia (per noi) necessario, come nel flusso di idee (disorganized speech, Ideenflucht).
Per tutti noi il tratto patognomico principale di ogni psicosi, si sa, è udire voci. Ovvero, per lo psicotico il mondo è molto più parlante di quanto non lo sia per noi. Nelle psicosi c’è sempre un eccesso di significante (il che non vuol dire affatto un eccesso di senso! Le voci possono essere pressanti, continue, pervasive, ma insensate). Nel delirio di interpretazione dei paranoici siamo convinti che il soggetto legga troppo significante in eventi reali che per noi sono irrilevanti o casuali. Insomma, parliamo di psicosi quando un soggetto vive in un mondo troppo significante rispetto al “nostro” mondo, e questo indipendentemente dal fatto che lo psicotico trovi senso a questo eccesso significante (come nei deliri paranoici sistematizzati) o non ne trovi affatto, abbandonandosi al puro nonsense del fluire sfrenato di parole che non circoscrivono alcun senso.
All’inverso, il mondo in cui vive l’autistico ci appare troppo povero di significante. L’autistico vede l’altro e anche sé stesso come una serie di comportamenti, ma ha difficoltà a vedere una soggettività che si significa dietro di questi. Potremmo anche dire che il mondo dell’autistico è anti-ermeneutico, è un mondo puramente ontico. Non è corretto quindi dire che l’autistico vive in un mondo tutto proprio: al contrario, è completamente sprofondato nel mondo reale, da cui è stata però sottratta ogni ambiguità metaforica, ogni fessurazione soggettiva. E’ un essere-nel-mondo spellato, da qui il suo orrore per sensazioni forti, per certi rumori, gesti… La “pelle” qui in questione è la nostra soggettività stessa, che fascia e in qualche modo ammortizza il nostro rapporto alla realtà, che rende la realtà esterna a noi qualcosa di meno brutale. In effetti, è proprio grazie all’autismo che, forse, possiamo desumere il senso di quel che chiamiamo soggettività, concetto quanto mai evaporante. La soggettività, infatti, non è coscienza o auto-coscienza (l’autistico è molto cosciente), ma nemmeno mente nel senso cognitivista. Diciamo che l’autismo ci fa cogliere qualcosa della nostra soggettività grazie alla sua carenza o assenza: ovvero, la soggettività è un vuoto attorno a cui si mette a ruotare ordinatamente il mondo.
Non siamo mai completamente esposti alla realtà nella sua piena insignificanza, la moduliamo sempre soggettivamente, sia attraverso i nostri pensieri, sia attraverso il nostro “leggere” pensieri e sentimenti degli altri. La soggettività sembra l’equivalente delle colonne sonore dei film, che caricano di senso le immagini e quindi ci aiutano a metabolizzarle. L’autistico non è insomma una fortezza vuota (The empty Fortress è il titolo che Bettelheim dette al suo libro principale sugli autistici[11]): l’autistico è alquanto vuoto di soggettività, ma non perché si sia ritirato dal mondo costruendosi una barriera difensiva attorno. Se l’ha costruita, essa è secondaria al suo sentirsi “sperduto” nel mondo di chi autistico non è. Piuttosto, per lui il mondo sociale, il mondo delle relazioni umane, è incomprensibile – e quindi minaccioso – perché non ha la capacità di “leggere” il versante soggettivo e significante del mondo. E’ quel che disse un autistico: “Sin da piccolo mi sentivo isolato perché vedevo che gli altri bambini si parlavano con gli occhi. Ma io non li capivo”.
Direi quindi che l’autistico è piuttosto “una casa senza mura”, ovvero, è una casa che in sostanza non c’è.
Nei casi più gravi, come è noto, gli autistici non accedono nemmeno al linguaggio articolato. Ma questo mancato accesso al linguaggio non è dovuto a un deficit cognitivo, a un’impossibilità di usare i simboli nella misura in cui questi sono segni astratti: è dovuto alla loro grande difficoltà ad accedere alla dimensione soggettiva del linguaggio, al fatto che parlare non è mettere insieme parole, ma manifestare qualcosa di soggettivo attraverso le parole. Per loro il linguaggio è qualcosa di astratto, disancorato dall’espressività soggettiva.
Un tratto caratteristico degli autistici è che essi guardano non gli occhi dell’altro, ma la sua bocca. Eppure bambini normali molto piccoli, sotto i due anni, guardano già gli occhi degli adulti prima di ogni altra cosa. Questa differenza è cruciale. Noi pensiamo che gli occhi siano “lo specchio dell’anima” anche se da essi non fuoriesce nulla, e sono solo sottili variazioni oculari a dirci che cosa l’altro sente; gli occhi rinviano a qualcosa di immateriale, vale a dire al supposto punto della soggettività, che sembra celarsi dietro gli occhi. Il “foro interiore” dicono alcuni. Dalla bocca invece escono suoni materiali, parole, e l’autistico è un materialista nato, per dir così: è sensibile a ciò che viene fuori dalla soggettività altrui, non a questa soggettività in sé. Gli occhi altrui ci rimandano a una funzione speculare alla nostra: l’altro guarda me così come io guardo lui. Ma la bocca non è speculare: l’altro parla, e quindi la mia bocca deve restare chiusa. La differenza è fatta dall’assunzione dell’altrui soggettività.
Per questa ragione trovo inesatto parlare dell’autismo come “disturbo dello sviluppo”: si suggerisce così che ogni bambino passerebbe per una fase autistica, solo che l’autistico si fermerebbe a questa fase e non andrebbe più avanti. Ma non c’è nessuna fase autistica nei bambini, a meno che non siano già autistici. L’autismo è disturbo dello sviluppo nel senso banale in cui possiamo dire che a un bambino che nasce cieco non si sviluppa la vista. Ma la cecità non è un disturbo dello sviluppo, è il mancato sviluppo di un organo e di una funzione.
4.
Non è vero quindi – sostiene Gallese – che l’autistico non sia riuscito a costruirsi una teoria della mente, come affermano i cognitivisti: la verità è che può entrare in contatto con gli altri solo grazie a una teoria della mente che si è costruita, non grazie all’intuizione immediata dell’altrui soggettività che rende fluidi e profondi (almeno fino a un certo punto) i nostri rapporti con gli altri. Egli si costruisce delle teorie, anche esatte, sulla mente, così come noi ci costruiamo delle teorie sugli elementi chimici o sulle galassie; ma appunto, non parliamo né con gli elementi chimici né con le galassie, per questa ragione abbiamo bisogno di teorie scientifiche. E’ come se l’altro, per l’autistico, fosse un oggetto di indagine obiettiva, non un suo essere-con-me o essere-contro-di-me. La soggettività dell’altro non si mostra attraverso quello che lui dice o fa.
Questo ci fa capire perché gli autistici siano bravi, talvolta più bravi della media, in operazioni matematiche, o di calcolo, o di memoria, o puramente logiche. I significanti matematici non esigono alcuna premessa soggettiva. Gli autistici sono bravi come computer – e possono essere molto bravi con i computer – perché hanno una analogia con il computer: non hanno soggettività. Nessuno pensa che il proprio computer abbia una mente, tutti sappiamo che è solo una macchina, anche se parla Siri. Nelle operazioni puramente formali, in effetti, è bene che non si mostri nulla della nostra o altrui soggettività.
Colpisce il fatto che gli autistici amino molto effettuare movimenti centripeti; ad esempio, far girare una corda a ruota. Molti di loro adorano girare nel rotore, quella macchina rotante dei luna park in cui le persone sono schiacciate, per dir così, sulla parete di un cilindro che gira vorticosamente. E’ quella che chiamerei la passione autistica della trottola. Come spiegare questa attrazione? Secondo me perché la nostra soggettività è come un centro che in qualche modo struttura il mondo circostante come un turbine attorno a essa. E’ quel che si vuol dire dicendo che ogni io è il centro del mondo. Il mondo è ordinato dalla soggettività, che è prima di tutto una centralizzazione, che fa ruotare tutte le cose attorno al nostro io, come la terra tolemaica. Ora, pare che gli autistici siano privi di questa soggettività centrale, da qui un certo loro terrore di essere come trasportati dalle cose e andare alla deriva. Hanno paura di essere risucchiati dal reale perché non possono dargli senso attraverso la preziosa angolarità soggettiva. E proprio per questo quando, nel mondo fisico, trovano qualcosa di cui la loro mente è priva – la centripeticità del mondo – essi ne sono molto sedotti. Nelle forme circolari concentriche vedono una soluzione di una loro difficoltà intrinseca nel loro essere-nel-mondo.
Analogamente, la loro tendenza a dondolarsi sembra voler delineare un perno, ovvero quel “fulcro” ideale che ognuno di noi pensa di avere o forse essere, attorno a cui si svolge il nostro corpo ma si svolgono anche i nostri pensieri. E’ come se l’autistico cercasse di ri-formare continuamente, nel reale, una centralità o una assialità come soggetto, centralità e assialità che non sono per noi spaziali ma mentali.
Diciamo comunque che non ci basta nemmeno la teoria neuro-fenomenologica che fa dell’autismo una carenza di capacità empatica (magari a causa di un disfunzionamento nei neuroni specchio, come sostiene Gallese). E’ vero che l’autistico manca di empatia, ma nella misura in cui l’empatia è la funzione diciamo affettiva che si accompagna alla percezione della soggettività propria o altrui. Chi riduce l’autismo a una carenza di empatia si trova in difficoltà a commentare il famoso test di Sally-Anne[12].
In questo test si vedono due bambine in una stessa stanza, Sally ha vicino a sé un paniere, Anne ha vicino a sé una scatola. Sally mette un cubetto nel paniere, poi va via. Nel frattempo Anne prende il cubetto dal paniere e lo introduce nella sua scatola. A un certo punto Sally rientra e si chiede alla persona testata: “Dove Sally crede che il cubetto stia?” E’ notevole che la maggior parte dei bambini normali e anche quelli con una sindrome di Down diano la risposta giusta, mentre la maggioranza degli autistici (come molti bambini piccoli sotto i quattro anni) dicono che Sally cercherà il cubetto nella scatola di Anne. Questa sarebbe la prova che gli autistici mancano di una “teoria della mente”.
La difficoltà per la teoria dell’autismo come carenza di empatia nasce dal fatto che l’errata risposta dell’autistico non sembra correlata a un rapporto empatico con l’altro, ma a qualcosa di ancora più profondo, che chiamerei il primato della dimensione ontologica dell’autistico rispetto alla dimensione epistemologica. Quel che conta è come le cose stanno, non chi considera come stanno le cose. Il sapere o non sapere tende a essere irrilevante per l’autistico, perché il sapere implica uno scarto tra la funzione soggettiva e la realtà extra-soggettiva. Se un autistico fosse filosofo, scommetto che non potrebbe essere mai kantiano: per lui o lei il noumeno e il fenomeno, la cosa-in-sé e le cose che ci appaiono, devono per forza coincidere. L’autismo è un realismo incarnato. Quindi, la carenza di empatia dell’autistico è un aspetto conseguente al fatto che egli non percepisce non solo la soggettività altrui, ma nemmeno la propria.
Insomma l’autismo, proprio grazie alla vistosa carenza che lo caratterizza – la percezione della soggettività – ci può dare di contraccolpo un’immagine preziosa di ciò che abbiamo chiamato soggettività, un ente che le due filosofie che oggi vanno per la maggiore – cognitivismo e fenomenologia – stentano a concettualizzare. Il cognitivismo si occupa solo della mente, che è essenzialmente una mente cognitiva, e quindi esso non sa vedere la soggettività, che è un’istanza al di là o al di qua della mente. La fenomenologia riduce invece la soggettività a qualcosa di integrato al nostro essere-nel-mondo, sempre risolta nella relazione con altri soggetti, ma mai descritta come tale. E’ qui allora che, forse, gli psicoanalisti avrebbero del lavoro da fare, dato che la psicoanalisi è un programma di ricerca che tematizza proprio la soggettività, anche se essa stessa ha grandi problemi nel descriverla. E l’autismo, proprio perché manca di questo quid, di riflesso può farci vedere meglio l’essenza di questo quid. Attorno a cui la psicoanalisi non cessa di girare.
5.
Purtroppo, però, non mi pare che per lo più gli analisti abbiano colto questa specificità dell’autismo, come agnosia della soggettività. Alcuni addirittura ipotizzano una fase autistica nello sviluppo infantile[13], che mi pare però del tutto fantasiosa.
Perciò non condivido la campagna difensiva che nei vari paesi vari analisti lanciano contro l’approccio non-psicoanalitico all’autismo. Si tratta di un atteggiamento piagnucoloso, e in fondo perdente perché quando ci si mette sulla difensiva si confessa la propria debolezza. All’epoca del suo massimo prestigio, anni 60 e 70, la psicoanalisi non si difendeva, attaccava; è così che essa ha potuto mettere alle corde, in quell’epoca, la psichiatria tradizionale, manicomiale e puramente nosologica. La psicoanalisi dovrebbe invece tesaurizzare quel che altre ricerche hanno chiarito, riformulando completamente le proprie ipotesi sull’autismo. Secondo una linea possibile a cui accenneremo.
Le strategie di difesa degli psicoanalisti puntano sull’opposizione netta tra due teorie eziopatogenetiche, da una parte “relazione con adulti (soprattutto madre)” dall’altra “costituzione cerebrale organica”. Questa opposizione rigida – chiamiamola “relazione versus stato cerebrale” – è però un tranello in cui la psicoanalisi non dovrebbe cadere. Ammettiamo che si scoprisse che occorrono certe predisposizioni organiche (cerebrali) per sviluppare un’isteria: questo falsificherebbe ipso facto tutto quello che la psicoanalisi ha detto e raccolto sull’isteria? Per nulla. A tutto ciò che diciamo in linguaggio psichico si può trovare, almeno in teoria, una equivalenza cerebrale, ma si tratta di due linguaggi appunto incommensurabili, anche se non incompatibili. La buona psicoanalisi non ha mai respinto a priori fattori costituzionali o predisposizioni cerebrali: il punto è che cosa il soggetto – e chi gli sta attorno – farà di queste predisposizioni. La realtà è che certe predisposizioni organiche e le storie soggettive sono tra loro talmente interconnesse e fuse, che non si può dividere con l’accetta “relazione” da “stato cerebrale”. Non escludo affatto che un certo rapporto che una madre stabilisce con il figlio autistico possa essere un fattore essenziale per l’evoluzione dell’autismo; ma appunto, il problema che qui pongo non è eziopatogenetico, ma di essenza.
Alla base di questa conversione “relazionista” della psicoanalisi – che è una forma rammodernata della vecchia opposizione “anima versus corpo”, solo che oggi l’anima è una inter-anima – nasce da un presupposto, in molti casi esplicitato: che l’analisi è una sorta di secondo appello di maternità, che l’analista è una seconda madre, questa volta abbastanza buona, che permetterà al soggetto quella evoluzione che la prima madre, non abbastanza buona, non ha reso possibile. Siccome l’analisi sarebbe un secondo maternage, occorre quindi che la causa (ma di fatto la colpa) dell’autismo sia la prima madre. Ma tutto questo è una enorme semplificazione. Non credo che le ricostruzioni analitiche, e le terapie analitiche tanto meno, siano semplici corollari di una teoria eziologica. Un’analisi è prima di tutto un’opzione etica, un certo modo di avere a che fare con inibizioni sintomi e angosce.
6.
In effetti, se tutto quello che ho detto prima è esatto, l’autistico rappresenta un problema arduo per lo psicoanalista, soprattutto quando intende operare terapeuticamente con lui o lei. Per la semplice ragione che, se l’autismo è un’agnosia della soggettività propria e altrui, la conclusione inevitabile è che l’autistico è praticamente privo di inconscio, almeno quello che lo psicoanalista coglie nelle nevrosi e nelle psicosi. Possiamo dire che mentre nelle psicosi l’inconscio viene fuori allo scoperto, ovvero, il soggetto è debordato dal proprio inconscio, nell’autismo al contrario il soggetto sembra carente di inconscio. L’autistico avrebbe bisogno di molto più inconscio per entrare in un contatto di scambio significativo con gli altri, nella misura in cui la nostra capacità di intendere gli altri trova le sue fonti nel nostro inconscio. Freud descriveva il lavoro psicoanalitico in analogia con lo Zuidersee olandese, come un immettere terra nel mare dell’inconscio; ma nel caso dell’autismo, abbiamo troppa terra arida, ci sarebbe bisogno piuttosto di una drastica irrigazione di Es. L’inconscio freudiano è un surplus di significante (e di impulsi) che il nostro Io (la parte della soggettività che controlla e organizza) non riesce a controllare, a usare, a metabolizzare. Per Freud l’inconscio non sono solo pulsioni rimosse: sono impulsi che si significano continuamente, e l’Io – le funzioni razionali e cognitive dell’essere umano – è spesso minacciato di essere subissato da questa plus-significazione, che ci fa carne (nel senso antico) significante. Ma l’Io si arricchisce anche di questi impulsi, che lo rendono creativo se riesce a gestirli. Nell’autistico accade l’inverso: la propria soggettività è impoverita da una minus-significazione. Questo non vuol dire certo che egli sia privo di affetti e di emozioni, che possono essere anzi tanto forti da soverchiarlo. Ma l’emotività autistica è povera di significazione soggettiva, è emozioni senza “io”. Certo gli autistici esprimono la gioia, la paura, la rabbia, ecc., ma non sono in sintonia con le attese sociali. Sono le emozioni sociali, in effetti, quelle di cui gli autistici appaiono incompetenti, perché le emozioni sociali implicano il riconoscimento dell’altrui soggettività, e il fatto che la propria soggettività venga riconosciuta da altri. Da qui il loro sentirsi, spesso, “animali”, non nel senso che sarebbero agitati da appetiti bestiali, ma nel senso che non si sentono pienamente umani – sono tra l’animale e il computer, saltando l’umanità.
In effetti, gli autistici non conoscono sentimenti come la modestia, la vergogna o i sensi di colpa. Non capiscono il perché dei tabù sociali e quindi non capiscono l’ipocrisia sociale che regola i nostri rapporti. Da qui le loro famose gaffe. Certamente molti di loro hanno imparato in modo molto esteriore come ci si deve comportare in pubblico; alcuni imparano così bene a vivere in società che quasi non ci si accorge della loro diversità. Ad esempio, sanno che se si è presentati a un bambino bisogna dire “che bello questo bambino!” Ma non bisogna essere “ipocriti” se questo bambino è orribile e malformato, non si può dire al bambino o ai genitori “che bello questo bambino!” Ed è proprio quello che per lo più fanno. Gli autistici non capiscono che l’ipocrisia sociale necessita di limiti, altrimenti si auto-denuncia come tale.
Così gli autistici non sanno ingannare, non cercano di far colpo sugli altri. Non manipolano mai, non si occupano mai di pettegolezzi. Non hanno senso della proprietà, sono privi di invidia e a loro piace dare. Insomma, sono privi di tutta la gamma degli affetti, anche spregevoli, che danno spessore al nostro essere-con-gli-altri.
Questo non toglie che essi possano provare compassione per persone o animali che soffrono. Grandin, ad esempio, compativa i maiali: li accompagnava al macello piangendo. Ma la compassione autistica è priva di empatia, come abbiamo detto. Questa non è avere simpatia per gli altri, e nemmeno compatirli: è sentire che la sofferenza degli altri è anche la mia. La compassione per un altro è quando l’altro subisce un danno, ma si empatizza direi con l’esistenza stessa dell’altro. E’ l’esistenza altrui a commuoverci, anche quando all’altro non accade nulla di terribile. Possiamo quindi dire che l’autistico è certamente capace di compassione – si può al limite compatire anche un oggetto – non di empatia. E’ la tesi di Gallese: per una carenza (probabile) di neuroni specchio, gli autistici sono incapaci di empatia. Ma abbiamo già detto che questa carenza di empatia per noi è il corollario di una più profonda agnosia.
7.
Per la psicoanalisi l’inconscio non è fatto di emozioni, che sono sempre consce. L’inconscio è quella rete di significazioni che rendono certe emozioni possibili in certe situazioni. L’inconscio è l’altra faccia del nostro rapporto con gli altri in quanto costoro vengono riconosciuti come soggetti – Lacan direbbe piuttosto che per il soggetto è l’Altro – condizione del fatto che gli altri soggetti possano riconoscermi a loro volta come soggetto. Il reciproco riconoscimento tra soggetti come appunto “soggetti”, il poter tessere delle significazioni soggettive, è alla base di ogni lavoro psicoanalitico.
Ma come curare allora analiticamente un autistico? L’analista, anche quando non interpreta, fa risuonare tutto ciò che l’analizzante dice come metaforico, come significante qualcosa di diverso da quel che dice o fa letteralmente, l’analista fa emergere la pletora significante del soggetto. E’ quel che comunemente vien detto “ascoltare con il terzo orecchio”. Questo terzo orecchio è la capacità di trovare significative cose che non appaiono significative, o che sembrano avere un significato piatto, letterale. Ma questo non è possibile con l’autistico proprio perché non sa ascoltare col terzo orecchio: egli vede il mondo umano, sé stesso compreso, come significativamente povero. Dirac non colse nel collega l’enunciazione di una domanda, vi colse solo la descrizione di un dato di fatto, perché gli era difficile leggere la significazione interrogativa. Per lui il collega descriveva la propria mente, non mostrava la propria domanda, ovvero il proprio desiderio di capire meglio.
Significa questo che siano possibili solo interventi di tipo cognitivo-comportamentale con gli autistici? Probabilmente non solo. Credo che certe madri o padri, a dispetto della diffamazione psicoanalitica nei loro confronti, sappiano istintivamente trovare dei surrogati, delle protesi di soggettività direi, che permettano ai loro figli autistici di capire un po’ la soggettività altrui, e la propria. E’ probabile che la madre di Grandin sia stata molto brava non nel “guarire” la figlia – è dubbio che si possa guarire dall’autismo, come non si può “guarire” dall’essere nani o giganti – ma nel compensarne le carenze al punto tale da farne una star come scrittrice e personaggio. E qualsiasi cosa un analista pensi di fare, dovrebbe partire dal riconoscimento della specificità vera dell’autismo: la sua povertà di inconscio. Ma è possibile innestare un po’ di inconscio in qualcun altro?
Non so dare alcun consiglio agli analisti che vogliano cimentarsi con gli autistici. Ma credo che possano fare qualcosa solo rovesciando la strategia tipica dell’ascolto analitico. L’analista non può ascoltare nell’autistico il suo inconscio perché questi ne è povero (non ne è completamente privo, diciamo che esso è congelato): dovrebbe piuttosto parlare lui o lei, analista, in modo da arricchire le capacità dell’autistico di percepire l’altrui soggettività. Con l’autistico, più che ascoltare, l’analista dovrebbe parlare.
Anche qui l’opposizione con la psicosi appare decisiva. Con gli psicotici si tende a non interpretare affatto, perché – come abbiamo detto – gli psicotici sono già fin troppo interpretanti per loro conto: essi super-significano il mondo. Se si interpreta un delirio, si rischia di alimentare il delirio, è come gettare olio sul fuoco. Molte interpretazioni analitiche vengono difatti recepite come persecutorie da parte dello psicotico, perché per lui le parole sono sempre atti. Con l’autistico un analista – che così facendo farebbe insomma il contrario di quel che fa sempre – dovrebbe essere attivo, esporre il soggetto autistico a esperienze da cui possa emergere l’alba di un riconoscimento di qualcosa che un essere puramente cognitivo come lui non riesce a percepire: la nostra soggettività umana come significante. Il fatto insomma che non conta solo quello che si dice, ma anche, attraverso quel che si dice o non si dice, quel che si mostra. E quel che si mostra è la propria soggettività che non si riduce mai al detto.
[1] E. Bleuler, Dementia praecox oder Gruppe der Schizophrenien, Deuticke, Leipzig-Wien [tr.it. Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie, Il Pensiero Scientifico, Roma 1985].
[2] L. Wing (a cura di), Aspects of Autism: Biological Research, Gaskell, London 1988. L. Wing, Autistic Spectrum Disorders: an Aid to Diagnosis, National Autistic Society, London 1995. L. Wing, The Autistic Spectrum: a Guide for Parents and Professionals, Constable, London 1996. Come è noto, il DSM-5 adotta anch’esso il termine Autism Spectrum Disorder (299.00) e lo pone tra I Disordini Neuroevolutivi, del tutto distinto quindi dallo “spettro psicotico”,
[3] Su questa linea: F. Tustin, Autism and Childhood psychosis, The Hogarth Press, Londra, 1972. Cfr. A. Ballerini, Patologia di un eremitaggio. Uno studio sull’autismo schizofrenico, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
[4]Io mi sono occupato in particolare della Unilateral Spatial Neglect, ovvero di una cecità molto specifica: il soggetto non vede ciò che si trova alla sinistra del proprio campo visivo, o la parte sinistra di ogni oggetto che gli sta davanti. S. Benvenuto, “Neglect. Riflessioni tra filosofia e neuroscienze”, http://www.sergiobenvenuto.it/meditare/articolo.php?ID=140.
[5] C. Rovelli, La realtà non è come appare, Raffaello Cortina, Milano 2014, p. 106.
[6] Una biografia di Dirac che ne rivela l’autismo: G. Farmelo, L’uomo più strano del mondo. Vita segreta di Paul Dirac, il genio dei quanti, Raffaello Cortina, Milano 2013.
[7] Uno dei maggiori interpreti di questo approccio è S. Baron-Cohen: Social and pragmatic deficits in autism: Cognitive or affective?, in “Journal of Autism and Developmental Disorders”, 18, 1988, pp. 379-402. Joint-attention deficits in autism: towards a cognitive analysis, in “Development and Psychopathology”, 1, 1989, pp. 185-89. The development of a theory of mind in autism: deviance and delay?, in “Psychiatry Clin North Am”, 14/1, 1991a, pp. 33-51. The theory of mind deficit in autism: how specific is it?, in “British Journal of Developmental Psychology”, 9, 1991b, pp. 301-14. Mindblindness. An essay on autism and theory of mind. MIT Press, Cambridge (Mass.) 1995. The autism spectrum quotient (AQ): Evidence for Asperger syndrome/high functioning autism, males and females, scientists and mathematicians, in “The Journal of Autism and Developmental Disorders”, 31, 2001, pp. 5-17. S. Baron-Cohen, A. M. Leslie e U. Frith, Does the autistic child have a ‘theory of mind’?, in “ Cognition”, 21, 1985, pp. 37-46. S. Baron-Cohen, H. Tager-Flusberg e D. J. Cohen (a cura di), Understanding Other Minds. Perspectives from Autism, Oxford University Press, Oxford 1994. S. Baron-Cohen, H. Tager-Flusberg e D. J. Cohen (a cura di), Understanding Other Minds. Perspectives from Developmental Cognitive Neuroscience, 2° ed., Oxford University Press, Oxford 2000. Si veda anche U. Frith, Autism: Explaining the Enigma, Basil Blackwell, Oxford, 1989.
[8] V. Gallese, La molteplicità condivisa. Dai neuroni mirror all’intersoggettività, in S. Mistura (a cura di), Autismo. L’umanità nascosta, Einaudi, Torino, 2006.
[9] Tra le altre testimonianze di autistici sul loro modo di essere al mondo, cfr. D. Williams, Nobody Nowhere, Doubleday, Londra 1992 [trad. it., Nessuno in nessun luogo, Guanda, Parma 1992].
[10] T. Grandin, Emergence: Labeled Autistic, Arena Press, Novato (CA) 1986. Segnaliamo anche: T. Grandin, Pensare per immagini, Erikson, Trento 2001. E il film biografico Temple Grandin di Mick Jackson (2010). O. Sacks ha ben descritto Grandin in: O. Sacks, Un antropologo su Marte, Adelphi, Milano 1995.
[11] B. Bettelheim, The Empty Fortress: Infantile Autism and the Birth of the Self, Free Press, New York 1967 [trad. it. La fortezza vuota: l'autismo infantile e la nascita del sé, Garzanti, Milano 1978].
[12] Baron-Cohen, Simon; Leslie, Alan M.; Frith, Uta (October 1985), "Does the autistic child have a "theory of mind"?". Cognition. Elsevier. 21 (1): 37–46.
[13] Per esempio, Henri Rey-Flaud, L’enfant qui s’est arrêté au seuil du langage, Aubier, Paris 2008.
0 commenti