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Dagli archivi de GLI ARGONAUTI: CONSIDERAZIONI SULLA NUOVA LEGGE PSICHIATRICA

18 Gen 16

Di Oddone-Aguzzi
Articolo pubblicato in “Gli argonauti, psicoanalisi e società”, numero VII, 1980.

L'autore, Oddone Aguzzi ha scritto per la rivista le sue considerazioni a distanza di quasi 40 anni dalla promulgazione della legge che potete trovare seguendo il link
 
Prime considerazioni sulla legge 180 dopo 20 interviste a medici dell’ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano
 
Le opinioni degli psichiatri per quanto riguarda la legge 180[1] si possono distinguere in tre ampie categorie secondo che l'accento venga posto sul fatto normativo in se stesso, sul contenuto della legge e infine sull'uso che di questa legge può essere fatto. E’ convinzione di tutti gli psichiatri che una legge che regolasse il campo della pratica psichiatrica dovesse essere varata per sostituire quella tanto discussa del 1904. La normativa precedente era considerata inadeguata a regolare un settore che da molti anni ha subito una trasformazione radicale sia per quanto si riferisce alla terapia, sia per quanto riguarda l'opinione generale e quella di molti psichiatri circa la malattia mentale.
I fatti terapeutici più significativi sono consistiti negli effetti della farmacoterapia e nelle varie  terapie psicologiche che hanno posto in un'ottica diversa il disturbo mentale. Con l'efficacia degli psicofarmaci si sono potute risolvere le crisi acute nei loro aspetti più drammatici e teatrali e con l'influsso delle varie scuole psicologiche si è mutato l'atteggiamento sia dei sanitari sia dei laici nei confronti del malato di mente.
Pressioni sociali e politiche  e  mutamenti  culturali  hanno  già  da  molti anni centrato la propria attenzione sull'ospedale psichiatrico; una buona parte di queste correnti di pensiero sono nate proprio negli ospedali psichiatrici che sono stati i centri propulsivi di esperienze innovative. Di fatto l'istituzione manicomiale in se stessa da alcuni psichiatri è ritenuta come antiterapeutica, mentre da altri è ritenuta come una realtà inevitabile e in molti casi indispensabile anche se modificabile. Le concezioni circa il disturbo mentale e il manicomio sono le più varie, tuttavia si possono sintetizzare in due punti di vista se si tiene conto dell’obbiettivo cui tendono le diverse concezioni: secondo un primo punto di vista il manicomio è percepito come istituzione-fabbrica della follia e pertanto va  abolito, secondo un'altra ottica esso deve essere umanizzato, reso più idoneo alle esigenze del malato quando un ricovero è indispensabile o dove non rimane che l'assistenza come unico reale rapporto con il paziente. A questi atteggiamenti che implicano una concezione del disturbo mentale sono sottese opinioni ideologiche e politiche differenti. Il fatto che concezioni sociali e politiche siano sottese al proprio agire è una scoperta di sempre, come è inevitabile che ciascuno si muova secondo una sua particolare concezione della vita e del mondo. In questa sede è opportuno tentare di rilevare alcuni atteggiamenti principali in modo che siano possibilmente oggetto di analisi. Si nota infatti che alcuni psichiatri radicalizzano le loro opinioni che da eventuali ipotesi di lavoro diventano verità indiscutibili.
Coloro che individuano nel fattore sociale la causa primaria dell'insorgenza del disturbo mentale in generale sono i fautori dell'abolizione totale dell'ospedale psichiatrico, vissuto come sede del congelamento del conflitto sociale e quindi della sua conseguente repressione. Eredi di una concezione sociale egalitaria rivendicano lo «specifico» psichiatrico come diverso e  non  riducibile  a una dimensione esclusivamente medica, percepita come ghettizzante e repressiva al pari o ancor più dell’ospedale psichiatrico.
L'intenzione terapeutica, secondo questo punto di vista, è quella di socializzare il conflitto individuale, il quale rappresenta una riduzione nel privato di squilibri la cui vera origine si colloca nel sociale. Pertanto l'obiettivo è di collocare la «follia» nella sede del conflitto sociale in quanto questa non è altro che una manifestazione individuale di una impossibile situazione sociale alienante.
É implicita l'accusa al sistema sociale determinatosi storicamente in forma capitalistica come matrice 
di ogni devianza e nel caso specifico di quella psicologica quindi come un effetto della struttura sociale nei rapporti di produzione. Sotto questo punto di vista l'abolizione del manicomio risulta un fatto di rilevanza non solo clinica ma anche politica. Questo tipo di concezione rivendica una legge dove il malato non venga affatto medicalizzato, pertanto gli psichiatri che condividono questa impostazione si dichiarano traditi dalla normativa varata in quanto contempla l'ospedale civile come luogo di ricovero di pazienti psichiatrici.
A conclusioni analoghe giungono altri psichiatri che condividono con i precedenti l'abolizione del manicomio anche se motivano le loro scelte in modo piuttosto differente. Per essi il manicomio è considerato come un'istituzione che reifica le fantasie del paziente regredito, pertanto non è uno spazio terapeutico, ma uno spazio che «concretizza» la follia del paziente. Sotto questo profilo l'ospedale psichiatrico non è solo un recipiente che contiene l'emarginazione del diverso, ma avrebbe la funzione di far sì che il deviarne assuma in toto la sua specificità di diverso; sotto questa ottica l'ospedale psichiatrico è la fabbrica del matto e anche il suo custode. Pertanto l'abolizione del manicomio è un fatto terapeutico in se stesso, ma la medicalizzazione del paziente è un'ulteriore reificazione della sua malattia: il  paziente in  ospedale civile non  può  che  configurarsi un malato come tutti gli altri venendosi così a negare di fatto la peculiarità della sua sofferenza. Negazione che fornisce al paziente un'ottima difesa contro la quale lo sforzo terapeutico del curante rischia di essere costantemente vanificato.
Non sempre gli psichiatri formulano una concezione globale ed esplicita circa il loro agire e rinunciano di fatto a visioni olistiche o esclusive del disturbo  mentale preferendo orientarsi sull'oggetto  del  loro  intervento, in modo tecnico e con ideologie di medio raggio.
Se da un lato abbiamo quindi  il  dissolversi  della  prassi  psichiatrica in azione politica esplicita, dall'altra parte si assiste alla tendenza a una riassunzione del ruolo tecnico e a porre la propria convinzione politica circa il proprio agire tra parentesi  o esplicitandola  come sostanziale accettazione del sistema societario dove comunque si auspica una progressiva trasformazione del medesimo, ma non secondo uno specifico orientamento. Questi diversi atteggiamenti sociali e politici permettono di  far rilevare come  l'accento di  certi psichiatri si ponga in  prevalenza" o sull'individuo soggetto del suo intervento sul sistema sociale, focalizzazione di prospettive queste che implicano atteggiamenti  diversi nell'operare terapeutico. Nel primo caso si assiste a una particolare attenzione attribuita agli aspetti tecnici del proprio  operare, mentre  nel secondo caso l'accento  va posto su quelli più genericamente politici. Si fa osservare come certe opinioni o convinzioni assumano il carattere di verità indiscutibili là dove la tensione per il mutamento, in cui si scardinano vecchi centri di potere, con il conseguente crearsene di nuovi, radicalizza le proprie convinzioni con lo scopo non dichiarato di accentrare il consenso. Questa radicalizzazione ideologica è in ultima analisi uno strumento di potere e di pressione sugli altri « tecnici» e sugli amministratori.
Fatta questa considerazione, passiamo ora a illustrare l'opinione di quegli  psichiatri  che non ritengono
utile l'abolizione del manicomio. Costoro percepiscono la istituzione manicomiale come una dura necessità o come uno strumento insostituibile per la gestione della follia. Il risultato della legge, secondo questo punto di vista, è una tragica soluzione per i cronici per i quali non è prevista alcuna alternativa se non la loro progressiva estinzione. Pertanto la riforma passerebbe negando  una presenza di  fatto pesante che non può essere ridotta artificiosamente. L'accento posto su questo problema non può far illudere gli «abolizionisti » circa l'esistenza di  una realtà che solo il manicomio di  fatto ancora gestirà per lungo tempo. Quindi questi psichiatri assumono un atteggiamento di scetticismo sulla proposta legislativa che promuove la concentrazione dello sforzo terapeutico sul  territorio e sull'ospedale civile in quanto sostengono che se da un lato l'ospedale civile « medicalizza», il territorio non si sa bene che strumento terapeutico possa essere, lasciando comunque sempre aperto il problema dei cronici. Sotto questo punto  di vista il manicomio non è visto né come centro di repressione del conflitto sociale né come reificante la follia del paziente, ma come ultima spiaggia, sede delle esasperazioni estreme di individui che non sempre si possono comprendere nelle loro manifestazioni e che rappresentano tuttora una grossa incognita. Vero è che alcuni psichiatri sostengono che è stata possibile una psicologizzazione e socializzazione della malattia mentale in forza delle conquiste della farmacoterapia che ha reso accessibili pazienti che in passato era praticamente impossibile affrontare con mezzi basati sul dialogo verbale.
L'accento posto da alcuni psichiatri sulle cure di tipo organicistico tende a collocare nei loro vissuti gli altri strumenti terapeutici, in secondo ordine e in definitiva come collaterali all'efficacia più decisiva dei primi. Per alcuni psichiatri pertanto la pratica terapeutica fondamentale è quella  della somministrazione dei farmaci, operazione questa che  può essere fatta in varie sedi come ambulatori, ospedali sia generali sia psichiatrici; il resto della prassi d'intervento è ritenuta come secondaria e  vissuta  come sforzo encomiabile e pionieristico di  amministratori pubblici e di psichiatri che tentano strade nuove.
Sotto questo punto di vista l'istituzione manicomiale viene  in definitiva sostenuta e ritenuta necessaria.
Consideriamo ora il fatto che la legge si presta a essere usata in due modi diversi e forse, in fondo, antitetici. Se da un lato questori diffonde a parlare di presidi territoriali come centri della prassi psichiatrica di zona, parla nel contempo degli ospedali civili come luogo di ricovero per i nuovi pazienti mai ospedalizzati e per i ricoveri obbligatori.
É notato da tutti gli intervistati come l'interesse principale del personale sanitario e parasanitario sia orientato esclusivamente sull'ospedale civile e ciò, vien detto, anche per le decisioni prese da parte della pubblica amministrazione. Quindi si assiste a fenomeni per lo meno sconcertanti.
L'aspetto innovativo della  legge si può collocare nell'attenzione data al territorio come sede per la gestione del disturbo mentale, tuttavia di fatto l'orientamento e l'interesse degli operatori è rivolto all'ospedale generale. Soffermiamoci a esaminare questo aspetto del comportamento e dell'atteggiamento degli operatori, in quanto in questa ambiguità si può forse cogliere la reale portata del fenomeno istituzionale che stiamo osservando.
E un vissuto generalizzato che l'ospedale psichiatrico chiude, si parla infatti di fine di un'epoca, di apertura di nuove prospettive, di tradimento e di delusione circa ciò che si auspica e che invece non si potrà realizzare. Si notano pertanto tutti i sintomi caratteristici  di un'istituzione che chiude dove il suo passato viene rapidamente allontanato dal presente idealizzandolo o incistandolo in modo da far sì che non possa più nuocere. Nel  primo caso si notano  le espressioni di delusione e  di rimpianto di psichiatri che, riconoscendo o ammettendo le colpe e gli errori dell'ospedale psichiatrico tradizionale, non possono fare a meno di riconoscere i pregi e la sua indiscutibile funzionalità, nel secondo caso si esprime la fretta con cui si vuole girar pagina, collocando in un museo il passato da congelare in modo da far vedere a noi stessi come posteri la curiosità di un tempo in cui si perpetravano nefandezze ai pazienti. Una specie di museo delle torture, dell'ignoranza umana,  del sopruso dell'uomo sull'uomo. Esiste pertanto il tentativo di collocare il male  in un passato disumano che si può osservare dopo averlo reso inoffensivo nella sala e nei corridoi di un'esposizione. Su questa linea di  continuità degli  atteggiamenti degli psichiatri di  cui abbiamo tratteggiato  sommariamente  i due capi, si collocano  le  opinioni circa il passato dell'ospedale psichiatrico. Tuttavia le incertezze e le ansie più rilevanti sono destinate a confluire verso la propria futura collocazione lavorativa. Il territorio come  sede privilegiata  della prassi psichiatrica nello  spirito degli innovatori è di fatto recepito come luogo delle mancanze e del caos e si può ritenere senza tema di smentita che il territorio per alcuni è più vicino al vissuto del « lastrico » che non del «tessuto sociale». Molti intervistati si augurano di avere il loro posto di lavoro vicino alla propria casa e implicitamente temono di trovarsi smarriti una volta proiettati fuori dall'ospedale psichiatrico in una situazione di lavoro destrutturata e fortemente ansiogena. Ansia che molto spesso è attribuita all'incapacità degli infermieri, ma che gioca di fatto anche nel determinare le scelte degli psichiatri. Ne consegue che l'interesse degli psichiatri è pertanto centrato quasi esclusivamente sull'ospedale civile  che  di fatto  è vissuto come la reale e nuova sede dello psichiatra in alternativa a quella precedente dell'ospedale psichiatrico. Da altri invece il territorio è vissuto come sede della fine della gestione autoritaria e di potere dello psichiatra come ultima spiaggia della psichiatria tradizionale. Questa opinione se da un lato è sostenuta dai progressisti, di fatto è molto  temuta dalla maggior parte degli psichiatri intenzionati al  recupero del proprio  ruolo terapeutico, a poter esercitare  un'azione  efficace o utile al proprio assistito; sta di fatto che sotto il termine territorio è temuta la castrazione del proprio ruolo e viene quindi temuta l'incapacità di poter esercitare il proprio lavoro. Questa preoccupazione è tanto più viva in quanto non esistono strutture territoriali adeguate e  nella  maggior  parte dei casi di fatto non esistono. Andare sul territorio per molti vuol dire girare a vuoto in un ambiente ignoto senza sapere bene cosa fare. Di fatto le esperienze definite come territoriali sono essenzialmente due: l'ambulatorio e le visite domiciliari.
Esistono altri tipi di esperienze che vengono menzionate ma che risultano piuttosto particolari e di difficile generalizzazione. I rapporti con le forze sociali dei quartieri o con gli enti di assistenza comunali  o di altra provenienza amministrativa  sono  del tutto inesistenti o molto difficili quando non  si assista a delle vere e proprie lotte di competenze. Lotte dove i contraenti la disputa auspicano costantemente un terzo superiore come giudice arbitrale della controversia. Questo terzo è ritenuto dover essere l’amministrazione comunale o quella provinciale, ma soprattutto la regione che è vissuta come quella che metterà forse a posto tutte le cose.
Di fatto viene lamentato il potere quasi inesistente dei consigli di zona in quanto  incapaci di aggregare il consenso: vien detto che la partecipazione popolare è limitata ad  alcune decine  di  persone, talvolta a  poche unità, sempre le stesse con nessun potere effettivo, ma piuttosto velleitarie e spontaneistiche. Questo  quadro  del  territorio  descritto  dai  colloqui  con  gli  psichiatri  in parte evidenzia  in modo  sufficientemente esplicito quale  sia  la  loro  difficoltà di immaginare la propria collocazione lavorativa in una specifica zona cittadina.
Quasi tutti si auspicano di avere come  sede  lavorativa l'ospedale civile più vicino a casa loro e per ottenere questi posti funzionano le graduatorie che ormai sono oggetto del più attento esame da tutti i sanitari.
Si può quindi sostenere che l'ospedale psichiatrico (solo una parte di fatto) va in ospedale civile sorvolando il territorio come sede privilegiata d'intervento del paziente.
 
 
Un anno dopo
 
Dopo più di un anno da quanto è stata redatta la precedente relazione di sintesi sui contenuti dei venti colloqui, si è voluto riaprire l'argomento discusso interpellando alcuni psichiatri che per la loro posizione istituzionale e per la loro leadership culturale possono a ragione essere considerati come esponenti qualificati delle tendenze emerse come le più significative nel di battito circa la moderna psichiatria in rapporto alle nuove disposizioni di legge. Si è voluto verificare se l'esperienza di un anno di lavoro sul territorio, in ospedale civile e in ospedale psichiatrico, 
ha mutato le loro convinzioni, la loro prassi terapeutica o comunque ha permesso  di ridefinire il ruolo o i ruoli dello psichiatra in una mutata realtà operativa. I precedenti colloqui erano stati fatti a caldo, dopo tre mesi che la legge era stata promulgata e quando non era ancora ben chiaro come l'amministrazione pubblica concretamente avesse potuto operare per rendere esecutive le disposizioni di legge. A più di un anno di distanza la situazione è mutata. Una volta individuati gli psichiatri opinion-leader del dibattito si poteva assumere che sei dei venti in precedenza contattati avevano queste caratteristiche. E stato richiesto a essi un colloquio individuale.
Dagli incontri con questi psichiatri è emerso quanto è esposto nella sintesi che segue. Come già nei primi colloqui, era evidente che il territorio venisse idealizzato per negare la grossa incognita che di fatto rappresentava. Oggi comincia ad apparire per quello che è: una complicata e poco definita realtà sociale che è illusorio fissare secondo schemi rigidi o precostituiti. Lo psichiatra si ripropone in un'attività tecnica dove privilegia il rapporto  con il  suo paziente e dove la realtà ambientale del medesimo viene impiegata  al  più  per  il  contenimento   delle  manifestazioni  meno  clamorose della sua follia onde ricorrere il meno possibile al ricovero in ospedale generale. Sotto questa prospettiva la prassi psichiatrica è impegnata  da  un lato a un'azione  di contenzione, di arginamento sociale del disturbo psichico, mentre dall'altra parte, per taluni psichiatri almeno, il lavoro clinico diviene argomento focale da cui trovare soluzioni terapeutiche specifiche e quindi più stabilizzanti per ciascun paziente. L'ospedale psichiatrico  rimane la  sede  dei «bocciati» dall'esperienza di territorio, di  coloro che non hanno tenuto fede alla proposta politica del territorio e sono stati costretti o hanno scelto più o meno liberamente il lavoro coi cronici e i lungodegenti. Anche se non esiste un'esplicita connotazione negativa al lavoro svolto in ospedale psichiatrico, rimane certo che i problemi  che esso presenta nei suoi aspetti attuali sono enormi e costituiscono di  fatto una remora all'esperienza territoriale:  l'ospedale psichiatrico è una presenza disturbante anche se si chiama «casa del dimesso».
L'esperienza della nuova psichiatria che di fatto emerge dopo un anno da quando la legge 180 è stata promulgata evidenzia un cospicuo riflusso delle tensioni che risultavano con molta evidenza nei primi colloqui.
É calato il «pathos» sociale e politico, mentre l'impegno nei confronti dei pazienti  si è articolato; il panorama culturale  si è come arricchito affrancandosi dalle linee di tendenza interpretativa di stampo sessantottesco e lasciando spazi a riflessioni più mature che rendono le posizioni degli psichiatri meno radicalizzate e velatamente anche meno ottimistiche. E la fine dei discorsi esclusivamente sociologici, il «territorio» come espressione del sociale ha reso problematiche le assunzioni di principio che ritenevano la malattia come diretta conseguenza del conflitto sociale o della società in generale. A tutti è diventata chiara la strumentalizzazione della questione psichiatrica a fini che esulavano dall'impegno diretto con il paziente, utente che dir si voglia, del servizio psichiatrico. Le « forze  sociali » che nelle migliori delle ipotesi vengono utilizzate per una gestione dei pazienti nel territorio sono gruppi di volontari spinti più da moventi umanitari che da motivazioni sociali e politiche.
Nel territorio non si cura la follia, ma la si «gestisce»: questa distinzione implica un'efficace assunzione di atteggiamenti e di comportamenti da parte dei sanitari  che possono in tal modo limitare e definire la portata delle loro azioni cogli utenti dei loro servizi ambulatoriali. La visita domiciliare è uno strumento di contenimento e di gestione della follia, non già una risoluzione. Gli ambulatori, almeno questo vale per le esperienze più avanzate, sono gestiti secondo  criteri  privatistici, nel  senso  che vengono fissati appuntamenti ai pazienti  secondo un  calendario per le visite; in  tal modo si attribuisce all'incontro utente sanitario una dignità rispettosa della realtà  del tempo.
In quest'ottica viene a recuperarsi il rapporto con il paziente come possibilità di dialogo tra persone. Alcuni psichiatri si dedicano con particolare attenzione alle problematiche relazionali che si instaurano tra i pazienti e gli operatori della propria équipe, ricavando da esse materiale oltremodo efficace per stabilire relazioni anche terapeutiche e non di solo contenimento della follia. Ricompare la clinica e con essa l'assunzione del disturbo psichico come fatto personale, segreto, intimo del paziente. Certamente queste sono solo delle linee nuove che emergono, ma che segnalano un bisogno sorgente di chiarire, di ridefinire, di distinguere, di cogliere delle differenze là dove solo poco tempo fa ogni articolazione del discorso psichiatrico era difficile o impossibile, dato forse il fascino che le semplificazioni e le suggestioni sociologiche esercitavano anche nel campo strettamente clinico. Restaurazione potrebbe definirsi questo insieme di cose, ma non è così. Sembra di cogliere, invece, da parte di alcuni psichiatri, la tendenza a porsi con i loro gruppi di lavoro ad affrontare il problema della follia ricuperando la capacità di operare che in precedenza era come paralizzata dall'inflazione panterapeutica che implicitamente veniva attribuita alla parola territorio o prassi territoriale. La realtà della presenza in ospedale civile di pazienti psichiatrici ha imposto seri problemi di gestione della follia in una sede scarsamente ricettiva: i reparti sono isolati e di fatto distaccati dal resto dell'ospedale che vuol difendere la propria identità tradizionale messa in discussione dalla presenza di un qualcosa di nuovo che recepisce come anomalo e disturbante. Il reparto psichiatrico rischia di isolarsi in  ospedale civile per diventare un'area segregata e sacra: una cisti istituzionale che è sopportata con sospettosità dal resto dell'ospedale. Pertanto i tre versanti operativi della situazione psichiatrica e cioè «ex» ospedale psichiatrico, ospedale  civile,  e  infine il  territorio rimangono  tre momenti di difficile conciliazione e integrazione.
Pare infatti di individuare una tendenza alla separazione operativa dei tre momenti valutabile da connotazioni affettive diverse espresse dagli psichiatri intervistati.
Il territorio è l'area del lavoro faticoso, dove lo psichiatra si può ammantare di gloria impegnandosi a definire il proprio ruolo quasi quotidianamente, recitando la propria parte senza alcun preciso canovaccio: questo lavoro è vissuto come il fronte operativo più scottante della nuova esperienza psichiatrica, fronte ambiguo, dove sono necessarie energie non consumate, una certa dose di entusiasmo e una capacità di innovazione a carica quasi adolescenziale. L'ospedale civile rimane il posto dove lo psichiatra da sociologo o psicosociologo sul territorio assume in parte la propria veste medica, abito che indossa ambivalentemente ora disprezzando ora  ammirando  ciò  che  di «medico» l'ospedale civile rappresenta. Quest'ultimo è la  sede del potere e della  lotta con gli altri colleghi non psichiatri, pertanto l'ospedale civile  si  presenta  come la nuova arena del confronto  delle ideologie e delle capacità più mature da esprimere nel quartier generale della sorgente élite psichiatrica che si pone già come interlocutrice critica  nei  confronti degli altri settori della medicina ospedaliera. Nell'ospedale civile gli psichiatri cercano il loro spazio operativo, la loro identità istituzionale che non può non tener conto della realtà organizzativa dell'ospedale generale che ha da sempre escluso la psichiatria nel suo interno. Pertanto l'ospedale civile è recepito come sede delle componenti adulte della attività più matura dello psichiatra proprio perché ivi è impegnato al consolidamento della propria identità professionale. All'ospedale psichiatrico vanno gli psichiatri più anziani: questa sede tradizionale della presa in carico della follia rappresenta spesso un vero e proprio cronicario anche per la psichiatria; è vissuto come il ricettacolo di tutto ciò che è vecchio o che ha una mentalità retrograda. Il lavoro in ospedale psichiatrico è recepito come punitivo, come segregante, senza più speranza. A mio modo di vedere questa situazione emotiva rilevabile dai protocolli delle interviste va di pari passo con la tendenza, in precedenza espressa, alla separazione operativa dei tre momenti della prassi psichiatrica con il rischio implicito a disunirsi dimenticando la propria unità d'azione.
 
 
Questa relazione è stata scritta in due fasi successive, la prima è stata scritta dopo aver effettuato venti colloqui ad altrettanti psichiatri che lavorano all'ospedale Paolo Pini di Milano. L'argomento del colloquio verteva sulla legge 180 in cui vengono date le disposizioni circa il destino dell'ospedale psichiatrico e dove si gettano le basi di una nuova modalità di gestione della devianza psichica. Le interviste sono state fatte nei mesi di agosto-settembre 1978.  Segue una seconda trance scritta un anno dopo le predenti dopo sei colloqui ad opinion leaders dell’ospedale.
Le disposizioni in materia di accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori sono attualmente comprese nella legge 23 dicembre 1978 n. 833, pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta ufficiale n 360 del 28 dicembre 1978 con il titolo: «Istituzione del Servizio sanitario nazionale». Abbiamo voluto pubblicare la presente relazione, concernente la precedente legge 180, perché le considerazioni sociodinamiche qui sviluppate paiono essere rimaste attuali.

 

 
 
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[1] La suddetta legge è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 133 anno 119,  martedì 1 maggio 1978, essa è stata approvata dal Parlamento in data 13 maggio 1978 con il numero 180 e avente come titolo “ Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”.

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