Ouverture
Ovviamente non sono un lacaniano. Forse è impossibile esserlo. Anche chi si professa tale fa un torto al Maître, una figura unica, inimitabile, inclassificabile, che è sempre altrove rispetto al luogo dove lo cerchi. Però a volte leggo Lacan e mi capita di trovarci qualcosa di interessante, anzi di geniale. Lacan era uomo di godimento, non di piacere, così la sua scrittura e il suo pensiero (i suoi pensieri): un funambolo ed un trasformista concettuale, un uomo di desiderio, anche intellettuale. In uno dei suoi testi migliori, trascrizione del Seminario VIII “Il transfert” (1960-1), Lacan propone una rilettura, anzi, un’analisi spietata, del Simposio di Platone per parlare dal suo punto di vista dell’amore e, soprattutto, dell’amore di transfert. Come molti altri testi di Lacan la scrittura si perde in continue digressioni, e, nella massa di queste dottissime, straordinariamente erudite riflessioni che lo mantengono costantemente sul pulpito rispetto al suo uditorio infantilizzato, scolasticizzato, fidelizzato, emergono come stelle luminose alcune idee fondamentali per capire il transfert erotico e, forse, perfino l’amore. Il testo di Lacan è così divagante, così complesso, infarcito com’è di ogni sorta di nozioni di cultura greco-classica e di riferimenti psicoanalitici ancora freudiani e perfino kleiniani, da essere divenuto, a sua volta, oggetto di nuove, raffinate interpretazioni (Moroncini, 2005; Quinet, 2004). Si sa che Lacan costringe spesso alla decifrazione, e stimola digressioni, deragliamenti. In questo testo, però, alla fine, si individua con chiarezza un elemento inequivocabile del suo pensiero, almeno di quegli anni.
Su che cosa sia l’amore nella sua natura essenziale non c’è accordo, né ai tempi di Platone e del Simposio, né a quelli di Lacan, né oggi, epoca in cui esperti ed eruditi, piuttosto che di Dei, di Bello e di Perfezione parlerebbero di dopamina, rewarding system, endorfine e dipendenza da endorfine. Aggiungerei anche il lobo frontale, con le sue connessioni limbiche, responsabile di gran parte delle complicazioni sentimentali degli esseri umani. Forse non c’è un solo amore, ma molti amori, così come ci sono molti e diversi disamori, visto che, lo dice anche Lacan, l’amore ha una sua struttura ambivalente, come del resto afferma Diotima, la sacerdotessa di Mantinea evocata da Socrate nel Simposio: l’amore non è né bello né brutto, né buono né cattivo, né terrestre né celeste, ma è tra le due cose (Metaxù).
Noi tendiamo però, come dice Agatone nel Simposio, a pensare che l’amore sia bello. Io mi stupisco sempre e mi rallegro quando, occasionalmente, trovo l’amore nel suo lato positivo, l’amore allo stato puro, come un metallo raro depurato da ogni contaminazione e scoria: nell’esperienza clinica (e negli amori di transfert) ed anche in quello che accade, o soprattutto mi è accaduto, nella vita. Questo amore di cui parlo, che ho da molti anni chiamato simbiotico-fusionale in quanto pone, almeno per un determinato periodo, due soggetti in un legame di mutualità e interdipendenza (Dalle Luche, 2003, 2007, 2017, 2020), lo si riconosce subito dalle sue descrizioni. Si può dire che abbia un suo linguaggio, che parli da solo. Qui lo evocherò con le parole semplici e autentiche di un uomo di 50 anni, visitato qualche giorno fa in carcere dove si trova per i maltrattamenti che, nel contesto della defusione amorosa, ha inflitto ubriaco ad una donna (già madre di 3 figli nel primo matrimonio), che ha amato profondamente, e della quale in sostanza è ancora innamorato, benché, dopo di lei, abbia avuto altre relazioni e lei, per allontanarlo, l’abbia querelato.
“Abbiamo avuto anche periodi belli. Ci invidiavano per il nostro amore e la nostra bellezza. Quando ci vedevano per strada mano nella mano anche persone semplici e disinteressate ci dicevano com’eravamo belli e come stavamo bene insieme. Avevamo gli stessi gusti, gli stessi progetti, quando facevamo l’amore io spogliavo lei e lei me, bastava uno sguardo per capirsi, ci facevamo reciprocamente degli scherzi, la notte, se non eravamo insieme, lei voleva addormentarsi con me al telefono. A me piacciono i dettagli di una donna più che la bellezza in sé: in lei i dentini un po’ a castoro, che quando rideva le uscivano dalle labbra, il naso greco (fa un gesto col dito, come per disegnarne il profilo), gli occhi espressivi”.
La rievocazione di questo amore anima quest’uomo, ansioso e depresso per una detenzione insopportabile e forse ancora lunga, della quale non capisce il senso; lo rivedo per un attimo vivo, riesco addirittura a farlo sorridere quando gli dico: “Almeno da vecchio avrai qualcosa di bello da ricordare.”
Il Simposio nella lettura di Lacan
Dunque l'oggetto del desiderio sessuale, per Lacan – che valorizza nel Simposio soprattutto l'insegnamento di Socrate, ed in qualche modo si sottrae così a millenni di letture cattoliche (filosofiche e derivate) di Platone – non è il partner cui ci si riferisce abitualmente come “oggetto d'amore”, quanto ciò che lo rende desiderabile, e di cui il desiderante non ha possesso (è questo uno dei significati dell’abusata formula paradossale lacaniana “amare è dare ciò che non si ha”). Quest'oggetto causa o condizione di desiderio (Quinet 2004), che talora, ma non sempre, Lacan identifica anche come objet petit a (Lacan 1960-1), sia esso una caratteristica fisica o del carattere, ma anche un gesto, un modo di sorridere o di muoversi, un'eleganza nel vestirsi o nell'abbigliarsi, lo charme o l’intelligenza o il sapere (ad esempio in Socrate che per il resto era ben poco attraente), è comunque qualcosa di parziale, spesso perfino di accessorio (di non necessario, di ornamentale, agalma, in greco antico); è qualcosa di prezioso ed altamente valorizzato dal soggetto (Quinet, 2004)i, che assume la massima rilevanza in quanto condiziona irrevocabilmente la scelta del partner sessuale, con tutto ciò che di affettivo ne consegue.
L’oggetto causa di desiderio è un oggetto della sensazione e di regola cade sotto la sfera visiva (Quinet 2004), è cioè l'oggetto di uno sguardo di desiderio, da cui nasce ogni amore. I registi cinematografici lo sanno bene, e gli appassionati di cinema potrebbero citare centinaia di esempiii in cui Lui si innamora di Lei (o viceversa Lei di Lui) dopo un solo sguardo: ad esempio, nel film “Casinò” (1995 ) di Martin Scorsese la macchina da presa si sofferma sullo sguardo di Sam (Asso) Rothsein (Robert De Niro) che, osservando i modi e l’andatura di Ginger (Sharon Stone) mentre attraversa il Casinò, se ne innamora perdutamente in barba al fatto che lei è tossica, ladra e infedele, con un’organizzazione affettiva di tipo borderline, come direbbe la maggior parte degli psichiatri, e che gli rovinerà la vita fin quando non morirà di overdose. Non è dunque detto che l’”oggetto d’amore” sia la persona più adatta con cui trascorrere l’esistenza o una sua parte, né una persona encomiabile e rispettabile da ogni punto di vista: anche l’esperienza clinica ce lo mostra quotidianamente.
Questa presa di posizione di Lacan a favore della assoluta parzialità dell’oggetto d’amore (Lacan, 1960-1), e, implicitamente, del carattere del tutto secondario degli aspetti sentimentali e personali del legame, pone la sua teoria dell’amore drasticamente in contrapposizione al mito “platonico” (nel Simposio enunciato in toni grotteschi dal comico Aristofane) della ricerca della completezzaiii ed anche alla teoria “ascensionale” enunciata dalla sacerdotessa Diotima, della sublimazione dal bello individuale fino al summum bonum, nota come dottrina platonica dell'amore. Lacan non critica queste posizioni, le derideiv. L’oggetto totale, per Lacan, non sarebbe altro che “la somma di un mucchio di oggetti parziali”, inoltre lo psicoanalista si chiede se nell’amore dell’altro in quanto tale si cerchi il godimento, come si dovrebbe pensare dovendo avere la “benedizione” della genitalità, oppure la perfezione. Per questi motivi, per Lacan, radicalmente, il vero amore non solo non è interpersonale, ma neanche un fenomeno primariamente intersoggettivo: è qualcosa che passa tra-due soggetti, ma in virtù del loro essere portatori di un oggetto di desideriov.
L’ambiguità dell’altro è che, pur essendo soltanto un portatore di un oggetto, deve essere, per riconoscere il desiderio, un soggetto. Il soggetto ricompare in quanto riconosce il desiderio dell’altro e lo restituisce. L’intersoggettività si ripropone per il tramite di un medium oggettuale. Tuttavia, desiderare il desiderio dell’altro (e dell’altro ideale, dell’analista-Maître nelle situazioni psicoanalitiche), implica l’offrirsi come Oggetto, il che contraddice il fatto che nella dialettica del riconoscimento (anche in analisi) serva a costituirlo come Soggetto. Se, tuttavia, fosse solo un oggetto, sarebbe intercambiabile e svalutabile, qualcosa di morto, qualcosa che, clinicamente, ha a che fare sempre col feticismo o la pornografia, mai con l’amorevi. E’ quindi “deplorevole”, dice Lacan, che l’amato diventi un oggetto, tuttavia, riferendosi alla sua ontologia del soggetto, che lo presuppone “parlato” dal linguaggio, “se un oggetto ne vale un altro, per il soggetto è ancora peggio”, in quanto è già doppio o plurimo nella sua struttura ontologica umana di “parlessere”. Lacan infatti definisce il soggetto come “qualcuno che, come noi, è un essere che si esprime in un linguaggio articolato“ ed in più questo linguaggio rinvia alle figure retoriche (metafora e metonimia) fondanti la struttura dell’inconscio.
Grazie a questo modello sembra di capire quello che ho evocato all’inizio: che l’amore ha un suo linguaggio e che il desiderio si riconosce dal linguaggio, trascende il soggetto, fa riferimento a qualcosa di oggettivo, e richiede l’accoglimento e il riconoscimento dell’amato. Questo linguaggio d’amore, come sanno tutti i poeti, parla di regola dell’altro non tanto come persona globale, ma di dettagli, degli agalmata, gli oggetti parziali di desiderio che quel soggetto e solo quel determinato soggetto – che noi per questo desideriamo, e dal quale vogliamo essere a nostra volta desiderati – possiede. E, più di quale che sia l’oggetto del desiderio, lo stato di innamoramento si rivela da come se ne parla.
Come si esce da questa aporia?
La domanda che si pone Lacan è dunque: “(..) si tratta di sapere (…) quale funzione svolga in quella relazione elettiva, privilegiata, che è la relazione d’amore, il fatto che il soggetto con il quale, tra tutti, abbiamo un legame d’amore sia anche l’oggetto del nostro desiderio”, oggetto di piacere, fruizione e godimento. “Fare l’amore”, si dice, e “fare” è un verbo che si applica chiaramente alle cose e agli oggetti. Non si può fare l’amore senza prendere l’altro (o una parte dell’altro) come oggetto.
La risposta che Lacan propone in chiave psicoanalitica è che l’oggetto del desiderio (Agalma o a piccolo) conferisce peso al soggetto e (in aggiunta) evoca il fantasma originario (seno, fallo, escrementi) attraverso una metonimia (p.161). Questa convinzione, per Lacan, “è il punto più alto dell’esperienza analitica.” Si tratta di una risposta tirata per i capelli, e, al nostro sguardo di posteri, fondamentalmente datata, col suo riferimento metapsicologico. Piuttosto potremmo dire che è il linguaggio a risoggettivare l’altro-portatore dell’oggetto (parziale) di desiderio: è il linguaggio (non solo verbale) a rivolgersi all’altro in quanto soggetto, e ad evitare la sua riduzione ad oggetto. L’amore, in sostanza, lo si riconosce dal suo linguaggio, dal discorso amoroso che evoca e produce: “Il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l’altro. E’ come se avessi delle parole a mo’ di dita, o delle dita sulla punta delle mie parole” (Barthes, 1977).
Tuttavia Lacan, dopo averla enunciata, tralascia questa teoria metapiscologica per focalizzarsi sulla complessa relazione, il corpo a corpo tra Alcibiade e Socrate, visti come amante (erastes) e amato (eromenos-eromenon), ma anche, quasi, come paziente e analista, nel quale Alcibiade, originariamente amato da Socrate, si dice amante (erastes) di Socrate, nel quale ritrova, nascosti nella sua apparenza di Satiro, gli ornamenti, cioè gli Agalmata, identificati soprattutto con l’intelligenza e l’eloquio, che scatenano il suo desiderio (“Quando lo ascolto il mio cuore sobbalza più che ai Coricanti”). Ma Socrate sembra ignorare il desiderio di Alcibiade che scrive, meravigliato: “io mi ero immaginato che egli avesse un serio interesse per la mia giovane bellezza (…) speravo, infatti, concedendogli i miei favori, di essere messo a parte del suo meraviglioso sapere (…) Mi trovai con lui da solo a solo, e, pensando che subito avrebbe cominciato a dirmi quelle cose che un amante suole dire all’amato in solitudine, mi sentivo tutto euforico. Non accadde nulla. Stette con me tutta la giornata, parlò di varie cose, e se ne andò”. Di fronte a diversi e sempre più serrati tentativi di seduzione di Alcibiade alla fine Socrate gli dice “e se io nono valessi niente, e tu non te ne fossi accorto?”. Come commenta Lacan, la “posizione centrale di Socrate” è quella del vuoto, dell’incavo (oudèn, kenosis), alludendo anche alla posizione dell’analistavii. Infatti, poco dopo, Socrate avanza anche una sorta di interpretazione dicendo ad Alcibiade: “l’hai girata bene, e con tutta la tua sottigliezza sei riuscito a nascondere il vero scopo del tuo discorso”. L’elogio di Alcibiade mira, secondo Socrate, a separarlo da Agatone, al quale effettivamente sarebbe rivolto il suo desiderio, in quanto bello e ricco di Agalmata. Col suo rifiuto di farsi amare da Alcibiade, Socrate gli mostra la sua natura, quella dell’homme a dèsir, di soggetto amante, sempre alla ricerca del Bello, colui che cerca “quello stesso punto supremo in cui il soggetto si abolisce nel fantasma: i suoi agalmata.” Si tratta di un’operazione, quella di Socrate, con la quale, palesemente, Lacan si identifica, e che pare essere quella dell’analista oggetto di amore di transfert.
Lacan fa dunque di Socrate il primo psicoanalista: quello che suscita il desiderio del paziente (il cosiddetto transfert erotico, “qualcosa che rassomiglia all’amore”), ma non segue il copione naturale, quello di diventare effettivamente, banalmente, illusoriamente, il suo amante, bensì offre “un posto vuoto al desiderio del paziente, affinché questo si realizzi come desiderio dell’Altro”. In soldoni, l’amore di transfert è un passo necessario della cura perché grazie ad esso il paziente si sente e si riscopre nuovamente vivo. Non è possibile fare altro.
C’è un obbligo sostanzialmente etico che distingue la relazione analitica dalle altre relazioni intime della vita quotidiana. Quest’obbligo è che la funzione analitica mira e ha come oggetto la conoscenza, il sapere, lo (gnothi seautòn), il conosci te stesso. E, come dice alla fine del film di Ferreri sul Simposio colui che ha narrato questi dialoghi a Platone, Apollodoro (che li ha sentiti raccontare dal testimone Aristodemo), l’interesse primario di Socrate, la sua filosofia, è quella di interrogarsi ad ogni istante se quello che fa è conforme alla virtùviii.
Riferimenti bibliografici
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iNote
Per un’esaustiva trattazione dell’etimologia e dei molteplici significati di agalma nella lingua e nella letteratura greca, rinvio il lettore a Quinet (2004), pp. 65-8.
ii Ognuno può avere le proprie preferenze, e probabilmente ci sono preferenze condivise da ogni generazione. Gli italiani della mia età avranno certamente chiaro cosa intendo per “oggetto del desiderio” ricordandosi di un'icona del cinema erotico italiano come Laura Antonelli in film come Il merlo maschio (1971).
iii Mito citato anche da Freud in “Aldilà del principio del piacere”, 1920.
iv Merita citare i passi esilaranti e inequivoci di Lacan (1960-1 pp.158 e sgg.): “la funzione dell'oggetto parziale è una delle più grandi scoperte dell'indagine analitica… la chiave del desiderio umano… il nostro primo sforzo è stato invece di interpretarlo dirigendolo verso una dialettica della totalizzazione, di volgerlo nell'oggetto piatto, l'oggetto rotondo, l'oggetto totale, l'unico degno di noi, l'oggetto sferico senza piedi né zampe, il tutto dell'altro, dove, com'è risaputo, il nostro amore irresistibilmente finisce, trova il suo compimento. . Non ci siamo detti che questo altro, in quanto oggetto di desiderio, è forse la somma di un mucchio di oggetti parziali, cosa ben diversa da un Oggetto totale. Non ci siamo detti che ciò che elaboriamo, con cui abbiamo a che fare di quel fondo che si chiama l'Es, non è forse nient'altro se non un grande trofeo di tutti questi oggetti. No, all'orizzonte della nostra ascesi, del nostro modello di amore, abbiamo messo dell'altro. …Ma di questo altro abbiamo fatto l'altro a cui si rivolge quella bizzarra funzione che chiamiamo oblatività. Amiamo l'altro per se stesso o, almeno, così è quando si è arrivati alla meta e alla perfezione. Lo stadio genitale dà la sua benedizione a tutto questo… basta amare genitalmente per amare l'altro per se stesso… vi ho fatto sentire da tempo il ridicolo di quella sorta di predicozzo che si sviluppa attorno a tale idealità terminale… rimane tuttavia un'ambiguità riguardo alla questione se di quest'altro – a cui dedichiamo la nostra oblatività in questo amore tutto amore, tutto per l'altro – cerchiamo il godimento, come sembra andare da sé trattandosi di unione genitale, oppure la perfezione…” (p. 158).
v “Nella mia vita, io incontro milioni di corpi; di questi milioni io posso desiderarne delle centinaia; ma, di queste centinaia, io ne amo uno solo. L’altro di cui sono innamorato mi designa la specialità del mio desiderio. (…) E’ un enigma che non riuscirò mai a risolvere: perché mai desidero il Tale? Perchè lo desidero persistentemente, languidamente? E’ tutto lui che desidero (una sagoma, una forma, un’aria)? O è solamente una parte di quel corpo?” (Barthes, 1977, p. 18).
vi Prendiamo un altro esempio cinematografico, “L'uomo che amava le donne” di Truffaut (1977), che ho analizzato altrove (Dalle Luche 2009). Bertrand, il protagonista, esplicitamente e coerentemente non ama una singola donna, ma ama tutte le donne, è ipersensibile ai normali attributi e perfino alla sola voce dell'altro sesso, ma soprattutto delle donne ama le gambe, il loro modo di camminare, che osserva un po' coattivamente, e che gli ricordano le gambe di sua madre quando, seminuda, gli camminava intorno per casa da ragazzino, “per confermare a se stessa che lui non esisteva”. In questo ricordo sta il segreto del legame insopprimibile che il soggetto ha con il suo oggetto causa di desiderio: ne va infatti del suo stesso essere, e il piccolo Bertrand diventerà l’adulto per cui la compagnia o anche solo la visione di una donna diventerà assolutamente necessaria. Nel suo caso l'oggetto del desiderio diventa parzialmente anonimo, cioè è qualcosa che può rendere attraente se non tutte, almeno buona parte delle donne, indipendentemente da tutte le altre loro caratteristiche. In questo lo si può considerare un po’ perverso, proprio perché l’oggetto di desiderio è anonimo e totalmente isolato
vii Oudèn in greco significa propriamente “niente, nulla”; Kenosis, “svuotamento”. Un’altra caratteristica di Socrate, ripresa da Lacan a p. 90 e in altri punti, è l’”Atopia”, la sua insituabilità. Anch’essa una qualità di ogni analista che si rispetti, che, pur stando sempre in connessione nel campo gravitazionale del paziente, come una particella della meccanica quantistica, non si sa mai dove esattamente sia, ed anzi si sposta quando si cerca di individuarla.
viii Anche nel film, molto fedele al testo di Platone: Il banchetto di Platone, di Marco Ferreri (1989).
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