«Ricordatevi di guardare le stelle non i vostri piedi…
Per quanto difficile possa apparire la vita,
c'è sempre qualcosa che è possibile fare,
e in cui si può riuscire»
Stephen Hawking. The Guardian, 8 gennaio 2012
Una colorata manchette del libro La Clinica Neurologica dell'Università di Genova. La storia e il presente, incuriosisce e invita a saperne di più perchè alzando lo sguardo sul frontespizio si vede benissimo, malgrado il danno operato dal tempo, il clamoroso binomio CLINICA DELLE MALATTIE NERVOSE E MENTALI inciso coi caratteri monumentali del ventennio fascista. Si è immediatamente colti dal desiderio di sapere come e dove sia continuata la vera storia di quell’edificio dopo la cultrazione ultraquarantennale di quelle sette lettere: M E N T A L I [01].
Tra le infinità di maniere con cui si può arrivare a parlare di Sigmund Freud, e di storia della psicoanalisi, raccontando la sua straordinaria invenzione tra le scienze neuro-psico-socio-fisiologiche – in maniera avvincente, c’è un solo modo, pubblicare un testo. È quello che ha fatto Romolo Rossi, medico, neurologo, psichiatra, psicoanalista egli stesso, che ha insegnato (ex cathedra) la materia e retto la cattedra per molti anni all’Università di Genova. Attenzione, però! Chi intendesse attendersi di leggere solo complicate argomentazioni psicoanalitiche e continui rimandi alla sterminata O.S.F. [02], sarebbe tratto in errore. L’autore in questo suo testo rigorosamente documentato parla sì di psicoanalisi ma molto collateralmente, usandola come elegante metafora, un astuto pretesto. Racconta, invece, anche e soprattutto – come si dirà meglio in appresso – la propria esperienza clinica, accademica e didattica, trascorsa come titolare presso la “Clinica Psichiatrica” genovese, ma soprattutto come la “Psichiatria” si sia trasformata in Italia, dai tempi di Cornelio Fazio fino a quelli del Coronavirus. Il testo sul quale sono appuntate le presenti “Note a margine”, è quello pubblicato da Romolo Rossi. Rileggendo Freud. 24 lezioni di psicoanalisi. Alpes, Roma, 2019, pp. 332.
Trovare questo libro e leggerlo d’un fiato è stata una piacevole sorpresa. Con un avvertimento, per il grande pubblico, e cioè che solo “di sponda” troverà notizie sul grande “Sigismund Schlomo” come fu iscritto all’anagrafe di Příbor o Freiberg a seconda di come si voglia chiamare questa cittadina Ceca della Moravia-Slesia nell’Impero Austro-Ungarico. In realtà il lettore si farà invece un’idea di come si è sviluppata la storia della psichiatria italiana e mondiale, in questi ultimi sessantacinque anni. Io stesso mi ci sono trovato personalmente immerso e coinvolto, in questo lungo e affascinante Zeitgeist. L’ho riconosciuto interamente fin dalle prime righe, e l’ho anche rivissuto. man mano che procedevo nella lettura. Dalle “Cure disperate” [03], all’ascolto attento (e partecipato) del presente clima di procedure e protocolli terapeutici, clinici ed extraclinici. La vita di un professore universitario di psichiatria – già una scelta impegnativa – può consistere anche nei suoi studi, nelle sue ricerche, ma sono i suoi libri e prima ancora (e soprattutto) la sua didattica, che lo rivelano. Il suo modo di “fare” lezione, di “raccontare” la sua materia. Dare disposizioni perché fossero raccolte le sue lezioni, affinché gli Assistenti pubblicassero le sue dispense, come si faceva una volta. Come io stesso vidi fare a “Fisica”, dagli assistenti di Mario Ageno (1915-1992), a “Fisiologia” da quelli di Giuseppe Amantea (1885-1966), a “Biochimica” da quelli di Alessandro Rossi-Fanelli (1906-1999), nei primi anni Cinquanta, dentro la “Città Universitaria” [04]
Personalmente, pur quasi essendogli coevo, a lezione non ho mai avuto la fortuna di ascoltare Romolo Rossi, ma mi hanno raccontato di lui. Erano aneddoti spiritosi, spontanei, intelligenti, di persona che non le mandava certo a dire. La sua didattica, dicevo, il suo stile di racconto, di far paragoni, di richiamare, adoprare le parole giuste, s’intuiscono fascinose. L’ancoraggio è il termine che mi ha colpito d’acchito, come del resto, tutto quello che ha a che vedere col mare e la pesca. Mi trasmette forti emozioni, figurarsi andar per mare. Quasi cinquant’anni fa, per andare a pescare, presentai la domanda da primario al manicomio “Villa Clara” di Cagliari [05]. Avrebbe potuto essere il mio “cugino piccolo” di Genova, rispetto a quello “grande” di Milano, l’Ambrogio Donati, “Aiuto” di Giuseppe Carlo Riquier – in una clinica affollatissima di nomi prestigiosi – poi direttore di “Mombello” uno dei manicomi milanesi. Il Donati, marito della Nelda, cugina prima di mia moglie, quand’era venuto a Roma per la docenza aveva usufruito della mia assistenza che fin da studente frequentavo la “Neuro”. Tutti avevamo una scuola e ne andavamo fieri: «Chi fuor li maggior tui?». Più di una squadra di calcio! Conoscevamo le “formazioni”. Sapevamo i fuoriclasse, i numeri 10, i bomber, le vedettes. Io, per esempio, che ero un fanatico dell’extrapiramidale, sapevo tutto di Lionello De Lisi (1888-1957) da Barga, che aveva cresciuto Giuseppe Pintus, e terminato la carriera a Genova. Sapevo anche che l’alienista (antropo-craniologo) modenese Enrico Morselli (1852-1929) indefettibile positivista italiano. orfano di padre in giovane età, crebbe da un prozio in quel di Correggio e, approdò alla laurea in medicina e chirurgia, sotto l’ala di Carlo Livi con una tesi particolare (La trasfusione del sangue. Loescer, 1876), accertata ininfluente sull’infermità mentale.
Nondimeno, c’è sempre stato qualcosa di familiare, di domestico, nella presenza di Romolo Rossi, anche come appare nei video delle conferenze, che non saprei proprio ben dire. È cordiale, ma serioso; dice cose difficili con linguaggio semplice per non mettere in imbarazzo l’allievo, ma lo castiga appena si distrae. Quando deve dar peso ad una scoperta rispetto all’arretratezza dei tempi, ti racconta il contesto storico, chi governava, quali erano le carrozze, i costumi, i teatri, gli ospedali dei principali capoluoghi europei, Vienna, Parigi, Berlino … e magari anche il Papa che stava sul soglio! Insomma molto preciso ma non privo di una certa spettacolarità e perfino disposto a calcare il pedale del paradosso pur di raggiungere lo scopo principale che è sempre stato (piacevolmente) didattico. Una figura a metà strada tra Omero Antonutti, Piero Nuti, con una spruzzata di Gilberto Govi e Pietro Villaggio, il professore universitario gemello di Paolo.
Ma si! Quello che gli è sempre andato più vicino di tutti, è stato mio suocero, “‘u sciù Vittoriu”. Anch’egli genovese (di Via Assarotti) di quelli che non le mandavano certo a dire. Sapiente, curioso, col mugugno facile, insofferente alle ingiustizie. Non meno “professore”. Si era laureato in Chimica a Genova, col “Nobel” Alessandro Natta (1903-1956), quello della “plastica”, da Porto Maurizio. Poi a Roma s’era addottorato in Farmacia, in Medicina e Chirurgia, e infine Filosofia. Aveva vinto anche una cattedra nei licei (dove c’eran concorsi lui correva). Ma di mestiere faceva il Direttore del Servizio Merceologico dell’Istituto Sperimentale delle Ferrovie dello Stato, a Roma, finché c’è stato l’Istituto [06]. La moglie, la mia squisita suocera, “’a scià Griffi”, rigorosamente genovese, valente nuotatrice conosciuta dal marito tra i flutti di “Castello Raggio” a Cornigliano (l’antico Castello di Sant'Andrea), discendeva dagli Oliveri, abili amministratori della “marchesa Pallavicini caduta da cavallo” (si, proprio la Luigia del Foscolo che si deturpò il volto sulla spiaggia del ponente) e poi dell’Albergo dei poveri e altre istituzioni sociali del Comune di Genova. Il zeneise lo parlavano solo tra loro (naturalmente l’una con sfumature comitali, l’altro da “camalli” di “Caricamento”) con le figlie, l’eloquio era rigorosamente in lingua.
Ecco, ora che ho premesso le ragioni per cui ho letto molto volentieri questo testo di Romolo Rossi, e ci ho messo anche un po’ perchè mi ha fatto pensare, ne aggiungerò anche altre, non meno curiose, nè meno personali, ma difficili a raccontarsi perchè hanno complessi riferimenti storici nei due secoli che precedono il presente. Quelli in cui s’è compiuta la lunga transizione dalla neuropsichiatria alla psichiatria e alla neurologia [07]. Per 10 anni (1958-1968) sono stato Assistente volontario (“A.V.”) dell’Università di Roma, nominato dal Rettore su proposta del Direttore dell’Istituto interessato – la clinica delle malattie nervose e mentali – che allora era Mario Gozzano [08]. Dunque, conosco molto bene le vicende cliniche raccontate da Romolo Rossi, perchè sono analoghe a quelle che si vivevano all’epoca in cui c’era (non dappertutto, nè con la stessa doppia dicitura) la mitica «Clinica delle Malattie Nervose e Mentali». Sottolineerei inoltre che, chi avesse voluto percorrere la carriera universitaria, s’impegnava tacitamente a svolgere un lavoro gratuito, incerto e senza garanzia alcuna. [09] Non era mai sempre, però, tutto così lineare, come potrebbe apparire a prima vista. L’arena accademica della Clinica Universitaria, era luogo di tenzone quotidiana, per gente forte e coraggiosa, come gli uomini con la rete e quelli col gladio che combattevano al Colosseo, i reziari e i gladiatori. Dunque poteva capitare che al “posto” di “strutturato” chiamato per te, si presentassero anche altri “A.V.” della Clinica. Insomma una “Lotta continua”, concluderei, per mettere un po’ di brio ai miei ricordi. Non vorrei essere frainteso ma, fatte le debite proporzioni, qualcosa di analogo al lungo percorso europeo di Freud che – oltre 65 anni prima – per studiare bene la “psichiatria” (la nevrosi o meglio le psiconevrosi, meglio ancora la “psicoanalisi”) aveva cercato di imparare la migliore “neurologia” che si potesse apprendere a quel tempo nella “Mitteleuropa”, recandosi a Parigi, alla scuola di Jean-Martin Charcot.
C’è anche una sorta di coazione a ricordare – o di riflesso condizionato della memoria, se si preferisce – ogni volta che per qualunque ragione ripenso a un pezzo importante della mia vita, mi torna in mente una cantilena. Quando Silvia, la mia compagna per far addormentare i nostri cinque figli, recitava loro una poesiola cantatale dalla madre (“’a scià Griffi”, la nonna), che a sua volta l’aveva imparata dalla bisnonna, per via diaginica, se mi è permesso dire uno sproposito "positivista" alla Saint Simon, perchè le tradizioni culturali hanno ben poco di “posto”, ma semmai di “tramandato”.
Questa è l’antica cantilena genovese
Cieuve, bagneuve
e gallinn-e fan e euve
de ciongio, de bronzo,
de ciumme de colombo.
L’angio o pescava,
a Madonna a se bagnava:
Perchè ti te bagni?
Pe fà cessà quest’aegua,
aegua e vento,
doman faià bon tempo.
Anniemo da-o Segnò,
dove luxe sempre o sò! [10]
Ebbene, quando Cornelio Fazio nell’anno accademico 1969-70 sostituì Mario Gozzano alla Cattedra di Roma, io ero già fuori dalla mischia universitaria avendo traslocato armi e bagagli all’OPP di Santa Maria della Pietà governato dall’Amministrazione Provinciale di Roma. Nondimeno, per pura casualità, nel giorno fatidico, mi trovavo giusto di guardia alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali al civico 30 di Viale dell’Università. Lì per lì, sui due piedi, come ex-militante dell’altra squadra, mi trovai in qualche difficoltà. Ero già padre di 4 figli (i gemelli nati il 23 marzo dell’anno prima, il famoso 1968 del Congresso SIP di Milano). Raffaele Vizioli, ultimo “Aiuto” della scuola di Gozzano, regolarmente “ternato” era partito per la nuova cattedra di Cagliari, ancora “binaria”. Io, come detto sopra, dopo 10 anni di accademia, ero salito a Sant'Onofrio in campagna, entrando al manicomio Provinciale di Monte Mario come “Assistente interino”. Assumevano gente qualificata perché cercavano in tutti i modi di rispondere politicamente ai “Radicali” che stavano tutti i giorni all’ingresso del manicomio a creare disordini per abolirlo. Proprio quel giorno fatidico dovevo restituire a Guido Argenta – un collega “strutturato” della Clinica – un turno di guardia, debito contratto prima dell’estate. Qualcuno aveva lasciato sul comodino della stanza del medico di guardia un foglietto con su scritto i versi di Dante. «Ahi Genovesi, uomini diversi / D'ogni costume e pien d'ogni magagna, / Perchè non siete voi del mondo spersi?». Ma quello non era certo il caso di nutrire acredine. In primo luogo io non mi sentivo Dante, in secondo Cornelio Fazio non era Branca Doria, nè avrebbe percosso alcuno, ne sono sicuro. Semplicemente terminava il suo meritato giro d’onore come tutti i grandi dell’epoca per insegnare la “Clinica della Malattie Nervose e Mentali” dalla cattedra di Roma. Venne però ad insegnarci, per il tramite di Cesare Fieschi [11], una neurologia nuova, dinamica, interventistica, centrata sul neurovascolare, l’ictale… Il canto del cigno di Cornelio Fazio. Last but not least. Era l’ultimo dopo Mingazzini, Cerletti e Gozzano per non dire che del secolo appena trascorso. Le cattedre “binarie” non ebbero più ragione di esistere, erano divenute obsolete, superate dalla storia per ammodernamento ed efficientamento delle nuove cliniche specialistiche.
Lì per lì, sui due piedi, pensai però, ingenuamente, che Fazio avesse portato a Roma tutti i “neurologi”, tipo Agnoli, Fieschi, Manfredi, con tanto di neuro-radiologi al seguito come Bozzao (fra i quali si celava un giovanissimo e incerto Massimo Casacchia), e avesse lasciato a Genova tutti gli “psichiatri” (che non vedevo a Roma), come Giberti (1926), Rossi (1934), Roccatagliata (uno storico è una utile necessità), Conforto (1938). Pensavo anche – sempre ingenuamente perché la divisione cazzulliana dei pani e dei pesci non s’era ancora compiuta – che il povero e solo Carlo Loeb – superbo clinico della neurologia – a confortare i “neurologo-privi” della “Lanterna”, non sarebbe stato sufficiente. Tuttavia, a mano a mano che si procede nella lettura delle 24 Lezioni di Romolo Rossi e chi scrive confronta i fatti narrati coi propri ricordi, comincia a dubitare che forse tutti siano stati “profondamente neurologi”. Perfino Basaglia! Freud, in ogni caso, era stato il primo ad essere consapevole di esserlo, “profondamente neurologo”. Forse l’unico – sia pure nella variante fisio-patologica funzionale appresa dal Brucke – profondamente convinto di viaggiare verso una psichiatria dinamica, psicologica e anche psicopatologica, che sarebbe stata la “psicoanalisi”. Un altro punto di vista, una nuova prospettiva, una “cura”, insomma. Delle nevrosi, almeno agli inizi, senza pretese e senza picchiare! Neppure immaginando la vastità dei temi umani che avrebbe proposto e moltiplicato. Gli unici che non lo furono mai, “neurologi”, almeno in Italia, prima della storica biforcazione [12] di Carlo Lorenzo Cazzullo (1975) e della successiva riforma Basaglia-Orsini (1978), si possono contare sulle dita di una mano. Sono stati pochi direttori di ex-manicomi: Danilo Cargnello del “Besta”, Ferdinando Barison della “Brusegana”, Giovanni Enrico Morselli di quello di Novara.
Il mio mèntore del tempo – alla corte di Mario Gozzano – Raffaello Vizioli era stato “ternato”. Doveva andare in Cattedra alla “Clinica delle Malattie Nervose e Mentali” dell’Università di Cagliari, un classico, come sede iniziale, per il “grande giro”. Lui, sottinteso, in qualità di Direttore avrebbe insegnato Neurologia (la più importante e obbligatoria) io, in qualità di “Aiuto” avrei atteso alla Psichiatria (Insegnamento Complementare e Facoltativo). Ancora non c’era stata la puntuale legittimazione di Carlo Lorenzo Cazzullo – il «Cavour della psichiatria», copyright Romolo Rossi [13] – il quale, rotta la diga accademica, avrebbe colorato l’Università italiana con una fioritura di nuove vere cattedre di psichiatria oltre alle pre-esistenti: Franco Giberti, Dario De Martis, Aldo Giannini, Antonio Balestrieri, Romolo Rossi, Fausto Petrella, Filippo Maria Ferro, Carmelo Conforto, Alfonso Mangoni, Gaspare Vella, Giuseppe Donini, Nicola Ciani, Dargut Kemali, Franco Rinaldi, Luciano Agostini, Carlo Gentili, Clara Muscatello, Nereide Rudas, Paolo Pancheri, Alberto Giannelli, ecc.
Romolo Rossi, in questo libro, traduce per gli specialisti, ma anche per il grande pubblico, la complessa vicenda freudiana, raccontandoci la nascita della psicoanalisi in 24 lezioni. Naturalmente le ha reimpastate in un racconto avvincente e impreziosite con richiami sapienti che danno testimonianza di un cambio d’epoca con una sensibilità non comune. Naturalmente costruisce questa sua narrazione nella cornice della complessa vicenda psichiatrica italiana che si apre la strada liberandosi dalle morse di una soffocante neurologia clinica e – chi scrive, aggiungerebbe anche – da una neuropatologia freddamente settoria, vetrinatamente microtomizzata e colorata all’ematossilina-eosina o al Nissl bleu-notte. L’impianto didattico del maestro genovese rammenta le classiche “lezioni di medicina” dei professori universitari d’antan alle quali partecipavano non solo gli studenti per obbligo ma, essendo libere, vi accorrevano numerose anche le persone interessate. Soprattutto richiamate dalla fama del dotto che parlava ex cathedra. Come andare allo “Stabile” di Genova o all’”Eliseo” di Roma per assistere a uno spettacolo. Ricordo che ci fu un periodo in cui il “professore genovese d’indirizzo psicoanalitico” Romolo Rossi, veniva invitato in varie università italiane a tenere Conferenze, né più né meno che Franco Basaglia, di tutt'altro indirizzo. Entrambi furono chiamati a Roma da Gozzano per tenere una “Conferenza” sulla Psichiatria, allora esplosiva come il Coronavirus oggi. Quella di Romolo Rossi mi rimase impressa perché Romeo Virgili, allievo di Cerletti, allora direttore del manicomio di Rieti, in ritardo, affrettandosi per ascoltarlo, proprio in Viale del Policlinico – che attraversò di corsa senza guardare – fu travolto da una automobile che pose fine alla sua vita (1973).
Non era facile sciogliersi “dall’abbraccio fatale della neurologia” com’ebbe a dire Carlo Gentili (SIP Bologna 1976) ma neanche difficile. Per uno specializzando di neuropsichiatria che avesse voluto evadere dalla prigione dorata della neurologia e avviarsi verso la “psichiatria pura”, come talvolta si sentiva dire in Istituto (l’equivalente della psicoanalisi al cento per cento, di quel tal De Benedetti di cui più sotto si leggerà la citazione di Rossi), a Roma, aveva molte strade, ma la prima scelta era la psicoanalisi. A quel tempo, non vi era grande università italiana che non avesse una grande scuola psicoanalitica a portata di mano, vale a dire appena varcata l’uscita della corrispettiva «Clinica delle Malattie Nervose e Mentali». Negli anni Cinquanta, per esempio, a Roma, a parte Emilio Servadio che aveva analizzato il Collega Luciano Leppo, c’erano Nicola Perrotti per i freudiani ed Ernst Bernhard per l’alleanza junghiana, due punti di riferimento storico di sopravvissuti alle persecuzioni nazi-fasciste. Il primo era divenuto famoso presso il grande pubblico per via de Il male oscuro (1964), col quale Giuseppe Berto vinse il “Viareggio” e il “Campiello”. Il secondo raggiunse la grande notorietà per almeno 4 motivi. 1) Come ebreo tedesco cacciato da Berlino per le leggi razziali del 1938, fu rifiutato dalla Gran Bretagna perchè sul passaporto alla voce professione aveva scritto “chirologo, astrologo, pediatra, psicoterapeuta”. 2) Rifugiatosi a Roma, pur essendosi allontanato dall’ebraismo hassidim [14] degli antenati galiziani, venne inviato ugualmente dai fascisti a Ferramonti il campo d’internamento calabrese. 3) La sua morte improvvisa (1965), non aveva compiuto i 69, affrancò due scuole turbolente di orfani-eredi. [15]. 4) L’aver ricevuto nel suo spettacolare studio di Via Gregoriana, con affaccio su Trinità dei Monti, delle celebrità come Adriano Olivetti, Natalia Ginzburg, Federico Fellini, Giorgio Manganelli …
Sempre a Roma, per quelli della “Cattolica” e i transfughi dalla “Statale” c’era la possibilità di andare al “Gemelli” nella colonia “agostiniana” [16] di Leonardo Ancona (1922-2008), analizzato da Ignacio Matte Blanco (1908-1995), lo psicoanalista cileno, compagno di studi di Salvador Allende, incrociato casualmente al Convegno di Arenzano (1966). Ma c’erano anche ai tempi miei e di Romolo Rossi gli specializzandi che avevano in uggia di “frequentare”, non voleva dare proprio nulla alla Scuola, all’Istituto. Li chiamavamo i “Képi blanc”, alludendo alla Légion étrangère. C’erano, purtroppo, Atenei pubblici universitari statali compiacenti, che li arruolavano. Iscrizione e poi andare solo il giorno degli esami. Tristemente note e molto frequentati per noi “romantici” e anche un po’ “tifosi” di casacca con in mente le “figurine Panini” di tutti gli “neuropsichiatri” del campionato “regolare”.
A Milano, invece, tanto per fare qualche nome, c’era Cesare Musatti. Semplicemente la psicoanalisi fatta persona. Passata prima da Graz sotto forma di “psicologia della forma” per l’insegnamento del maestro Vittorio Benussi, tragicamente scomparso. In alternativa c’era la Psicopatologia descrittiva tipo quella del Trattato di Bini e Bazzi, un lungo elenco di definizioni, distinzioni, indirizzi classificazioni correlazioni, substrati organici delle attività psiche. Tutte suddivise per comparti ordinati e scaffalati, come sensopercezioni, memoria, pensiero, intelligenza, affettività, impulso, istinto, volontà, attenzione e via andare da far invidia all’elenco telefonico quando ancora non esistevano i telefoni cellulari intelligenti, gli “smartphone”. La terapia multifamiliare di Jorge Garcia Badaracco (1923-2010) un docente psicoanalista della Facoltà medica di Buenos Aires, ancora non s’era diffusa in Italia. Al contrario, invece, andava accadendo per la psichiatria sociale inglese con la “Comunità Terapeutica” escogitata da Maxwell Jones e Thomas Main (invitato dall’amministrazione provinciale di Roma a tenere una conferenza al Santa Maria della Pietà che deluse me e “Nino” Lo Cascio), molto apprezzata dai basagliani di Gorizia [17]. Per gli specializzandi neuropsichiatri di allora – come chi racconta questi lontani ricordi – che fossero stati più antichi della “Scuola di Palo Alto”, comparsa agli onori internazionali a metà degli anni Sessanta [18], non c’era altra possibilità che praticare l’antropologia fenomenologica, se avessero trovato ruvidamente meccanicistica la psicoanalisi. Naturalmente, se si fosse trovato già in clinica un Bruno Callieri, tanto per dire, e avesse voluto accostarsi all’alterità aliena o affacciarsi sull’abisso vertiginoso della follia con un minimo di prospettiva autentica e diretta, non aveva altra scelta che mettersi alle sue calcagna (di Callieri) e … studiare! Immediatamente, sarebbero venuti di conseguenza Binswanger, Minkowski. Barison e Cargnello. Una palestra di addestramento per leggere adeguatamente la mondanizzazione della presenza che si dispiega tra l’esperienza intersoggettiva dei “sani” e quella psicopatologica, allorché si manifesti.
I primi riflessi dei mutamenti dinamici nella psichiatria accademica italiana non si sarebbero fatti attendere. Dario De Martis, di formazione psicoanalitica, proveniente dal “Neurodeliri” di Virginio Porta, sarebbe stato fra i primi ad andare in cattedra di psichiatria, a Cagliari (1968), poi a Pavia, seguito a ruota da Fausto Petrella, suo allievo, fra i secondi. Aldo Giannini, di formazione fenomenologica, proveniente da Pisa – orfano del Direttore Giuseppe Pintus (1902-1960) brillante seguace del grande Lionello De Lisi di Genova – avrebbe avuto la cattedra di psichiatria a Sassari (1969). Naturalmente fra i nuovi cattedratici ci sarebbe stato anche Romolo Rossi il vivace “Direttore psichiatra-psicoanalista”.
Una sua importanza, come luogo storico, l’Istituto, la famosa Clinica universitaria genovese al civico 3 di Via Antonio De Toni [19], ce l’ha. Vi ha insegnato, e vi è passata gente famosa. Sono accadute vicende che vale la pena raccontare, se non altro come testimonianza accademica dell’Ateneo genovese. Anche per rendere più efficace la lettura di queste 24 Lezioni di Romolo Rossi, comprendere meglio quale fosse il clima in cui vennero diffuse, può tornare utile dare un’occhiata ad un altro testo del professore genovese: Romolo Rossi. Storia della Psicoterapia in Liguria nel XX Secolo. Pol.It. del 12 novembre, 2018. Certamente un’illustrazione dettagliata – a volte divertita e sarcastica – di gente importante o curiosa. Ne cito un passo, dove più acuti si affacciano i suoi ricordi, le sue sapide frecciate da giovanissimo “interno”. Scrive Rossi «… De Benedetti, allora ero ancora uno studente … mi ricordo che diceva che faceva la Psicoanalisi al 100%, espressione abbastanza singolare, era quello a cui venivano affidati i malati da curare in termini psicologici – si diceva allora psicoanalitici con un certo abuso di linguaggio – è doveroso poi citare Codignola, molto più serio e posato, era un personaggio di rilievo da noi, era uscito dalla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, era grande quando io ero piccolo ed entrai e faceva parte del gruppo che tutto sommato già allora Franco Giberti coordinava, perché la psichiatria è sempre stata rappresentata da lui nella Clinica delle Malattie nervose e Mentali; allora (li chiamo gli svizzeri perché erano tutte persone che erano andate in Svizzera) ci fu questo ritorno psicoanalitico non propriamente ufficiale, ma certamente competente … ». (corsivi del redattore).
Resta in ogni caso una grande assenza, se mi è permesso, une manque di cui dolersi. Nessuna traccia di un grande mistero che pure s’è cercato di adocchiare, sfogliando queste carte della scuola genovese di neuropsichiatria, diciamo così, anche se neurologia e psichiatria c’entrano poco. Tutti noi di una certa età sappiamo che Rossi conobbe professionalmente Ezra Pound, un complicato fenomeno letterario del Novecento, tuttora oggetto di dibattito, anche se meno presente nell’attuale clima tramortito dal coronavirus. Frugando nella rete abbiamo scovato una intervista di un giovane poeta genovese al professor Romolo Rossi. Eccone un frammento «… Rossi, allora giovane medico nello staff del professor Cornelio Fazio, ebbe un rapporto molto speciale con l’autore dei Cantos (…) nel ricordo del 10 marzo 1966. Quel giorno, all’ingresso della Clinica per le malattie nervose e mentali di Genova, si era presentato un personaggio misterioso che nascondeva la sua identità sotto pseudonimo: era appunto Ezra Pound, che aveva allora 80 anni (Rossi 32 n.d.r.) consigliato da Giuseppe Bacigalupo, medico curante e amico» [20]. Tutti quelli di una certa età sanno che Rossi gli dedicò un anno e più, diciamo di ascolto e dialogo, quando Pound (un bipolare tanto per accennare all’atmosfera) fosse stato con l’umore tendente al rimbalzo euforico. A quanto è dato sapere pare che Pound interrogasse il suo professore sulla Divina Commedia. Ma null’altro di più, perchè per Romolo Rossi «… parlare in pubblico di un caso che uno psichiatra ha avuto sotto la sua indagine (…) e' (…) male» (Pol. It. Romolo Rossi. Lo psichiatra mezzo busto: rapporto con la televisione. Elzeviro N 3 agosto 2001)
Si può forse eccepire che Giovanni Morselli (1852-1929) – il direttore modenese che precedette Lionello De Lisi – venga amnistiato da Romolo Rossi con eccessiva indulgenza per carità di scuola. Purtroppo per lui, quel direttore neuropsichiatra, cresciuto tra zoologi darwiniani, anatomisti e craniologi, non riuscì mai a capire la psicoanalisi pur avendoci scritto sopra due volumi usciti da Bocca (1926). Non ricordo più chi, Giancarlo Petacchi (Perrottiano di ferro) mi disse che si era riproposto di venire appositamente in Italia, a Genova, per spiegargliela. Poteva anche essere Freud in persona, 4 anni più giovane, perchè quel Morselli lì ebbe grande notorietà. Si badi bene che quel genovese di Modena, non va assolutamente confuso con il Giovanni Enrico Morselli (1900-1973) direttore del manicomio di Novara – allievo del valtellinese Carlo Besta – a sua volta maestro di Eugenio Borgna, psichiatra gentile. Fa scuola il suo trattamento psicoterapeutico di una paziente che «… entra nella nostra Clinica il 28 maggio 1925, proveniente da una casa di salute per malattie mentali. Viene da me interrogata poche ore dopo l' ingresso …». È la Clinica universitaria del prof. Carlo Besta, è il celeberrimo “Caso Elena”, la pianista venticinquenne, sua coetanea, con una zoppia alla gamba destra che parla francese senza rendersene conto. L’accompagna una pesantissima diagnosi di praecox dell’inviante dott. Algeri [21].
Per quanto invece riguarda il presente ricchissimo testo di Romolo Rossi, oggetto di commento, altri hanno scritto meglio di me sulle sue 24 lezioni. Francesco Bollorino, per esempio, nell’Introduzione. Sobrio, misurato, sensibile, moderatamente nostalgico, scrive: « … questa serie di lezioni su Freud e la Psicoanalisi del mio Maestro Romolo Rossi vengono da una Psichiatria che forse non c’è più (…) Era certo una Psichiatria “baronale” ma (…) fatta in genere anche e soprattutto di competenze e saperi. Se guardo con occhio distaccato la Psichiatria di oggi non posso non riscontrare altrettanta “baronalità” (…) ma forse non altrettanti saperi e competenze (…) noi, psichiatri, abbiamo anche oggi i nostri punti di riferimento culturale (…) una Psichiatria assai diversa da quella di oggi almeno a Genova (…) su 15 “strutturati” vi erano 8 psicoanalisti e molti specializzandi erano in analisi personale. Ricordo la discussione dei casi clinici di corsia (…) lezioni di psicopatologia e psicoanalisi (…) La psicoanalisi, in quegli anni, era, almeno a Genova e a Pavia, dentro l’Università ma non ha avuto “la forza” (…) di affermarsi come parte integrante del curriculum studiorum in maniera ufficializzata». (pp. VIII-IX, corsivi dello scrivente).
Questo affresco getta una luce storica su quasi un secolo di psichiatria italiana. La tua è una generazione intermedia di specialisti, l’ultima, ancora tinta di una vena di romanticismo, finalmente liberata dall’abbraccio (ingombrante e tiranno) della neurologia caro Francesco. Il ponte tra i giovani specializzandi (che oggi, giustamente almeno riscuotono il rimborso spese) e quelli della nostra generazione, mia e di Romolo Rossi. Si! Quella che Rossi ha vissuto con Franco Giberti e io con Gian Carlo Reda, era effettivamente un’altra psichiatria. Non solo a Genova e a Roma ma, gli altri Colleghi, in tutta Italia. Rammento analoghe discussioni di grandi quando io ero piccolo. Tra Sebastiano Fiume, Bruno Callieri, Gianfranco Tedeschi, rigorosamente in piedi, gesticolanti e accalorati, anche d’inverno, tra “citazioni” che sibilavano come dardi sopra le teste: numeri, date, titoli … American journal, Nervenarzt, Évolution psychiatrique, Zentralblatt … Archives … British … Talvolta si affacciava Tullio Bazzi l’autore del “Trattato” (Bini faceva solo lezione). Questo alla “Psichiatria Uomini” (al rez-de-chaussée salendo a sinistra) dagli ex di Cerletti.
Eh, si! Perchè all’epoca, la “Psichiatria Donne” (scendendo a destra) era diretta da Gian Carlo Reda, frequentata dai nuovi specializzandi di Gozzano come Mirella Mattogno, Graziella Nencini, e gli junghiani Lo Cascio, Donadio, Montanari, D’Agostino... La discussione dopo la visita si faceva pacatamente seduti davanti alla tazza di tè. Una cosa curiosa era che altri psicoanalisti freudiani importanti come Roberto Tagliacozzo, Paolo Perrotti, Sergio Muscetta, prestavano servizio nel reparto di neurologia (primo piano) del caporeparto Aldo Laterza. Due psichiatrie complementari facoltative e diverse dentro la clinica di Roma. Solo per le preesistenze cerlettiane? L’eclettismo di Mario Gozzano era arcinoto unitamente alla sua signorilità per “non aver mai cacciato nessuno”. Gli epigoni di Cerletti ce l’avevano semmai con Lothar Kalinowski che in America menava vanti non suoi. Spartaco Mazzanti, l’inserviente della “mordacchia” all’elettroshock “zero” raccontava che «er dottore tedesco s’era fregato ‘a machina de Bini», i Cerlettiani, che avesse arruolato Hoch per legittimarlo [22]
La psicoanalisi a Roma stava fuori dall’Università, ma vi entrava da tutte le parti. Freud non era il solo, prevaleva Jung. C’erano anche “i treni per andare a Milano”. Il primo ad andarci fu Isidoro Tolentino insoddisfatto della SPI di Via Salaria con la fronda (Bartoleschi, Marà, Fagioli) che era montata contro Nicola Perrotti e Lyda Zaccaria Gairinger. Il povero “Doro” Tolentino (uno “strutturato” dalmata di Pola che mi aveva insegnato molte cose sulla psicoanalisi) morì tragicamente travolto dal suo stesso motoscafo in vacanza a Opatjia (Abbazia) in Croazia. Tutti, però, ma proprio tutti, non potevano dire di ignorare o peggio disprezzare la neurologia. C’era solo chi “pungeva” e chi no, nel senso di “fare la pielle” o chiedere al Collega il favore di farla. C’era il prof. Lamberto Longhi, un genovese che aveva scartato Fazio per Gozzano venendo di proposito a Roma da Genova, per compiere studi di neurofisiologia fenomenologica. Faceva delle splendide lezioni neurologiche sulla filogenesi e sull’ontogenesi del Sistema Nervoso Centrale con un taglio struttural-funzionalistico di derivazione spenceriana. Ma poiché gli “Strutturati”, data la vastità delle “cliniche” (gli Istituti delle malattie nervose e mentali), i servizi, le guardie, i reparti, le consulenze esterne, gli ambulatori, ecc., erano sempre pochi, come dappertutto, peraltro, questo Prof. Longhi, lo avevano spedito su in “Radiologia” a fare le angiografie. Naturalmente, vicino aveva il “Volontario” Giuseppe Francesconi che “infilava” le carotidi al primo colpo e lo aiutava volentieri facendolo per lui.
La vita dell’Istituto era come lo “spogliatoio” di una squadra di calcio. Tutti sapevano tutto di tutti e il direttore era in cima ai pensieri di ciascuno. Il “corpo” del capo era oggetto di attenzione per scrutarne l’umore giornaliero. A Mario Gozzano – che ti sgridava se ti tanava a prendere l’ascensore, ti faceva fare la “cartella” in “brutta”, te la correggeva col lapis rosso-blù prima di passarlo a macchina – bisognava guardargli la mandibola. Secondo l’Aiuto Paolo Severini, uno della mezza dozzina, detto “Paolotto bisestile” per il suo carattere, un pesarese con la fissa della motocicletta (tanto per cambiare), poi Primario neurologo a Senigallia, se era contratta non era aria, se pendeva, potevi stare tranquillo, bastava non salire le scale a piedi. Ma tornando agli indirizzi terapeutici, oltre alla psicoanalisi ortodossa c’era già quella nuova e aperta al nuovo. Io ho fatto la specialità con Paolo Perrotti figlio di Nicola, divenuto famoso come inventore dello “Spazio Psicoanalitico” [23]. Se sapevi fare il neurologo, un tempo indispensabile per essere psicoanalista, probabilmente sapevi fare anche altro. Io so di Perrotti padre che ogni mese andava a Penne, suo paese natale, a misurare la pressione agli anziani. Chi scrive, da neolaureato, ha curato per una polmonite influenzale il proprio maestro di recitazione, Pietro Sharoff nella sua pensioncina di via Morgagni, vicino al Policlinico Umberto I, grande star del leggendario Teatro d’Arte di Mosca nato dal sodalizio tra Stanislavskij e Dancenko (1897).
Per concludere, citerò solo due parole pescate nel mare magnum delle 24 lezioni romolo-rossiane: «epicrisi» e «porfiria» [24]. La prima rimanda ad un concetto clinico che conclude l’intera ricognizione medica per discutere l’orientamento diagnostico adottato. La seconda rinvia ad un altro passaggio cruciale della clinica un architrave della procedura semeiologica: l’osservazione, la verifica e la correlazione di un fatto che ne rivela un altro, post hoc propter hoc. Due termini della “clinica medica” che tradiscono e confermano, per gli psichiatri di un tempo, la loro tenace origine medico-neurologica e come sia stato difficile liberarsi di quell’abbraccio fatale ma non esiziale e forse resiliente di Carlo Gentili.
Note.
01. Anche asciugando al massimo un “leggi meno” del “contenuto” non se ne cava un ragno dal buco. Non che se ne possa ritagliare una pericope da questo testo di Gianluigi Mancardi, Leonardo Cocito e Andrea Seitun. Neppure la copertina, appare granché, sempre “neurologia abbracciante” resta. Il lettore stesso, magari domandandosi dove mai siano evaporate le degenze e quali degenze, potrà giudicare alla fine. Con le opportune corsivizzazioni dello scrivente. «La Clinica Neurologica non è un pensiero astratto, come si potrebbe pensare dalla copertina del libro, ma una bella palazzina in stile architettonico razionalista, costruita nei primi anni ’30 ed inaugurata nel 1933 (…) prima denominata Clinica delle Malattie Nervose e Mentali (…) fortemente voluta dall’allora direttore prof. Enrico Morselli e dalla Provincia di Genova (…) l’istituzione competente per la cura e sicurezza dei malati “di mente” (…) successivamente collocata nella “città degli studi” in prossimità degli altri istituti medici del San Martino (…) per sottolineare la sua vocazione scientifica di ricerca sulle malattie del sistema nervoso e la sua funzione didattica (…) Nonostante le degenze siano ora state trasferite all'interno del (…) San Martino (…) rimane ancora (…) luogo di formazione didattica e ricerca (…) sede del Dipartimento di Neuroscienze, Riabilitazione, Oftamologia, Genetica e Scienze materno infantili dell'Ateneo genovese». Sostanzialmente un mega-ambulatorio senza neppure un accenno al “MENTALE”.
02. L’acronimo che sta per “Opere di Sigmund Freud”, la raccolta, in dodici volumi, di tutti i principali scritti del Maestro moravo asburgico (il giovane Schlomo) sulla sua invenzione, oltre ad appunti, annotazioni, carteggi, e altro materiale, pubblicati da Bollati Boringhieri (1966-1980), curata da Cesare Musatti, tradotta da differenti studiosi, revisionata da Renata Colorni.
03. Cure disperate. Illusioni e abusi nel trattamento delle malattie mentali, è un testo di Eliot S. Valenstein, presentato da Giovanni Jervis per Giunti, Napoli, 1993. Riporta la storia, anzi la cosiddetta “scoperta” delle sedicenti terapie organiche "radicali" che, fino agli anni '50 hanno tenuto banco. Anche il mio Direttore “affidava” per le psicoterapie psicoanalitiche. Fra i prediletti c’era Luigi Flavio Frighi che aveva fatto una supervisione in USA, una in Francia ed era stato a Dakar da Henri Collomb che sperimentava una nuova (per allora) psichiatria transculturale. Inoltre, pubblicava spesso con Bruno Callieri. Perfetto binomio di fenomenologia psicoanalitica alla Binswanger.
04. Quella favolosa di Marcello Piacentini come ce la racconta puntualmente Francesco Montuori discendente di Eugenio (“Stazione Termini”) e padre di Luca, una stirpe di architetti razionalisti di origine pesarese attivi a Roma dagli anni Trenta.
05. Vinsi quel concorso nel 1972 insieme a Laura Ferri Terzian, la compagna di Hrayr – il compagno neurologo di Basaglia – che veniva da Verona, ma questa è un’altra storia.
06. La sede, in Viale Trastevere, era nel prestigioso edificio della Vecchia Stazione papalina di Roma-Trastevere. Mio suocero “‘u sciù Vittoriu”, aveva vinto il relativo concorso per l’incarico di Direttore della Chimica delle “FF.SS” nel 1931, dunque aveva abbandonato l’assistentato universitario genovese. Ah! Mio suocero, adorava il Moplen e si sceglieva camicie di Meraklon (per la resistenza), che lavava da solo, ogni sera prima di coricarsi, con uno sguardo di amorevole complicità alla moglie “’a scià Griffi”, alla quale sussurrava soddisfatto: “Mia!” (la traduzione è guarda).
07. Proverò a immaginarlo in ordine cronologico questo lungo tragitto, socchiudendo gli occhi e guardando lontano. Proiettarci dentro Romolo Rossi, così d'emblée, può dare l’idea d’una mossa troppo confidenziale. Meglio prenderlo sotto braccio come un copain di una rivoluzione continua della psichiatria e della neurologia nell’Europa degli ultimi due secoli. Qualcosa di simile all’esperienza dei reduci delle campagne napoleoniche. Quelli che, oltrepassando il regicidio di Oliver Cromwell (1649) – come i Quaccheri di Tuke a York (1796) oltrepassarono la “contenzione”. Quelli che superata la ghigliottina dei reali francesi Luigi XVI e Antonietta (1793), rivoluzionarono “L'Ancien Régime” come Vincenzo Chiarugi che riformò il trattamento della pazzia (1785) dei “dementi” di “Santa Maria Nuova” e “Bonifazio” avallato dal Granduca di Toscana, mentre solo 10 anni più tardi il cittadino Philippe Pinel – alla Salpêtrière – liberò gl’infermi di mente dai ceppi (1795) con l’appoggio dei rivoluzionari più spietati, che più volte, però, tornarono a brutto muso per revocarglielo, urlandogli addosso «Cittadino! Sei impazzito?!». La ribellione illuminista si esaurì a Waterloo (1815) come la psichiatria italiana s’in-fasciò nella contenzione della «Legge 14 febbraio 1904, n. 36. (…) Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo …». Romolo Rossi, come alcuni altri protagonisti storici, mostrò di possedere qualcosa di originale per quella traversata dalla neuro–psichiatria alla psichiatria, che continua tuttora. Ha passato idealmente un fil-rouge, anche psicoanalitico, ma non necessariamente, ad allievi e studiosi come Francesco Bollorino, quelli di Pol.It. e del suo gruppo. Cercando un raffronto storico con la “180” del 1978, viene in mente il “Crollo degli Imperi Centrali”, il “Trattato di Versailles” (1919), ecc. Anch’io come Rossi ho fatto il medesimo perfezionamento con due specializzazione, che si parlavano poco e male. Anch’io ho seguito il paziente deceduto in corsia con l’osservazione diretta al tavolo settorio dell’Istituto anatomo-patologico, per “il trionfo dello sguardo sulla morte”. Anch’io ero presente assieme al mio caporeparto di allora, un Giovanni Alemà (1920-2014) brillantissimo polemista di una “neurologia” stratosferica, poi insegnata anche a Genova al San Martino, dove si racconta che dimorasse addirittura. La nostra curiosità anatomo-patologica di neuropsichiatri grezzi del nostro tempo, era quella di scoprire qualcosa di inoppugnabile, con la “dissezione del cadavere”.
08. Il mio punto di osservazione quello di “AV” alla Clinica neuropsichiatrica di Roma, era strategico e privilegiato. Usando una metafora calcistica, praticamente “giocavo sempre in casa”, perchè avevo il vantaggio di essere all’Istituto di clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Roma fin da studente per avervi fatto la tesi ed essere stato “allenato” – per continuare la metafora – da Cristoforo Morocutti (1927-2015) compagno di mio fratello maggiore, al “Galvani” di Bologna, successivamente da Raffaele Vizioli (1926-2009) e infine da Bruno Callieri (1923-2012). Ora non è più così. L’Università è cambiata, ma una volta, la postazione di “AV” della Clinica romana – nell’arco di tre generazioni (Cerletti, Gozzano, Fazio) – mi avrebbe dato la possibilità di tenere d’occhio le politiche delle grandi scuole della neuropsichiatria italiana. Conoscere personalmente i nomi più prestigiosi del “campionato”, perché la sede canonica delle libere docenze era la Clinica di Roma. Lì si riunivano anche le Commissioni di “ternatura”. Tutto doveva passare da Roma.
09. Detto inter nos, ci voleva molta fermezza, qualche soldino di casa benestante e una bella tenacia per fare la carriera universitaria. Potevano passare anche alcuni anni in questo limbo di “AV”. Fino a quando il direttore non avesse provveduto a chiamarti (dal Ministero della P.I.) un “posto di ruolo” ad hoc per divenire “strutturato”, il gruppo dei garantiti.
10. Traduzione. Piove, ripiove / le galline fanno le uova / di piombo, di bronzo, / di piume di colombo./ L’angelo pescava, / la Madonna si bagnava: / Perchè tu ti bagni? / Per far cessare questa pioggia, / pioggia e vento, / domani farà buon tempo. / Andremo dal Signore, / dove splende sempre il sole.
11. Non l’ho conosciuto, ma ha insegnato “il mestiere” a mio figlio Vittorio, che continua quella tradizione al DEA-UTN del Policlinico Umberto I di Roma con Danilo Toni.
12. Si può leggere un esauriente e dettagliato ricordo su Pol.It. del 26 ottobre, 2012 Al Cavour della Psichiatria di Romolo Rossi.
13. Questa definizione di Romolo Rossi è perfettamente azzeccata e mi risveglia una marea di ricordi. Lui, che è sempre stata persona molto autorevole e diretta, fin da specializzando, ai tempi di Cargnello ai “lunedì (pomeriggio) di Fazio”, ne sa qualcosa perchè, ebbe uno scontro diretto con Cazzullo, quando propose di aggiungere alla sigla della “Società Italiana di Psichiatria” (SIP), la dizione “e di psicoterapia”, se non ricordo male, ricevendone un deciso rifiuto. Carlo Lorenzo Cazzullo, in effetti, con una sapiente regia politica, appoggiata velatamente anche dalle gerarchie del “Decanato” gallaratese, sensibile, negli anni ‘70, alle raccomandazioni della “Compagnia di Gesù”, aveva sconfitto le truppe francescane di Agostino Gemelli (OFM) e si era trovato in mano le sorti della psichiatria italiana. Sapeva tutto, conosceva tutti, era informato sui dettagli. In ogni città c’era sempre il Collega che andava a prenderlo all’aeroporto. A Roma per esempio, dove veniva spessissimo, fin dai tempi della sua docenza, aveva stretto un sodalizio con Romeo Virgili, allievo di Cerletti, il quale gli mandava una volta Giuseppe Francesconi detto “Lillo” (mio primario alla Neuro e al Santa Maria della Pietà) e un’altra Marcello Della Rovere neuropsichiatra legale ed elettroencefalografista. Cazzullo lo ricordo che al congresso SIP di Torino. Mi si avvicino e, con mia grande sorpresa, mi disse affabilmente «Mellina venga che le voglio dare Storia breve della psichiatria italiana» e mi fece anche la dedica.
14. Lo chassidismo è un movimento di rinnovamento ebraico è molto critico nei confronti di quello tradizionale, che non si rivolge ai poveri di censo e d’istruzione, agli ultimi del mondo, insomma.
15. Ebbero il loro bel daffare per elaborare il lutto (tra Roma e Milano): L’AIPA (1962) con Antonino Lo Cascio, Francesco Montanari (Ceschino), Paolo Aite, Mario Moreno, Eleonora Trevi D’Agostino (Nora), Enrico Rasio, Giuseppe Donadio, Gianfranco Tedeschi (tutti compagni di specializzazione di chi scrive e allievi di Gozzano) ai quali si associò Aldo Carotenuto ex-Olivetti, e la CIPA (1966) che vide transitare successivamente i dissidenti Montanari, Moreno, D’Agostino, con Bianca Garufi, Mariella Loriga, Hélène Erba-Tissot, accanto a Mario Trevi.
16. A sostegno di quanto da noi antrove ipotizzato e richiamato alla nota 12, nella lotta cruenta per tagliare quella sorta di nodo gordiano che legava, anzi embricava, neurologia e psichiatria, che alla fine vide il prevalere di Cazzullo, scrive Ancona: “Fu Gemelli che al nostro primo incontro, nel 1947, mi mise d'un tratto a contatto con una realtà da me non avvertita, dicendomi con bruschezza: «lascia stare la Psichiatria, qui in Italia l'hanno distrutta e per impararla ti manderò negli Stati Uniti; dove è altra cosa. Ma per ora rimani con me, in Psicologia, e vedi di farti le ossa dal punto di vista scientifico»”.
17. Ci furono anche scambi rigorosamente extrauniversitari tra frange di Colleghi italiani molto radicali, che andarono a fare esperienza cosiddetta “antipsichiatrica” direttamente a Londra incontrando i gruppi di Laing, Cooper, Esterson, Shatzman, nel biennio 1964-65 e la Comunità di Kingsley Hall (1965-1970).
18. Cfr. Watzlawick, P., Beavin, J., Jackson, D. Pragmatics of Human Communication: A Study of Interactional Patterns, Pathologies & Paradoxes. Norton, New York, 1967.
19. Via De Toni o Largo Danao 3? Questo piccolo mistero del doppio indirizzo della clinica neuro–psichiatrica genovese ha tanto il sapore oniroide de Il figlio cambiato. La novella di Pirandello pubblicata su La riviera ligure, dell’aprile 1902 (storica rivista letteraria del Ponente di Angiolo Silvio Novaro finanziata da un noto oleificio) col titolo Le nonne, prima di apparire su Il Corriere della Sera del 5 agosto 1923, col nuovo titolo definitivo. Un incredibile rovello tipicamente pirandelliano.
20. Abbiamo trovato (<sottoosservazione.wordpress.com > 2009/09/30) una lunga intervista – E Pound il “folle” stese il suo medico sul lettino – resa da Romolo Rossi ad Alessandro Rivali, giovane poeta genovese. Sarebbe bello trovare anche la cartella clinica di quel periodo, così come Bollorino e Di Petta fecero col caso “Gerolamo Rizzo”.
21. Si vedano: Morselli Giovanni Enrico. Sulla dissociazione mentale. RSF Vol.54, 1930, p.209; Id. In tema di schizofrenia. RSF Vol.55, 1931, p. 490; Id. Il caso Elena. Un clinico e una donna nella narrazione di una cura. Chieti: Métis, 1995.
22. Cfr. Pol. It. 25 febbraio, 2019 L’elettroshock. Una “terapia” empirica, inefficace e anche “pestifera” di Sergio Mellina.
23. Paolo Perrotti oltre che creare a Roma una scuola importante di analisti “Lo Spazio Psicoanalitico” che a lungo si contese il primato del rinnovamento della didattica col “Pollaiolo” di Claudio Neri e Francesco Corrao, proponendo nuovi orizzonti con l’innesto di studiosi di varie aree, giocava bene a pallone. Lo chiamavamo “Stojospal”, Ernst Stojaspal (1925-2002) mitico attaccante austriaco di Simmering. Rammento anche le infinite sfide a “boccette”, il biliardo operaio (senza stecca) alla “sala” di Largo Marchiafava, dietro Anatomia, in attesa di Biologia, dove mi batteva regolarmente.
24. Quanto alla “porfiria” malattia rara ereditaria che muta il colore delle urine dopo l’emissione, citiamo direttamente Rossi: «… Ricordiamo la pazzia di re Giorgio: il sovrano fu affetto da porfiria acuta intermittente: entrava in fase di eccitamento e poi in stato confusionale (…) [un] servo riferì al medico (…) era un grande medico, Willis (…) “guardate che ho visto che le urine erano azzurre, e quando sono diventate gialle lui è stato meglio”. Il medico lo zittì (…) [perse] l’occasione di cogliere l’elemento fondamentale della malattia (…) le porfirine, ossidandosi nelle urine, diventano azzurre quando l’organismo le emette; quando cessa di emetterle, le urine ridiventano gialle, e il paziente sta meglio (…) così fa Freud nella psichiatria (…) egli rovescia il modo di procedere, e fa raccontare le cose». (Lezione 5, p. 45).
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