“Rinunciare ad applicare il sapere sul bambino, non significa fare professione di fede di ignoranza. Non sapere non significa non volerne sapere niente, ma attuare l’operazione analitica dalla posizione etica di un desiderio avvertito, la sola via per evitare la «normalizzazione psicologica» e la «moralizzazione razionalizzante» che minacciano ogni istituzione”[2] . Nella clinica dell’autismo ciò che si rileva come necessità è imparare a saperci fare con il non simbolizzabile, in una logica indipendente dal senso, una clinica più dell’atto che dell’interpretazione. È una pratica che si snoda sull’impossibile a dirsi, come ciò che non cessa di non scriversi, che riguarda il reale, ma non come orrore da recintare, quanto come bussola da utilizzare per orientare il lavoro. Dall’ intendere, che si pone in radicale differenza con il capire, sorge l’atto come ciò che eccede l’organizzazione attesa, esso si pone sulle coordinate dell’incalcolabile, dell’imprevedibile, del non saputo, di ciò che può spingere verso la produzione di un’invenzione.
La sospensione dell’incasellamento[3] concerne anche la messa a distanza e l’ascolto distratto del sapere istituzionale sul soggetto, il sapere medico, psichiatrico, scolastico. Prenderlo in considerazione sì, ma non come verità sul soggetto, piuttosto come discorso del padrone [4], così Lacan chiama uno dei quattro nei discorsi, ovvero discorso dell’identificazione, discorso che è traccia di ciascuna istituzione, discorso di padronanza che circola e fa collante, soprattutto di fronte all’impensabilità che provoca la psicosi.
Infatti dinnanzi al buco del reale, l’istituzione oscilla tra l’angoscia e la ricerca impossibile di un senso, di una causa, di un’aspettativa sul futuro del soggetto, dinamica che la fa inevitabilmente cadere nell’impotenza e nella lamentazione; con il rischio da un lato per gli operatori della chiamata in causa dei fantasmi personali, e dall’altro per l’istituzione di un’identificazione massificata sul versante dell’immobilità e dell’essere inerme. Inoltre il bambino diviene spesso una presenza scomoda, qualora le sue bizzarrìe siano eccessive e dunque difficili da gestire per l’ambiente, o può stagliarsi come presenza assente, ignorata e non vista da chi lo circonda, qualora sia più chiuso e silenzioso.
In entrambi i casi, si presta molto bene a essere oggetto della discussione degli altri in merito a un’ enigmaticità insostenibile che per essere negata e ridotta viene incasellata in tappe di progresso attese, apprendimento scolastico, aspettative della famiglia e più in generale correttivamente fatta rientrare nella filosofia della politically correct.
Nella cornice della politically correct, il principio condiviso è un supposto sapere del bene del bambino e la deriva è quella di prendere il posto del soggetto, con l’effetto di imporre l’applicazione di metodi e tecniche standardizzate tramite il socialmente diffuso approccio comportamentale, che non tengono conto della singolarità del caso.
La clinica psicoanalitica si differenzia radicalmente dall'approccio comportamentale, quest'ultimo si poggia esclusivamente sull'intensità dei fenomeni osservati nell'individuo da leggere in rapporto a certi parametri di “normalità”, disinteressandosi alla posizione soggettiva che il soggetto tiene in rapporto a certi tratti, punto invece di rilievo nucleare per la psicoanalisi nell’ascolto della singolarità e nella direzione della cura.
Riuscire a comprendere ciò che è in gioco del discorso del padrone operativo nel contesto sociale e istituzionale è fondamentale per misurare la propria posizione nel lavoro.
Il discorso analitico, che è il rovesciamento del discorso del padrone, mette al centro la singolarità del soggetto incontrato e si astiene dal ricamare significanti e significati in cui farlo rientrare a priori, per la soddisfazione di una linea terapeutica da confermare e/o per rispondere a un altro sociale che domanda soluzioni. La clinica psicoanalitica sospende la risposta, non detiene soluzioni, e si colloca nella temporalità logica del soggetto in trattamento.
Una posizione quindi più che di sapere, di estrazione e di partenariato con il soggetto, in cui questi senta che l’altro è lì non contro il suo tentativo singolare di inscriversi soggettivamente, ma disponibile a collaborare a questo atto, cioè essere uno strumento per il lavoro del soggetto, che vuol dire lavorare nella posizione analitica. Creando quell’atmosfera desiderante, quel disordine ordinato al desiderio del bambino, a cui ci si presenta, nell’appuntamento con l’autistico «i piedi nudi, le mani vuote, soprattutto vuote di sapere; e attrezzati solamente di un desiderio, non di guarire, ma di elevare alla dignità significanti i piccoli oggetti che puntellano il suo mondo» (V. Baio)
La clinica dell’autismo convoca in modo radicale l’etica del terapeuta, tra la ripetizione dell’Uno, monolitico e identico a se stesso, e i pezzi staccati di un reale fuori senso.
I pezzi scompaginati [5] che porta l’autistico sono di un reale che egli cerca di iscrivere, di bordare, alla ricerca di un modo singolare per annodarsi. Un trattamento psicoanalitico mira proprio a sostenere ciò che, per quel soggetto, può scriversi tra i pezzi staccati. La condizione di incontrare qualcuno che si presti a far sì che ci sia per lui a incarnare un punto di capitone nell’annodare il suo sinthomo, ovvero “un annodamento tramite elementi non-standard, elementi rari, elementi che appartengono soltanto al soggetto”[6] , attraverso una pratica di lavoro che si situa su due strategie cardine: la regolarità e l’invenzione.
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