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Segno e rappresentazione grafica nella clinica del bambino

6 Ott 12

Di Franca-Brenna

Quotidianamente, nella mia pratica di psicanalista, mi trovo confrontata e interrogata da due diverse modalità di approccio alla cura. Lavoro infatti sia con adulti sia con bambini e ragazzi, spesso con patologie gravi. L'adulto, come ben si sa, si sdraia sul lettino e procede attraverso le libere associazioni. Con il bambino, invece, per far sì che esprima il proprio disagio, i propri fantasmi, all'interno della relazione transferale, è necessario procedere in una dimensione in cui sguardo e parola si intercalano tra loro, ma con l'aggiunta di materiali vari, quali: matita, pastelli, fogli di carta o plastilina. Vi propongo, quindi, il caso clinico che tra poco vi leggerò, anche come una riflessione sulla funzione dello sguardo, quindi della pulsione scopica che, certo, interviene anche nell'analisi degli adulti (ad. esempio durante i primi colloqui, oppure nel momento del saluto iniziale o del commiato al termine di ciascuna seduta) ma, che nell'analisi dei bambini assume ben altra valenza ed evidenza.

Per addentrarmi in queste riflessioni inizierò con questo breve racconto o leggenda storica: “Federico II Re di Sicilia (1194 – 1250), ingegno universale e fine letterato volle sapere quale era la lingua fondamentale dell'umanità. Egli pensò di rapire una serie di neonati che ospitò nel suo palazzo e ai quali diede loro eccellenti nutrici. Esse erano incaricate di fare ogni cosa per il benessere materiale di quei bebè, ma avevano la consegna assoluta di non parlare mai con loro, né davanti a loro. Federico II non seppe mai quale era la lingua fondamentale dell'umanità perché, malgrado le buone cure materiali, di cui furono oggetto, tutti i bebè morirono (1).
Questo episodio, pur con i limiti del racconto storico, sottolinea l'importanza fondamentale della nascita del pensiero verbale per divenire esseri umani. Tale aspetto relazionale è talmente importante che a volte determina, anche la possibilità della vita. Quindi per il bambino “l'azione specifica” non è un atto che si chiude in sé stesso, ma che si “sessualizza”, coinvolgendo il desiderio dell'Altro attraverso la parola. Infatti:…”perché le parole abbiano significato, prima di tutto devono prendere corpo, perlomeno devono essere metabolizzate in un'immagine relazionale del corpo” (2).

Vediamo, ora, di verificare da un punto di vista “clinico” cosa succede quando si lavora con bambini che non possono esprimersi attraverso la parola, ma che evidentemente possiedono qualcosa del linguaggio, cioè dispongono di certi elementi dell'apparato simbolico.

Dunque, Roberto, un bambino di quattro anni, era arrivato presso un Centro educativo-terapeutico, presso il quale collaboravo, con una diagnosi di autismo. Ben presto, constatai la sua tendenza a chiudersi in un mondo tutto suo, troncando qualsiasi possibilità percettiva e comunicativa con l'altro. Ma, nonostante ciò, quando l'altro si relazionava a lui solo attraverso la parola, escludendo dalla sua vista, cioè dal suo campo scopico, la coincidenza della parola con l'immagine, Roberto era in grado non solo di capire il significato delle parole ma anche di rispondere in modo adeguato, seppure attraverso dei gesti, a quanto gli era richiesto. E' essenziale, in ogni modo, che aggiunga altri elementi: i genitori parlavano tra loro alternativamente due lingue diverse; aveva un fratello gemello, e quando si poneva davanti a uno specchio, da solo, senza intermediazione dell'altro, quindi della parola, iniziava a tremare mentre fissava la propria immagine riflessa. Dava l'impressione di perdersi in quest'immagine! Per alcune sedute la mia funzione consistette essenzialmente nel nominare tutto ciò che faceva o facevamo (anche nei momenti in cui si poneva davanti ad uno specchio), usando prevalentemente il verbo alla terza persona: es: Roberto, adesso, si sta specchiando!. Lasciando, però, che fosse lui (seppure attraverso dei gesti) a proporre le situazioni. Dunque, il tremore davanti allo specchio scomparve, inaugurò almeno parzialmente la continenza sfinterica e iniziò ad articolare alcuni sillabismi.
In un'occasione, avendolo sollevato da terra, su sua richiesta, per permettergli di vedere attraverso i vetri della finestra da dove provenisse un forte rumore che lo spaventava, girandosi improvvisamente mi sganciò accidentalmente un orecchino. Lo deposi a terra, verbalizzandogli ciò che era successo, aggiungendo che avrei cercato il mio orecchino. Subito, si arrabbiò moltissimo, iniziò a tremare e uscì dalla stanza dove avvenivano le sedute. Si recò nella cucina del Centro e si sdraiò sotto il tavolo. Lo seguii con calma, mi sedetti su una sedia, vicino al tavolo, e gli parlai; gli parlai soprattutto della sua collera. In cucina, in quel momento, c'erano altri ragazzi ospiti del Centro e uno di loro si rivolse a Roberto, che pur dava l'impressione di essersi isolato da tutti, chiedendogli quanti anni avesse. In un angolo c'era una lavagna dove scrissi, mentre li pronunciavo ad alta voce, il nome, il cognome e gli anni di Roberto. Deposi il gesso, e quasi contemporaneamente Roberto si alzò da sotto il tavolo, si avvicinò alla lavagna, prese il gesso, tracciò dei punti sulla superficie della lavagna, che poi collegò tra loro attraverso una linea continua. Il risultato mi lasciò sbalordita: era raffigurato un corpo umano. Che cos'era successo, o meglio che cosa si era significato?
Ma lasciamo ancora per po' in sospeso questa domanda e riprendiamo il racconto clinico. Dunque, nei nostri primi incontri, Roberto propose, quasi esclusivamente, una dimensione di isolamento, di chiusura in se stesso, stendendosi su un materasso con la testa rivolta al pavimento. Finché una volta gli comunicai, solo attraverso la parola (perché Roberto si era posizionato in modo da non vedermi) ciò che vedevo di lui: le scarpe, le calze, la maglietta; specificando che non vedendo la sua testa, nascosta dal materasso, mi sarei avvicinata a lui per cercarla. Tutto questo, dal momento in cui iniziai a fare l'elenco degli indumenti che ricoprivano alcune parti del corpo, fu accompagnato dalle sue risate divertite. Quando la sua giocosità mi sembrò all'apice, dopo aver “scoperto” la sua testa, proposi a Roberto di invertire i ruoli. Mi posi nella medesima posizione in cui lui si trovava, ma al lato opposto della stanza, di modo che a Roberto arrivassero soltanto le mie parole. Gli chiesi di alzarsi mentre gli dicevo che ora, sarebbe stato lui a “scoprire” la mia testa. Subito si avvicinò gattonando, gettandomisi addosso, sempre in modo giocoso. Ritengo che questa prima fase di nominazione, sia delle parti del suo corpo sia del suo nome (attualizzando, mi verrebbe da dire, come per l'isterica sdraiata sul lettino di Freud, un'assenza di piacere pulsionale scopico, che permette la rappresentazione immaginaria dell'altro), gli abbia permesso di accedere alla progressiva significazione del suo desiderio, attraverso ciò che Freud definisce come possibilità di “accesso al giudizio” .
Scrive Freud: “Supponiamo che l'oggetto che fornisce la percezione sia simile al soggetto, cioè un essere umano prossimo. L'interesse teorico (suscitato nel soggetto) si spiega anche in quanto un oggetto siffatto è stato simultaneamente il primo oggetto di soddisfacimento e il primo oggetto di ostilità, così come l'unica forza ausiliare. Per tale ragione è sul suo prossimo che l'uomo impara a conoscere. I complessi percettivi che sorgono da questo prossimo saranno in parte nuovi e imparagonabili: per esempio i lineamenti (nella sfera visiva); ma altre percezioni visive (per esempio i movimenti delle mani) coincideranno nel soggetto con i suoi ricordi di analoghe impressioni visive del corpo, i quali si assoceranno a ricordi di movimenti sperimentati da lui stesso. La stessa cosa accadrà con altre percezioni d'oggetto; quindi, per esempio, se l'oggetto grida, un ricordo delle proprie grida, risusciterà (nel soggetto), rinnovando le sue esperienze di dolore. Così il complesso di un altro essere umano si divide in due componenti; di cui una s'impone per la sua struttura costante come una cosa coerente, mentre l'altra può essere capita mediante l'attività della memoria: può, cioè, essere ricondotta a un'informazione che (il soggetto) ha del proprio corpo. Questo scomporre un complesso percettivo si chiama conoscenza di esso; comporta un giudizio e ha termine quando questo scopo ultimo si è realizzato. Il giudizio come si vede, non è una funzione primaria, ma presuppone l'investimento da parte dell'Io delle parti disparate (della percezione)”. Scrive ancora Freud: “…il giudizio…è un processo (…) reso possibile solo dall'inibizione esercitata dall'Io e messo in atto dalle differenze tra l'investimento di desiderio di un ricordo e un consimile investimento percettivo” (3). 
Ma perché, in questo caso, il desiderio di Roberto si poté attualizzare attraverso una forma di sublimazione della pulsione, che assunse l'aspetto di una rappresentazione grafica, anziché manifestarsi in una dimensione regressiva di allucinazione del desiderio (il suo tremore?)? 
Per poter procedere, vediamo di raccogliere altri elementi tratti dalla teoria psicanalitica. Nel caso della rappresentazione grafica si tratta del corpo, preso, catturato sul versante immaginario (cioè del corpo impegnato nello spazio prossimo). Questa rappresentazione è però possibile solo quando il bambino attraversa ciò che Lacan definisce come Fase dello specchio (4). Lacan presuppone che per fare un corpo occorra un organismo più un'immagine, ma presuppone anche che questa immagine venga assunta, e per confronto identificata, come simile a quella di un altro essere umano, di cui abbia già avuto esperienza visiva. L'Io nasce dunque altro da sé, a un livello immaginario della coscienza. L'Io è dunque l'immagine non la realtà, il rappresentante ingannevole e non il vero soggetto; il soggetto è l'inconscio, rappresentato nell'Altro.
E', comunque, importante sottolineare che spesso si valorizza eccessivamente la dimensione scopica delle esperienze infantili definite come speculari. Infatti, il caso clinico da me esposto evidenzia che, ciò che determina la possibilità di confrontarsi, o forse è meglio dire, rapportarsi alla propria immagine speculare è data, essenzialmente, dall'aspetto relazionale esperito attraverso la parola. Come suggerisce F. Dolto nel suo libro L'Immagine inconscia del corpo, l'esperienza dell'immagine riflessa nello specchio, nel momento in cui è percepita come propria, senza intermediazione della parola, mette bruscamente il bambino di fronte al plusgodere della pulsione scopica rispetto a tutte le altre pulsioni. E infatti Lacan ci indica che: “Non a caso l'analisi non si fa faccia a faccia. La schisi tra sguardo e visione ci permetterà come vedrete, di aggiungere la pulsione scopica alla lista delle pulsioni. Se si sa leggere, ci si accorge che Freud la mette in primo piano nelle Pulsioni e loro destini, e mostra che essa non è omologa alle altre. Infatti è quella che elude più completamente il termine della castrazione” (5).

Ma ritorniamo a Roberto e all'episodio in cui il suo desiderio si poté attualizzare attraverso una forma di sublimazione della pulsione. Ma perché tutto questo si verificò? Seguendo le riflessioni sin qui esposte ritengo che, in primo luogo sotto il tavolo, Roberto “si posizionò” in un'assenza di piacere pulsionale scopico (rimandandolo alla rappresentazione immaginaria dell'altro) che neutralizzò la dimensione di plusgodere scopico (che nella sua storia aveva assunto un'importanza patologica fondamentale). In secondo luogo, desumo che attraverso la nominazione del “nome proprio” si attualizzò, nell'après-coup, l'effetto di castrazione simbolica, perché come “limite” riguardava sia lui che me, (se non fosse uscito dalla stanza, dopo aver cercato il mio orecchino, avremmo potuto, se lo avesse richiesto, riprendere a guardare fuori dalla finestra). L'atto da me compiuto, infatti, fu esclusivamente determinato da una “necessità” scaturita dalla situazione. Infatti, come ho già proposto, l'effetto di castrazione simbolica, cioè di significazione della possibilità di sostenere il proprio desiderio attraverso il limite, si poté attualizzare solo in un secondo tempo, quando nominai il suo nome, il suo cognome e i suoi anni.
La nominazione del nome proprio, che avvenne attraverso la significazione del limite, assunse, a mio avviso, la dimensione significante del suo desiderio, cioè disegno del desiderio dell'Altro, introducendo così, la funzione dell'Ideale dell'Io che permise la sublimazione della pulsione. Infatti i fonemi del proprio nome sono quelli che incidono primariamente sul sensorio infantile e assumono un'importanza fondamentale perché garantiscono la coesione narcisistica del soggetto. Si potrebbe anche dire che la nominazione crea la traccia nell'Altro. In terzo luogo, presumo che, affinché una traccia o il segno del desiderio dell'Altro vengano proiettati all'esterno su una superficie, si debba attualizzare ciò che Freud definisce come tendenza a imitare – in questo caso, considero la rappresentazione grafica un'imitazione inconscia dell'immagine mnestica: “Si può dire che la percezione corrisponde a un nucleo oggettuale + un'immagine motoria. Mentre si percepisce la percezione, si copia il movimento; cioè s'innerva con tanta forza la propria immagine motoria, suscitata per coincidere (con la percezione), che il movimento si compie. Qui si può parlare di percezione avente valore imitativo” (6). 

Ma vediamo di esplicitare, seppure velocemente, ciò che intendo come riflessione sulla funzione dello sguardo, quindi della pulsione scopica, prendendo spunto dal sintomo di conversione isterica e dalla storia della scrittura. Nel sintomo di conversione isterica è il corpo che viene “messo in scena” sotto forma di un'iscrizione (il sintomo) portatrice di un messaggio indirizzato all'Altro. E Lacan ci ricorda che: “…a livello scopico non siamo più a livello della domanda, ma del desiderio, del desiderio all'Altro” (7). Infatti, a mio avviso, si potrebbe parlare, facendo riferimento alla storia della scrittura, di testo ideografico, cioè di una testualità muta, rilasciata dall'inconscio attraverso il ritorno del rimosso. E sappiamo che il processo di rimozione consiste nel ritiro della libido dal sistema conscio, cioè nello scindersi della rappresentazione di cosa dalla rappresentazione di parola.
In seguito, nell'analisi avviene una scrittura con valore fonetico, cioè una forma di scrittura rappresentata sotto forma di enigma o rebus. E' il momento in cui Freud chiede all'isterica di sdraiarsi sul lettino, e attraverso le libere associazioni le propone di dire tutto ciò che le si presenta alla mente. Per esempio, le chiede di fissare un elemento di un sogno, mentre un'altra parte della mente si abbandona a idee spontanee.
Gli storici della scrittura, infatti, parlano di scrittura a rebus proprio per indicare il passaggio dalla scrittura ideografica a quella fonetica. Questo processo consistette nell'assegnazione di un suono del linguaggio ai segni (ideogrammi) che si andavano progressivamente semplificando. Rebus: con le cose. E, infatti, come sottolinea Lacan ne L'istanza della lettera nell'inconscio: “…il sogno è un rebus. E Freud insiste che bisogna intenderlo…alla lettera” (8). Che cosa significa? Il sistema a rebus rappresenta un caso particolare di passaggio dalla pittografia al fonetismo e le più grandi scritture, come il cinese o l'egiziano, fecero coesistere i pittogrammi e i segni sillabici che ne derivavano grazie a questo processo fonetico. Una definizione di rebus è questa: “Fondamentalmente si tratta di una o più immagini, che possono essere accompagnate o no da lettere o da altri segni, che devono suggerire una parola o una frase dal significato completamente diverso da ciò che rappresentano” (9). Quindi è solo nel momento in cui Freud chiede all'isterica di sdraiarsi sul lettino – nel silenzio dell'analista, ma soprattutto nell'assenza del piacere pulsionale scopico – proponendole nel contempo di comunicare attraverso le libere associazioni tutto ciò che le si presenterà alla mente, che Freud potrà iniziare a leggere il testo attraverso una sottrazione di senso al figurativo.

Mentre nella cura del bambino, come ben sappiamo, lo sguardo, quindi la pulsione scopica, assume ben altra valenza ed evidenza. Ritorniamo, quindi alla cura del bambino e alla questione della nominazione, innanzitutto per ricordare che “nominazione” e “castrazione simbolica” analiticamente, devono essere definiti come due tempi logici e non cronologici della costituzione soggettiva.

La mediazione della nominazione, per la teoria lacaniana, introduce una “inadeguatezza” tra ciò che è desiderato da ciò che si fa intendere in una domanda…In questo senso non esiste l'oggetto del desiderio salvo che nel designare tale oggetto come “oggetto eternamente mancante”… Lacan dà a tale oggetto, contemporaneamente, oggetto del desiderio e oggetto causa del desiderio, la qualifica di oggetto a, perché è la testimonianza di una perdita ma è anche l'oggetto che causa la mancanza nella misura in cui questa perdita è impossibile da colmare (10).

Mentre nella “castrazione simbolica” è implicata, appunto, di già la dimensione simbolica, cioè l'effetto del significante, e F. Dolto, parlando di castrazione simbologena, ci indica che il soggetto nel ricevere il divieto ad agire ciò che ricercava con ardore, subisce uno choc che rinforza il desiderio di fronte all'ostacolo, sfociando a volte in vere e proprie rivolte. Si sente minacciato di fronte all'annullamento del proprio desiderio e all'assoluta inutilità di inseguirne l'oggetto. Attraverso il divieto il Soggetto desiderante viene dunque iniziato alla potenza del proprio desiderio, quale valore, e, conseguentemente è introdotto alla Legge, che gli offre ulteriori vie per identificarsi con gli altri esseri umani, anch'essi segnati dalla Legge. Le pulsioni così rimosse subiscono un rimpasto dinamico e il desiderio, il cui scopo iniziale è stato proibito, cerca la propria realizzazione tramite nuovi mezzi: le sublimazioni. Ciò comunque non vuol dire che castrazione e sublimazione si eguaglino. Una castrazione può condurre alla sublimazione, ma può anche sfociare in una perversione o in una rimozione a sbocco nevrotico (11).

Per concludere riprendo una questione, a mio avviso, molto importante nella conduzione della cura, dei bambini e dei ragazzi e che riguarda ciò che definisco come nominazione (da intendere nell'accezione che ho proposto). Ma distinguerei la nominazione del nome proprio dalla nominazione dei disegni o degli oggetti modellati, all'interno della seduta. 

Infatti la nominazione del nome proprio, come ho già ricordato, è ciò che determina la coesione narcisistica dell'immagine inconscia del proprio corpo. Mentre, ritengo che i disegni proposti all'interno della seduta debbano essere non tanto interpretati quanto nominati nel senso di… dare parola. Cioè si deve chiedere al bambino di parlarne, di descriverli, di nominarli. Infatti, è attraverso la descrizione o il racconto del disegno o del modellato che il bambino attualizza, all'interno della seduta, i suoi fantasmi, il suo disagio. 
Attraverso la nominazione dei disegni ritengo che si possa compiere il processo inverso che Freud propone con l'isterica. Mi sembra, infatti, possibile rintracciare nella definizione di nominazione nell'accezione lacaniana (che ho proposto poco fa), la questione del senso. Attraverso la semplice nominazione dei disegni o del modellato è possibile dare senso (nell'accezione di significazione) alle simbolizzazioni primarie che potranno essere di nuovo rimosse e quindi riattualizzate in una forma diversa. Mentre l'interpretazione, così come si utilizza nella cura dell'adulto, presuppone già la domanda rivolta all'Altro, cioè la dimensione di enigma o rebus (come abbiamo verificato, consiste essenzialmente in una sottrazione di senso al figurativo), che nella cura analitica è possibile solo attraverso le libere associazioni, dove predomina la parola. Nella cura del bambino dove a volte predomina nettamente la funzione scopica (plusgodere scopico) è il desiderio all'Altro che deve essere riconosciuto attraverso ciò che definisco come nominazione. Infatti la spinta all'umanizzazione risiede nel riconoscimento del desiderio attraverso la parola, non nella sua soddisfazione.
Lacan, infatti, in Funzione e campo della parola e del linguaggio, contenuto negli Scritti ci propone che: “Attraverso la parola che è già una presenza fatta d'assenza, l'assenza stessa giunge a nominarsi, in un momento originale, di cui il genio di Freud ha colto nel gioco del bambino la ricreazione perpetua” (12).

 

*Intervento nella Giornata di Studio con Jean Bergès – Milano, 31 marzo 2001

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