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Tre artisti e lo schizofrenico

6 Ott 12

Di Valeria-Medda
Ecco, tradire; signor
editore, vorrei
tradire, sebbene dopo tutto non sappia
chi e come, e dubito assai che ci
sia qualcuno disposto a pagare in
qualche modo un qualsivoglia mio
tradimento.
Giorgio Manganelli, Encomio del tiranno

In modo improvviso, nell'Italia della metà del '500 si attua, nella produzione figurale, l'abbandono di una serie di norme discorsive, fino allora ispirate al canone classico greco della misura e della proporzione, poi compiutamente codificate con la teoria quattrocentesca della prospettiva. Alcuni artisti compiono un improvviso viraggio stilistico, definibile come una perdita di frontalità o di egemonia della linea recta, per assumere una sorta di sguardo eccentrico sul mondo. Il Vasari, per definire questo nuovo trattamento dell'opera figurativa e di inediti criteri di rappresentazione insieme ai suoi protagonisti, conia la celebre espressione di “Officina della maniera”.
Nasce il cosiddetto “Manierismo”, di cui Pontormo è considerato l'iniziatore. Il mondo intellettuale e artistico aveva fino allora fondato la propria formazione sui canoni della Poetica di Aristotele e il proprio codice iconico sulle leggi di quella prospettiva che Panofsky definisce “forma simbolica razionale, intellettiva e antropocentrica”; i manieristi iniziano invece a rappresentare le forme servendosi di “linee di obliquità”, di stortura, di diagonalità.
Qualcosa, nel mondo, comincia a deformarsi. Siamo in un momento storico particolare, tra il cosiddetto “Sacco di Roma” del 1527, ad opera dei Francesi, e lo choc repressivo della Controriforma, con cui il papato tenta una risposta allo scisma di Lutero.
Come se la soggettività degli artisti e le loro intime certezze valoriali si trovassero improvvisamente irrelate e sconvolte, avviene un radicale viraggio nel sentimento della rappresentazione delle cose. L'“eccentricità” diviene in certo modo necessaria. Il tradimento del codice artistico si produce simultaneamente al tradimento dell'idea di sovranità: Machiavelli, nel Principe, ha l'audacia di elogiare la strage e di prospettare il tradimento delle alleanze politiche, in vista dell'utilità dei risultati. È qualcosa di simile a quello “spazio dei dati di fatto” (Tatsachenraum) di cui parla Wittgenstein nelle Vermischte Bemerkungen: “Non si possono condurre gli uomini al Bene. Si possono condurre in qualche luogo. Il Bene sta al di fuori dello spazio dei dati di fatto”.
Così, nello straordinario ritratto di Cosimo I de' Medici del Pontormo, possiamo riconoscere la nuova forma di sovrano, tragicamente tirannica, che, pur nell'innegabile grandezza, evoca le stigmate simboliche del duca Valentino Borgia. Un principe che si pone al di là della morale tradizionale, perseguendo il proprio obiettivo senza scrupoli, avendo di mira il solo potere, la sovranità assoluta. È la nuova concezione del politico. Con Machiavelli, il tradimento diventa “necessario” al principato.
Artisti come l'ipocondriaco e misantropo Pontormo, Beccafumi, Parmigianino, il meno tormentato Bronzino, già un po' manierista della maniera, e il meno grande Rosso Fiorentino, colgono il disagio concettuale e il franare delle certezze. Tradurranno la loro inquietudine in una contorsione della forma, in un principio di artificio, di deformazione, che prelude alla futura disgregazione dell'informale e in qualche modo anticipa l'odore angosciato della modernità.
Baldassar Castiglione, ne Il Cortegiano definisce il carattere inedito di questo sentimento del mondo, simultaneamente depressivo e creativo, come Melancholia artificialis, artificio triste dell'uomo di corte. Pontormo non lo fu di sicuro, chiuso nella sua torre affittatagli dai frati, eterni nemici della sua avarizia, luogo di isolamento eremitico da cui non si toglieva mai, ritirando il cibo da un cesto con corda e carrucola, sempre a mezzo fra problemi colitici e astio per l'umanità, come sappiamo dal suo misantropissimo diario. Ma gli altri non si sottrassero all'ossequio di corte, e forse ne sentivano la costrizione.
Certo il ritratto di Cosimo I riceve la marca deformante e introversa della malinconia “autentica” del suo autore; qualcosa di devastante e di terreo emerge dal corpo del signore mediceo, e, in un'aura di cupa grandezza, segnalando l'introversione del potere, tra tormento e cinismo, si concreta nell'uncinarsi del pollice sull'altra mano, come un gancio terribile che chiude la figura sotto il peso della sovranità. Ne deriva, sul piano formale, una torsione quasi a chiocciola del torso, con un effetto estetico di drammaticità mai vista.
L'isolamento totale di Pontormo dalla vita reale (la sua “esistenza mancata”) è forse alle origini della sua straordinaria potenza nell'alterare i tratti convenzionali della rappresentazione pittorica: egli è il maestro di tutti i manieristi, e di tutte le strategie di deformazione.
Maniera, maneggiare, manipolare…, è un intervento di modifica radicale. La produzione di un artefatto. Un artefatto innovativo.
Se il pregio delle opere d'arte dell'antichità era la loro capacità di uniformarsi a una norma, per produrre un “bello” dal carattere universale, il manierismo, testimoniando un progresso nella enunciazione delle norme ideali, instaura una possibilità evolutiva dinamica, la possibilità stessa di una storia. Come mostra Luc Ferry in Homo aesteticus, “l'originalità cessa di essere un disvalore”, cambiando significato da quando il soggetto si insedia nella concezione estetica di ciò che è l'opera d'arte. Per Hegel, l'originalità è ancora sospetta: “Soltanto in quanto coscienza della generalità, la coscienza è coscienza della verità; ma la coscienza della singolarità e l'agire come singoli, l'originalità che diventa una peculiarità del contenuto o della forma, è il non-vero e il male. Sicché l'errore consiste nel particolarizzarsi del pensiero: il male e l'errore consistono nella separazione dalla generalità” (Fenomenologia dello spirito). L'eccezione è il male; il manierista è un isolato, un solitario. Quando ero bambina, al paese di mia madre, di una persona che fosse un po' stramba o anche solo eccentrica si diceva: “È un originale!”.
L'originalità viene a comprendere simultaneamente il concetto di soggettività con quello di storicità. Ormai, dopo il manierismo, bisogna innovare per acquistare diritto di cittadinanza nella storia dell'arte. È possibile situare in questo punto concettuale il nascere dell'idea stessa di avanguardia. Nozione che va ricollegata ad un primato della soggettività; quel che di inedito e di “finora impensato” che soltanto un soggetto può produrre apre dunque l'orizzonte dell'estetica moderna.
Il ritratto di Cosimo il Vecchio di Pontormo è datato di poco avanti al 1520, pochi anni prima del sacco di Roma; anticipa dunque il clima culturale di disfacimento, il sentimento angoscioso di perdita e di crollo dei valori proposti da quell'umanesimo che ancora credeva alla corrispondenza mistica di microcosmo e macrocosmo col mito antichissimo dello “sfero” formato dai quattro elementi primordiali aria acqua, terra e fuoco, dove l'uomo si situa tra terra e sfere celesti come nella cosmologia dantesca. Il colpo assestato dal manierismo al canone classico inaugura l'apparire di una serie di personaggi assolutamente “moderni”, che preludono all'estetica barocca, dove, come scrive Walter Benjamin nel Dramma barocco, c'è sempre una storia di lesa maestà, gioco di lutto dove qualcuno o qualcosa insidia il tiranno.
Cosimo I de' Medici, avviticchiato su se stesso quasi a spirale, è un tiranno malinconico e consapevole. Pontormo immagina la concentrazione del potere come un evento angosciante nel culmine del suo splendore. Il segno più tipicamente manierista, dicevamo, è riconoscibile in quel dito indice della destra, che, come un artiglio grifagno, aggancia la mano sinistra, richiudendo il corpo su se stesso. Senza via d'uscita: è la forma di situazione intrapsichica che Freud riconoscerà come la principale struttura d'angoscia, Hilflösigkheit.
Una lirica di John Donne allude magistralmente alla perdita di un riferimento prospettico centrale:

È tutto in pezzi, tutta la coerenza se n'è andata…
Tutto quel ch'era giusto, tutti i rapporti…
E il Sole
Non può perfezionare il suo circolo, o mantenere
Il suo cammino in direzione dritta, ma dove si è
levato stamane
Più non viene, ma con una linea ricurva
Evita quel punto, come una serpentina…
E bisogna ammetterlo
La proporzione del mondo è sfigurata;
Le due basi su cui poggiano
Premio e Punizione, sono andate per traverso.
E ahimé non si può più mettere in dubbio
Che la migliore delle bellezze, la proporzione, è morta.

Ecco i tratti manieristi: il ricurvo, la serpentina, lo sfigurato. È il trionfo della sproporzione, della deformazione.
Per Machiavelli, il tradimento si configura come tradimento di promessa, è quindi una parola mancata. È ciò che scoprirà Ludwig Biswanger nella dialettica dello schizofrenico: la sua parola è mancata in quanto afasica, in quanto autismo silenzioso, assenza di ogni “altro” interlocutore, o in quanto destrutturazione del linguaggio nelle forme del ritornello, della filastrocca, della stereotipia, dell'insignificanza. Il gesto manierista è allora un linguaggio in via di estinzione, una parola che diventa insensata.
Benjamin nel Dramma barocco parla di perversione allegorica, di simulazione, di finta…, lo stesso dispositivo del trompe-l'oeil è determinato dall'eccesso di segni. Benjamin riconduce ciò che chiama “la tragedia del Rinascimento” al necessario tendere verso l'estremo (il Kan und Will, “posso e voglio!” del Filidor di Caspar Stieler) che determina la questione fondamentale della “rovina del tiranno”.
Essa è sostanzialmente l'extrema ratio contro il rischio dell'assolutismo che vuole “un solo principe e un solo sole”; i principi devono evitare la vicinanza reciproca, come attesta il famoso motto “Praesentia nocet” con l'allegoria figurativa dell'eclisse solare.
La rovina del tiranno implica allora la sofferenza della maestà come tragedia martirologica: pensiamo all'ultimo grande manierista, El Greco, quel Domenico Theotocopoulos che, venuto da Creta a Venezia alla scuola del Tiziano,fu famoso a Toledo, prima come madonero, poi, senza più rivali, “El cristero”. Pensiamo alla tela dell'Espolio nella cattedrale di Toledo, con quel gigantesco Christus patiens, forse debitore anche al Bosch della Salita al Calvario dove il corpo è completamente smaterializzato sotto l'immensa macchia rossa della veste: manierismo sublime, non c'è più corpo, è tutto abito, una veste irreale, di fronte all'inesorabile della morte… E per il sentimento di lutto del Greco (Trauerspiel, gioco di lutto è infatti il dramma barocco ) rivediamo il grandissimo Entierro del Conte de Orgaz, i velluti neri, le trine delle gorgiere, il viso cadaverico del Conte deposto come un Cristo, le pieghe e le angolature rigide della corazza spagnolesca nera e oro: è la pompa funeraria come la immagina Luis de Gongora nei Sonetti funebri. “Maquina funeral, que desta vida nos decis la mudanza estando queda…”. Gongora che di El Greco compose anche il sonetto funebre: “Yace el Griego. Heredò Naturaleza arte, y el Arte estudio, Iris colores, Febo luces si no sombras Morfeo”.
La maniera del Greco, la più grande, sempre più allucinata, falcata, contorta, vertiginosa, avrebbe detto Biswanger. Deformazione del segno convenzionale, tradimento della classicità. Altre marche caratteristiche della maniera sono riconosciute da Benjamin nell'“Isolazione” e nella “Oscillazione/Discontinuità”. Egli scrive: “Il principe, per il quale la risoluzione si basa su uno stato di eccezione, mostra alla prima occasione che gli è quasi impossibile prendere una decisione. Come la pittura dei manieristi non conosce minimamente la composizione pacatamente illuminata, i personaggi teatrali dell'epoca sono presentati sempre nelle luci crude delle loro mutevoli decisioni. In essi si accavallano la sovranità ostentata attraverso le locuzioni stoiche e il tenace arbitrio di una perpetua bufera affettiva dentro la quale i personaggi si agitano come lacere bandiere. I personaggi del Greco, con la piccolezza delle loro teste…, non sono diversi da loro, perché a determinarli non sono pensieri, bensì discontinui impulsi fisici”.
C'è inoltre isolamento nei motivi, nelle scene, nei tipi; gli antagonismi vengono presentati in scene staccate (ecco la struttura di schisi), in cui “di solito l'ultima cosa è la motivazione” (perdita di senso generale).
Gli emblemi invece si affollano, il discorso si fa cifrato. “L'allegoria, nella sua forma elaborata, barocca, si porta dietro una corte; intorno al centro immaginario…, si raggruppa la folla degli emblemi. Essi sembrano ordinati ad arbitrio: La corte confusa – il titolo di un dramma spagnolo – può venir considerata lo schema dell'allegoria. `Dispersione' e `Raccolta': è la legge di questa corte. Le cose vengon messe insieme secondo il loro significato; la mancanza di partecipazione alla loro esistenza torna a disperderle. Il disordine della messinscena allegorica è, qui, il contraltare del boudoir galante”.
Prendiamo ora il Parmigianino e il suo lavoro giovanile Autoritratto allo specchio curvo; la particolare postura del braccio, avanzato anteriormente, ne fa un vero oggetto polisemico, deformato come in una misteriosa anamorfosi: protesi, arto fantasma, fallo, tentacolo, bordo, cornice…
Nel Parmigianino a colpire Biswanger è una particolare “flessuosità” delle forme, che in questa tela assume proprità quasi ameboidi, da piovra, in contrasto con la delicatezza del volto adolescente dell'artista, non scevra di ambiguità.
Ultima tela che ci sta a cuore: il Ritratto di Ugolino Martelli del Bronzino; di straordinaria eleganza, nonostante o forse a causa del cromatismo livido, forme allungate in verticale e testina rimpicciolita a simbolizzare una tensione verso il sublime disdetta appena da un tocco perverso di parziale effeminatezza. È un dipinto di grande qualità intellettuale. Caratteri stilistici squisitamente “traditori” sono l'orientamento obliquo del libro sorretto dalla mano sinistra come in equilibrio precario e l'indice destro puntato sul capoverso di un secondo libro aperto sul tavolo. La tela è marcata da elementi “freddi” come note architettoniche, lesene, architravi, l'inanimato di una statua; il drappo verde che ricopre il tavolo ha un lembo sollevato a rivelarne un angolo… È una nota acuminata, laterale, anomala: una piega diagonale, un angolo-pugnale. Il trionfo di questa obliquità enigmatica è suggellato dalla severità elegante dell'abito nero e dal pallore del viso imperturbabile, dove i tratti fisiognomici sono solo tagli sottili. Sadiani, gli occhi senza ciglia.
Une pose guindée”, ricorda Biswanger nel saggio che esamineremo, espressione francese originale che designa un atteggiamento artificioso, truccato… Il verboguinder (analogo al tedesco Winden che indica l'oscillare, come di vele al vento) significava originariamente l'innalzare la bandiera. È il simbolismo dello spostamento verso l'alto tipico della pittura manierista, omologo a quella forma di autoinnalzamento vertiginoso che Biswanger riconosce come tipica della maniera schizofrenica nell'esaltazione fissata. Il posto dell'ideale dell'io viene collocato a livelli irraggiungibili, così che il soggetto diventa impotente a realizzarlo. La “finta” esistenziale è di far credere al mondo che il suo progetto resta in piedi, mentre sta piombando nella caduta e nella disgregazione. Questa parte, che è sempre quella di un solista, trova un paradigma magistrale nel Costruttore Solness di Ibsen.
Biswanger pubblica a Tubinga nel 1956 un lavoro di grande interesse; lo intitola Tre forme di esistenza mancata. Le definisce esaltazione fissata (Verstigenheit), stramberia (Verschrobenheit), manierismo (Manierismus). Allievo di Bleuler, combina l'esperienza clinica condotta col maestro nella clinica psichiatrica di Zurigo con una inedita assimilazione delle idee di Heidegger e di Husserl. Avanza un nuovo approccio, definito “antropoanalitico”, alla malattia mentale, sostanzialmente ispirato a un'idea di fondo: il soggetto umano si trova “gettato” nel mondo in una condizione di immenso disagio psichico mitigata solo dalla capacità di “progettare” la propria esistenza per ritrovarvi un senso generale dialettizzabile col senso del pensiero umano. Se questo non avviene, si profila il crollo schizofrenico e le maschere manieriste sono un tentativo di mimetizzarlo. Biswanger si era interessato ai sintomi schizofrenici di una sudamericana, Lola Voss, un caso di “manierismo superstizioso”; conosceva molto bene, inoltre, i manieristi del Rinascimento, nonché l'opera teorica del gesuita spagnolo Baltasar Gracian sull'Agudeza o arte dell'ingegno. Egli riconosce essenzialmente al tratto manierista un valore emblematico di “posa”, lo stesso genere di posa artificiosa che ritrova nello schizofrenico: è una piega, una grinza, una smorfia. Guardando i ritratti del Bronzino, individua particolari emergenze significanti come una tendenza alla sottrazione, una sorta di obliquità, un effetto di “distanza”; questi tratti, accentuati dal freddo del metallo e della seta producono “un'impressione di inaudita, spettrale signorilità”.
Distanza, lateralità, maschera. “Il volto è una maschera che copre magnificamente, in modo inquietante, il vivente…”. La realizzazione artistica “alta” risente di un rigore “imposto”, degli impacci dell'abito, del corsetto, del cerimoniale della corte spagnola diventato ormai 'habitus': è il topos del cosiddetto “giardino geometrico”, forma “obbligante”, definita nell'estetica settecentesca come “spazio precostituito dell'ipotesi mentale e dell'intrigo”.
“Un gentiluomo posto di traverso, con lo sguardo che fugge anch'esso lateralmente…”.
Qualcosa si mostra come impenetrabile. Il traditore manierista fa la sua comparsa tramite un dispositivo di scena, si denota tramite allusione, con strutture di duplicità, maschere simulacri, simulazioni. Tutto ciò che trapela è involontario o indiretto: è l'arte anticlassica. Mentre nella stramberia nulla più è diritto, tutto va storto (celebre è la metafora della vite innestata obliquamente, così che l'avvitamento non può procedere e tutto si blocca), nel manierismo la perdita di mobilità è dovuta a una mancanza progettuale, a una carenza di aperture nella propria condizione di “essere-nel-mondo”, che obbliga all'assunzione di prospettive irrigidite.
La volontà di distinzione, di diversità può esaurirsi in un puro negativismo, dove la stereotipia dell'opposizione all'altro svela la radicale dipendenza.
Biswanger traduce sostanzialmente “manierato” e “maniera” con geschraubt (contorto) e Geschraubtheit; Bleuler aveva parlato di “linguaggio sui trampoli” (Stelzensprache) che esprime in forma bizzarra pretese enormi. È qualcosa di forzato, di innaturale, di costruito, di artificioso.
Tutto dà l'impressione di un pathos vuoto, che maschera l'incapacità di provare autentiche emozioni.
È il calcolo, l'affettazione, il pretenzioso, il lambiccato, l'agghindato. Nella buffoneria, invece, il soggetto gioca a fare il malato di mente o esprime la contraddittorietà della scissione con delle smorfie bizzarre. Biswanger riconosce in tutti questi sintomi altrettanti “modi di mancare l'esistenza” a causa di un degrado nel fondamento dell'“esserci”.
Celebri sono i casi clinici ch'egli cita: Lola Voss, nella quale la mobilità dell'esistenza si arresta in un gioco di ecolalie inarrestabili. Jurg Zund, il giovane che perde la sua grazia originaria, e non desidera altro che sprofondare nell'anonimato annullando la sua identità. Ellen West, presa da “una lotta disperata e senza prospettive tra il bisogno di mangiare e il suo ideale di snellezza, così da veder bloccate `tutte le uscite dal palcoscenico' della sua esistenza per riconoscere l'unica `uscita', l'unico `essere-davanti-a-sé' nella decisione di suicidarsi”.
“Esistere come maschera” è sostanzialmente la lettura biswangeriana della psicopatia schizoide: l'adozione della maschera presuppone uno “svuotamento” dell'esistenza, l'impossibilità di percepire l'autenticità di sé e del mondo, l'abbandono al nulla della paura e dell'angoscia. È davvero il tradimento totale, una consegna, una resa assoluta.
Fallito nella sua correlazione al reale, il manierista tradisce il mondo; lo tradisce presentando un'identità en travesti, una continua impostura. Escluso dal mondo, questo soggetto istrionico, da Illusion comique, giocando un continuo differimento di sé, può, nella migliore delle ipotesi, testimoniare con l'efficienza dello stile l'inefficacia dell'esistenza. È il caso dell'artista schizofrenico. Possiamo rispettare la sua malinconia. Scrive Sartre sul traditore: “L'Inumano è già la sua sorte… giacché egli non condivide i fini degli uomini. Lo situo, insomma,tra gli Indifferenti… ecco ciò che bisogna mascherare, incessantemente negare…”.
Il traditore, dell'amore, del partito o della vita “normale” è allora “la parte maledetta” di Bataille; la sua postura – eccedente, eccessiva – è sempre un “falso movimento”, una condizione e una dichiarazione di impossibilità. Può usurpare il segno del criminale, del politico, del poeta, oppure quello dell'amante o dell'eroe perdente, poiché il suo sapere oscilla sempre tra il polo patetico e il polo cinico del soggetto passionale o morale; in ogni caso non ha mai via di scampo. “Il tradimento non ha mai successo – diceva Brecht – perché se ha successo non si chiama più tradimento”.

*Pubblicato in La Ginestra. Rivista di Cultura Psicanalitica.Tradire. 1998.  Franco Angeli Editore

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