Questo scritto non ha mai visto la luce.
Custodito nel segreto per molti anni, ne sa, vagamente, qualche amico e Valeria Medda cui è stato offerto un po' di tempo fa. Da quel momento un solo pensiero: offrirlo – non offrirlo ma, soprattutto, come offrirlo. Nella sua interezza? Amputato? O……O.
Attentare al Pudore salvaguardando l'Origine o stendere un velo sul Nudo abbandonando l'Origine in cui così, proprio così, non separato, inseparabile si è pensato?
Lo scritto, un'elaborazione da un Seminario intitolato "Il Tragico e la Salute" cade, oggi, in un contesto in cui la riflessione epistemologica sembra scoprire nessi importanti fra la filosofia di Nietzsche e ilpercorso di Lacan.
A Hybris
Nell'esprimere gratitudine agli amici di mio figlio Nicola e a tutti coloro che gli sono stati accanto, voglio rendere omaggio alla sua memoria con alcune meditazioni. Che, almeno nell'intento, vorrebbero andare oltre la mia posizione di madre (troppo ingrata perché mi sia concessa l'immunità dalla retorica) per mirare più lontano. Ad alcune questioni, estremamente delicate, da offrire alla meditazione di coloro che avvertissero, assieme a me, l'esigenza di proseguire lungo una via capace di travalicare i limiti di un esperienza la cui complessità e ricchezza rischia di restare, altrimenti, muta.
Lungi dall'occupare la posizione di chi ha qualcosa da insegnare, questa “scelta” nasce piuttosto dalla consapevolezza che scrivere l'inscrivibile esige l'accesso a quel dono sublime che è la poesia di cui la natura non mi ha dotata.
Senza dimenticare tuttavia che il sublime non è soltanto il celeste, il culmine ma è anche l'orrore, il declino – ciò che uno scrittore di cose religiose chiamava ildemoniaco nella sua più superba trasfigurazione, nella sua transvalutazione.
Malgrado le riflessioni che seguiranno – della cui insufficienza sin d'ora mi scuso – dico subito a scanso di equivoci ma senza alcuna pretesa di scansarli davvero, che fare di mio figlio un martire o un eroe è un idea che mi ripugna. Mi ripugna nella stessa identica misura in cui mi appariva spregevole l'idea che ne avevo fatto, a suo tempo, un modello socialmente negativo.
Perpetuare, dopo l'evento, la logica della ricerca insensata della “colpevolezza” e dell'”innocenza”, della condanna e dell'assoluzione, è un modo di procedere superficiale.
Che cosa mi spinge a scrivere dunque?
Il rispetto per la persona – qualunque persona – quello stesso rispetto che mi ha indotta, dieci anni or sono, ad imprimere un mutamento radicale alla mia vita – malgrado ciò che questo comportava – mi impedisce di far si che la tragicità dell'atto di Nicola assuma la forma grottesca di un fatidico incidente, di un giuoco insensato e arrischiante di un ragazzo “irresponsabile”.
L'estrema dignità, il rigore etico, l'amore appassionato per la Vita – e persino il rischio – che ho sempre riconosciuti a Nicola come i doni più preziosi della sua natura, come quel punto di forza in cui vago si fa – sino all'evanescenza – il confine che separa la ricerca di una dimensione escatologica dalla Morte, mi impediscono di pensare questa morte come un semplice “giuoco” per riconoscere in essa il segno inquietante di una ricerca affannosa e indefessa: la ricerca di un Assoluto che il nichilismo da cui è affetta l'epoca nostra rende sempre più acuto e irrinunciabile.
So bene che le cose che dirò possono essere fonte di scandalo ma sapere che uno degli scrittori più religiosi – della cui traccia il pensiero serba viva memoria – diceva essere la fede il solo vero scandalo, il solo paradosso assoluto, è per me ragione di consolazione.
Se per formazione sono poco incline a credere a “Dio” e a pensare la Vita – e con essa la Morte – quali strumenti idonei a schiudere l'accesso al divino, è perché credo che il nome di quel Luogo inaudito che si suole evocare dicendo “Dio”, non sia altro che un modo d'evocazione di quello stesso Luogo insondabile che è, per ciascuno di noi, la Morte. Così quell'Assoluto che è la Morte non è altro che la prova – forse la più autentica – dell'esistenza di “Dio”.
Ciò può forse rendere ragione del fatto che l'Amore per questo Assoluto – senso e passione suprema della vita stessa – coincida con un punto d'angoscia estrema, indefinitamente rinviato. Ciò che si chiama “vita” è il miracolo di questa acrobazia rinviante di cui Eros e Thanatos restano i soli veri protagonisti.
Sono consapevole della misura in cui questi pensieri contrastino con una certa immagine di Nicola, con quella sorta di paradigma di trasgressione che una qualche parte dell'opinione pordenonese benpensante ha creduto bene coltivare non senza, bisogna dire il di lui “deliberato” consenso.
Una semplice frase di O. Wilde: “ Il vizio supremo è la superficialità ….” Potrebbe essere un invito a cogliere ciò che si cela dietro la maschera della “violenza” per imparare a riconoscere l'esistenza di un legame indissolubile fra la violenza e il sacro. Per sapere che le “nature violente” sono al tempo stesso le più delicate e, di fronte al mondo, disarmate.
Ciò che ci dice Sofocle in quella superba tragedia L'Edipo, è che se Edipo uccide Laio è perché Laio aveva cercato, a suo tempo di uccidere Edipo. Ma non è questione di padri. Le giocaste che ingombrano l'universo non sono più pie. Né lo sono avoli e trisavoli, parenti e confinanti, amici e amici degli amici, educatori, preti, suore, medici e psicanalisti.
E dunque? È forse questo un delirio di “colpa” universale? Un esigenza di generalizzare la “colpa” azzerandola allo scopo di placarne il peso schiacciante, individuale?
Ebbene no. Solo una tenue speranza e un auspicio a cessare di pensare il mondo, gli eventi, nei termini della relazione causa-effetto, per intravedere all'orizzonte quell'enigma che si chiama contemplazione e che resta la vera essenza di ogni teoria.
Occorre più coraggio per vivere o per morire?
Se vivo non è perché ho già risposto ma perché non so rispondere. Ci sono un infinità di cose che ignoro. Ma c'è qualcosa che non senza un' pò di immodestia presumo di sapere: decidere di mettere al mondo dei figli o decidere, con volontà deliberata, di non farlo sono entrambe due mostruosità: di segno diverso ma non contrario.
Per questo vacilliamo fra generosità e avarizia. Per questo i nostri piccini sono i teneri trastulli con cui recitiamo, a turno, le parti di “mamma” e “papà” diventando talvolta noi stessi figli dei nostri figli e padri dei nostri padri.
Al lettore, |
scrivo e la neve dolcemente cade. Le chiederei, se potessi, di infondere a questo libro la levità e l'eleganza delle sue movenze, la grazia del suo gesto, la grevità e compattezza del suo candore. Di trasmettermi il miracolo di cantare l'orrore senz'esserne preda, di guidarmi lungo i sentieri velati del “vero” con audacia e dedizione, con leggerezza e temperata passione.
Con crudeltà e spietatezza, senza livore ma con il lucido candore dei rei. So di chiedere troppo e dichiaro la disponibilità ad accontentarmi di meno, infinitamente di meno.
Ciò che chiedo al lettore è di farla propria, se gli riesce. Senza contratture, senza spasimi ma senza compassione. La trovo detestabile, umiliante, superflua. Centomila volte meglio la nobiltà della pietas o l'ingiuria più volgare.
Ciò che gli domando, ancora, è di accostarsi a questo libro placando temporaneamente quell'arsura che precipita gli umani alla ricerca dell'origine – il Tragico – prima ch'essi sian pronti a coglierne davvero l'essenza. Con l'esito di mutare l'impulso più violento e diabolicamente inscritto nell'umana “natura” in una turpe velleità mondana, avida di “notizie” e di “scandali”.
So di non chiedere poco, so essere vano sperare che s'avveri. Non di meno lo chiedo consapevole che comunque, rinunciare a scrivere mi sarebbe impossibile. Non già perché la scrittura sia fonte di sollievo ma per una ragione diversa, infinitamente più “vitale”, più radicale. Nel senso di necessaria, vale a dire conforme a quella vita che è la “mia”. Non già in quanto io la possegga ed essa m'appartenga ma in quanto ne sono, propriamente parlando, “posseduta”.
Nel senso dell'obbedienza che le devo. Al di fuori di questa obbligazione nulla potrebbe giustificare un libro come questo: nemmeno la stupidità malgrado la sua smania di giustificare persino l'esistente.
Né basterebbero, d'altronde, a giustificarlo, la mia condizione di madre e di donna o la mia “professione” di psicanalista. Chè, al contrario, sono proprio queste due condizioni, nel loro avvicendarsi, a decretarne l'improponibilità a dissuaderne la stesura.
Se la prima condizione infatti mi impedisce di guardare con “freddo sguardo” ad un evento così tragico, ripugna alla seconda interrogarsi su questo evento come si trattasse di un “caso clinico”.
Nulla può dunque redimere questo libro. Non lo potrebbe neppure la morte. Nemmeno la morte di Hybris cui pure questo libro è dedicato. Se non fosse chequesta morte mi riguarda e da vicino. Non solo nel senso che mi tocca ma nel senso che essa guarda, una volta ancora, alla “mia vita” esigendo da essa qualcosa di estremamente preciso: che essa continui ad essere, nel futuro, ciò che è stata.
“Ciò che è stato sarà” – scriveva uno degli scrittori più grandi che la storia della filosofia annovera fra i Maestri del pensiero. “Ciò che è stato sarà”: significa la capacità di assumere in ciò che il futuro riserba la “verità” – quale che sia – del proprio passato per riconoscerne la melodia nelle azioni di coloro che di un tale passato restano eredi per esserne stati un tempo protagonisti.
Se parlare di determinismo psichico ha senso, tale senso risiede unicamente nel fatto che la nostra “libertà” consiste nell'impossibilità di liberarci davvero di quel che noi siamo.
“Ciò che è stato sarà” vuol dire, ancora, che come madre sono chiamata a rispondere dell'atto di mio figlio: tale atto mi chiama direttamente – letteralmente incausa. Perché nessuno, si sa, è causa sui. Senza bisogno di scomodare “Dio”.
Nietzsche coglieva nel segno nel presentire e paventare la definitiva scomparsa del Tragico allorché alludeva al “grido di dolore” che si sarebbe levato sulla terra a causa un tale oblio.
Ciò che fa della storia di Hybris una storia tragica non è la sua morte violenta ma il fatto che un simile evento sia stato privato di dignità e di senso. Rianimare questo senso, restituire all'atto la dignità che gli appartiene prima che l'opera disinteressata dell'oblio ne cancelli le orme; è uno dei compiti di questo libro.
Il tre settembre 1988 Hybris poco più di sedici anni – pone fine alla sua vita gettandosi dal nono piano della casa paterna. Il giorno in cui accade l'evento la madre lo attende a Padova per le ore diciassette e trenta. Hybris dovrebbe giungervi con il Romulus. Non arriverà mai. Il viaggio a Padova non era uno dei soliti viaggi. Era, quel viaggio, un allontanamento definitivo dalla casa paterna, dagli amici, dal luogo in cui egli era sempre vissuto. Con il suo gesto dice di no. Ciò che esige da lui questa “scelta” è un impossibilità, duplice: gli è impossibile continuare a vivere nella dimora paterna, gli è impossibile stabilirsi definitivamente a Padova, da sua madre. Fra due vie che per ragioni del tutto diverse gli appaiono egualmente impraticabili, egli imbocca la via di un Altro luogo.
La morte di Hybris non è un suicidio ma è un omicidio. Non già – o non soltanto – nel senso dell'affermazione freudiana secondo cui ogni atto rivolto contro la propria persona sarebbe un atto rivolto contro qualcun altro.
Il suicidio è sempre anche un omicidio perché l'atto suicida testimonia di qualcosa che è dell'ordine di una impossibilità a vivere.
E allora se vivere può diventare per qualcuno una impresa impossibile, occorre che di una tale impossibilità si risponda, che l'Altro risponda. Che ne rispondano prima di tutto coloro che, pur nella consapevolezza di aver pro-creato – di aver creato per la Morte – hanno tuttavia osato affidare alla Vita il compito di realizzare il suo autentico destino.
Perché, in fondo, che cosa potrebbe giustificare tanto brusio, tanta indignazione a proposito della violenza – fisica e non – se non il più totale misconoscimento di ciò che pure si sa: che dare la vita a qualcuno significa sempre votarlo alla Morte. Se non il fatto di sapere che questo è il vero Crimine impunito giacchè punirlo comporterebbe la punizione di “Dio”: l'annientamento del creato.
Non ne siamo lontani. C'è il rischio di smarrirsi nei meandri, di perdere la via maestra e di raccogliere da queste riflessioni solo qualche ortica.
Forse nemmeno una ricetta su ciò che un padre dovrebbe essere per essere un padre, su ciò che una madre dovrebbe essere per essere una madre, su ciò che un uomo e una donna, insieme, dovrebbero essere per inaugurare un matrimonio ideale.
Perché non ricordare al lettore che “la terra ha una pelle; e questa pelle ha malattie” e che una di queste malattie si chiama “uomo” (N. Zarath., p. 159). E che la patologia “uomo” non può che generare altra patologia, senza eccezioni di sorta malgrado gli esiti differenziati di ciascuna singola sorte.
Come curare l'uomo dalla patologia “uomo”? Come “guarire” l'uomo da se stesso?
Questo suicidio (omicidio) poteva essere evitato. Ma questo suicidio (omicidio) non poteva essere evitato. E forse non “doveva”.
Come madre ho tutto da rimproverarmi. Come madre non ho nulla da rimproverarmi.
Come psicanalista ho – da sempre – un incalcolabile numero di domande da pormi, da porre.
Appunti per una clinica della psicanalista.
NIETZSCHE “PSICOLOGO”
Per una psicanalisi dell'avvenire.
Come fare psicanalisi col martello.
PARLA IL MARTELLO
“Perché così duro? – disse una volta il carbone al diamante: non siamo forse parenti stretti?”. |
Perché così molli? Fratelli miei, questo io lo chiedo a voi: non siete forse – i miei fratelli? |
Perché così molli, così cedevoli e arrendevoli? Perché nei vostri cuori è tanta negazione, rinnegamento? Così poco destino nel vostro sguardo? |
E se non volete essere destini e inesorabili: come potreste un giorno, insieme a me – vincere? |
E se la vostra durezza non vuole lampeggiare e scindere e tagliare: come potreste un giorno, insieme a me – creare? |
Tutti i creatori infatti sono duri. E dovrà parervi beatitudine, premere la vostra mano su millenni come su cera; |
– Beatitudine scrivere sulla volontà di millenni come su bronzo – più dura che bronzo, più nobile che bronzo. Solo le cose più nobili sono veramente dure. |
“Questa nuova tavola, o miei fratelli, io pongo sopra di voi: divenite duri!”. |
(Così parlò Zarathustra, 3, 90) |
Mi è impossibile scrivere alcunché. |
Un atto di venerazione?
Un orgoglio irriducibile che al rischio cosciente di una pessima copia preferisce l'originale all'originalità?
Una fantasia convalescente?
O forse l'aver riconosciuto nel dire di questo tentatore, santo, buffone, la sola tonalità confacente allo scopo.
Il pericolo è grande: il compito – scrivere un libro sulla psicanalisi – potrebbe essere mancato o, quand'anche non lo fosse, non sarà mai all'altezza di un tale esordio, né, d'altronde, di nessun altro. Perché Così parlò Zarathustra è la CLINICA del MAESTRO.
Il “mio” libro dunque, il solo che avrei desiderato scrivere, è già stato scritto.
Nel febbraio del 1900 S. Freud scriveva a Fliess:
“Ho appena comperato Nietzsche, nel quale spero di trovare le parole per tutto quanto in me resta muto, ma non l'ho ancora aperto”.
E Friedrich Nietzsche: “Un qualche giorno si sentirà il bisogno di istituzioni che permettano di vivere e di insegnare come io intendo il vivere e l'insegnare: e forse allora saranno istituite cattedre dedicate alla interpretazione dello Zarathustra. A sarei in piena contraddizione con me stesso se mi aspettassi di trovare già oggi chi porga orecchi e mani per le mie verità….”.
Sono passati circa cent'anni e un secolo non è poco. E poiché sarebbe ingenuo attendersi dalle cattedre una interpretazione attendibile dello Zarathustra, tanto vale, in mancanza di meglio, fare un po' di credito a questi pensieri. Perché “è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la risputi”.
Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?
Chi è lo psicanalista ? hi credesse, nell'accostarsi a questo libro di trovarvi delle risposte esaustive o delle argomentazioni dimostrative farebbe bene ad orientarsi altrove. Se fosse sedotto dalla curiosità di trastullarsi con una interpretazione della psicanalisi in “chiave nietzschiana” o, peggio ancora, con la “ricostruzione di un caso clinico” in “chiave psicanalitica” è pregato, gentilmente, di desistere.
Chè, per avere l'audacia di interessarsi al Signor Nietzsche da un punto di vista “clinico”, occorrerebbe avere la voglia, la forza e l'umiltà di riconsiderare la clinica nell'ambito di una prospettiva più generosa, nell'ambito del concetto di Cultura inteso nietzschianamente, metafisicamente.
Un'impresa la cui eredità è indicibilmente pesante per il furore moderno smanioso di intelligenza e avarissimo di genio. Il genio e la scienza un sodalizio impossibile – lo ha detto Kant, lo ha ribadito Shopenhauer, lo ha gridato Nietzsche – perché il genio con la scienza non ha niente a che fare.
Il culmine e il declino dell'insegnamento di J. Lacan può essere condensato in un celebre enunciato: “L'analista non si autorizza che da sé e di sé”.
C'è qualcosa che Nietzsche chiamava la “rancune della grandezza”. Consiste nel fatto che un'azione, un'opera, si rivolga contro il proprio autore. E' qualcosa di stritolante – “la solitudine ha sette pelli”-. Più alto è il compito da cui l'atto scaturisce, più esso rischia di diventare insostenibile per il soggetto che lo compie.
“Il colloquio a tu per tu con un grande pensiero è insopportabile. Cerco e chiamo uomini ai quali poter comunicare questo pensiero senza che ne muoiano”.
“Dopo un tale richiamo scaturito dagli abissi dell'animo, non udire alcun suono di risposta è un'esperienza tremenda di cui anche l'uomo più forte può perire: questo
mi ha liberato da ogni rapporto con gli uomini vivi”.
“Procurarmi un piccolo circolo di uomini pronti ad ascoltarmi e a comprendermi – ed io sarò sano”.
“Con un centinaio di uomini educati in tal modo non moderno, ossia divenuti maturi ed educati all'eroico, si può oggi ridurre all'eterno silenzio tutta la chiassosa pseudocultura di questo tempo”. (V. III° p.312)
A Lacan cento psicanalisti mediocri parvero decisamente troppi perché fosse possibile trovare un'unità sul senso da accordare all'esperienza psicanalitica. E Freud, una volta pago del suo “splendido isolamento”, ne fiutò il pericolo cercando di fronteggiarlo con la creazione di un'istituzione psicanalitica perfettamente conforme ai requisiti che governano la psicologia delle folle, la chiesa e l'esercito.
“Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo? Questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre più”.
Nietzsche non rinunciò mai a fondare una comunità umana, un ordine che fosse capace di accogliere il suo messaggio, la sua aspirazione irriducibile. La sua fu un'esperienza condotta al limite del possibile in cui egli fece di se stesso un esperimento. Andare sino al limite del possibile esige uno scambio, una comunità. Nietzsche non la trovò mai.
E G. Bataille la ritrova con Nietzsche:
“Io vivo, a ben vedere, in mezzo a uomini strani, ai cui occhi la terra, i suoi casi e l'immenso giuoco degli animali, mammiferi, insetti, sono più alla misura dell'illimitato, del perduto, dell'inintellegibile celeste, che di se stessi o delle necessità da cui sono limitati. Per questi ridenti essere il signor Nietzsche è in teoria un problema secondario…ma c'è…
Questi uomini, evidentemente esistono poco…bisogna che lo si dica subito. Con poche eccezioni la mia compagnia sulla terra è quella di Nietzsche. Blake e Rimbaud sono grevi e adombrati. L'innocenza di Proust, l'ignoranza dei venti esteriori, nella quale volle tenersi, lo limitano. Soltanto Nietzsche si è reso mio compagno dicendo “noi”. (37)
Se Lacan avesse avuto una percezione acutissima del legame fra la “rancune della grandezza” e la natura dell'atto psicanalitico non avrebbe avuto alcun motivo di sostenere con tanto accanimento e devozione la necessità di un'istituzione analitica tradizionali.
La Proposta del 9 ottobre 1967, introduttiva della procedura della passe (la testimonianza del passaggio dalla posizione dell'analizzante a quella dello psicanalista), è la prova decisiva dell'artificio con cui Lacan ha cercato di sedare l'angoscia legata ad una percezione implacabile: il rischio connesso con l'attopsicanalitico. Lacan sapeva bene, per esserne stato l'autore, che l'atto psicanalitico, quando sia tale davvero, è uno di quegli atti che può rivolgersi contro il proprio autore in misura pari al suo grado di autorevolezza. Perché è bene dirlo subito, ad autorizzarsi da sé non c'è che il genio. – colui che genera.
La psicanalisi come “terapia” è il surrogato fallimentare di ogni atto di autorizzazione che non sia tale. Di qui la sua straordinaria diffusione.
LA PSICANALISI COME TEORIA EVOLUTIVA
Della Wille ZUR Macht
Amici miei, di che mi preoccupo dunque da molti anni? Mi sono sforzato di pensare il pessimismo a fondo, per liberarlo dall'angustia e dalla scempiaggine mezzo cristiane e mezzo tedesche, in cui esso mi era venuto incontro la prima volta nella metafisica di Shopenhauer: sicchè l'uomo di questa mentalità è cresciuto attraverso la più alta espressione del pessimismo. Ho parimenti cercato un ideale opposto – un modo di pensare che è il più baldanzoso e affermativo di tutti i possibili modi di pensare: lo trovai nel pensare sino in fondo la concezione meccanicistica del mondo; ci vuole veramente il miglior umore del mondo, per reggere a un tal mondo dell'eterno ritorno, quale ho insegnato io attraverso mio figlio Zarathustra – cioè noi stessi compresi nell'eterno “da capo”. Alla fine mi risultò che il modo di pensare più negatore del mondo fosse, di tutti quelli possibili, quello che dice già cattivo in sé il divenire, il nascere e perire e che afferma solo l'incondizionato, l'uno, il certo, l'ente; trovai che Dio è il pensiero più distruttivo e nemico della vita di tutti i pensieri, e che solo per la mostruosa mancanza di chiarezza di tutti i buoni credenti e metafisici di tutti i tempi il riconoscimento di questa “verità” si è fatto attendere così a lungo”.(166-67)
“E sapete anche cos'è per me il “mondo”? Ve lo devo mostrare nel mio specchio? Questo mondo: un mostro di forza, senza principio e senza fine, una salda, bronzea massa di forza, che non diviene né più grande né più piccola, che non si consuma ma soltanto si trasforma, in complesso di grandezza immutabile, un'amministrazione senza spese né perdite, ma del pari senza accrescimento, senza entrate, un mondo attorniato dal “nulla” come dal suo confine, nulla che svanisca, si sprechi, nulla di infinitamente esteso, ma come una forza determinata è collocato in uno spazio determinato, e non in uno spazio che sia in qualche parte “vuoto”; piuttosto come forza dappertutto, come giuoco di forze e onde di forza esso è in pari tempo uno e “plurimo”, che qui si gonfia e lì si schiaccia, un mare di forze tumultuanti e infurianti in sé stesse, in perpetuo mutamento, in perpetuo riflusso delle sue figure, passando dalle più semplici alle più complicate, da ciò che è più tranquillo, rigido e freddo a ciò che è più ardente, selvaggio e contraddittorio, e ritornando poi dal molteplice al semplice, dal giuoco delle contraddizioni fino al piacere dell'armonia, affermando sé stesso anche in questa uguaglianza delle sue vie e dei suoi anni, benedicendo sé stesso come ciò che ritorna in eterno come un divenire che non conosce sazietà, disgusto, stanchezza: questo mio mondo dionisiaco del continuo creare sé stesso, del perpetuo distruggere sé stesso, questo mondo di mistero dalle doppie voluttà, questo mio al di là del bene e del male, senza scopo, se non c'è uno scopo nella felicità del circolo, senza volontà, se un anello non ha buona volontà verso sé stesso – volete un nome per questo mondo? Una soluzione per tutti i suoi enigmi? Una luceanche per voi, i più celati tra gli uomini, i più forti, i più impavidi, i più notturni? – Questo mondo è la volontà di potenza – e nient'altro! E anche voi stessi siete questa volontà di potenza – e nient'altro! (292-93)
“La mia nuova concezione del pessimismo consiste nella volontaria esplorazione dei lati terribili e problematici dell'esistenza; con questo mi divennero chiare le figure affini del passato. “quanta verità sopporta e osa uno spirito” Problema della sua forza. Un tal pessimismo potrebbe sbloccare in quella forma di affermazionedionisiaca del mondo così com'è: fino al desiderio del suo assoluto ritorno e della sua eternità: con ciò sarebbe posto un nuovo ideale di filosofia e di sensibilità. Intendere i lati dell'esistenza sinora negati non solo come necessari, ma anche come desiderabili e non solo desiderabili in rapporto ai lati affermati sinora (per esempio come loro complemento e condizioni preliminari), ma anche per sé stessi, come i lati dell'esistenza più possenti, più fecondi, più veri, in cui la volontà di questa si esprime più chiaramente.
Valutare i soli lati dell'esistenza finora affermati: isolare ciò che in tali casi propriamente dice di sì (l'istinto dei sofferenti anzitutto, l'istinto del gregge d'altra parte e quel terzo istinto: l'istinto dei più contro l'eccezionale). Concezione di un tipo superiore d'uomo come “immorale” secondo i precedenti concetti: gli appigli in tal senso nella storia (gli dei pagani, gli ideali del Rinascimento). (p. 107)
“La misura della forza di volontà è data dal grado fino a cui si può fare a meno del senso entro le cose, fino a cui si riesce a vivere in un mondo privo di senso …” (27)
Il mio impatto con la psicanalisi è avvenuto in modo brusco: qualcosa all'ordine di un evento, imprevisto, prevedibile. Un improvviso risveglio, un terremoto squarciò
D'un lampo la “selva oscura” in cui proprio “nel mezzo del cammin”, mi ero smarrita percorrendo ostinatamente una via che non era la “mia”.
Fu una “grande separazione” segnata, da subito, da una irreversibilità ineluttabile.
Della psicanalisi avevo una certa idea che se non corrispondesse alla realtà dei fatti, non esiterei a chiamare un pregiudizio. L'idea che fosse affetta da un'estrema angustia d'orizzonte, da un'eccessiva miopia cui avrei preferito – lo confesso- la mia miseria mitigata, magari, da un po' di filosofia.
Sinchè un giorno una certezza, una di quelle certezze “apocalittiche” che non c'è modo di definire né vere né false ma di cui si può solo dire che sono, mi si presentò fulminante: il “desiderio dello psicanalista”, di cui in quegli anni si parlava non senza un certo imbarazzo negli ambienti “lacaniani” era ciò che Nietzsche aveva chiamato “Wille zur Macht” – Volontà di potenza.
Tremai lì per lì che si trattasse di un'idea folle – Amleto, c'è qualcuno che lo capisce? Non è il dubbio, è la certezza che fa diventare pazzi” – intravedendone già gli effetti: l'affermazione di un'identità fra la posizione dello psicanalista e l'Uber Mensch nietzschiano.
Fu per questa idea fondamentale che qualcosa come la psicanalisi potè sedurmi: Poco mi ci volle ad accorgermi che la stragrande maggioranza dei testi psicanalitici che andavo diligentemente sezionando – eccezion fatta per alcuni “grandi” – parevano congegnati in modo tale da impedirmi di varcare la soglia che porta al di là dell'ignavia.
L'idea raccapricciante di essere punzecchiata da vespe e mosconi e di versare il mio sangue per una “causa” votata al nutrimento di luridi vermi non mi allettava affatto dato che la mia appassionata solidarietà con il poeta della Divina vantava antiche origini.
Che io abbia potuto riconoscere in Nietzsche e nella sua “filosofia” un formidabile Maestro di psicoanalisi è un stravaganza terribilmente seria che merita un rapido cenno:
“Tutta quanta la psicologia è rimasta sino ad oggi sospesa a pregiudizi e apprensioni morali; essa non ha osato scendere nel profondo. Concepirla come morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza, come io lo concepisco: – questo non è stato da nessuno neppure sfiorato col pensiero: stando al fatto cioè, che ci è consentito di riconoscere, in quel che finora è stato scritto un indizio di quel che finora è stato taciuto”. (Al di là, P; 28)
“… e lo psicologo potrà perlomeno, pretendere che la psicologia sia nuovamente riconosciuta signora delle scienze, al servizio e alla preparazione della quale è destinata l'esistenza delle altre scienze. La psicologia infatti è ormai di nuovo la strada per i problemi fondamentali”.
Sconcertante ma vero: concepire la psicanalisi come morfologia e teoria della volontà di potenza”.
Nietzsche non poteva sapere che qualcuno avrebbe osato scendere in profondità dopo di lui: “Si nequeo flectere Superos Acheronta movebo” – tale è l'esergo, virgiliano, posto da Freud all'inizio de “L'interpretazione dei sogni”.
Ma Nietzsche ha osato di più – infinitamente di più. Anche a costo di incerare un suo caro vecchio enunciato:
“I maestri di prim'ordine si fanno riconoscere dal fatto che così nel grande come nel piccolo sanno trovare in modo perfetto la fine, sia questa la fine di una melodia o di un pensiero, sia quella dei cinque atti di una tragedia o di un affare di stato…” (La Gaia scienza, 163)
Ciò che attualmente viene chiamata “psicanalisi” è terapia – malgrado le indignazioni (puro giuoco di “prestigio”) e i rinnegamenti; né freudiana né post- freudiana, né lacaniana ma pre-freudiana. Non è forse qui che va ricercato il senso del “ritorno a Freud” inaugurato la Lacan – come ritorno al Tragico in un orizzonte “culturale” in cui il suo affossamento è un fatto compiuto?
La fine perfetta che Nietzsche ha saputo trovare per il suo pensiero è – da quel grande maestro che era – è lo svelamento di una verità che alla “ragione” deve restare inaccessibile perché intollerabile: l'uomo non è in grado, non ha la forza di sopportare la verità che riguarda l'uomo – la “ragione” si fa “sragione”.
Pensare la psicanalisi come una teoria della Wille ZUR Macht significa operare un sovvertimento prospettico del concetto di clinica e del concetto di cura.
La significazione medica del termine “clinica” risale al significato greco di Klinikos: che si fa presso il letto, derivando, a sua volta, da kline = letto e, più in generale, tutto ciò su cui ci si può distendere , adagiare. Di qui l'uso del sostantivo per indicare il medico che insegna ai suoi discepoli presso il letto dell'ammalato.
Clinica è dunque, in senso medico, malattia e, in gergo psicanalitico, l'uso del lettino su cui s'adagia il soggetto, testimonia di un'invarianza affatto innocente. E come il medico cura l'ammalato, lo “psicanalista” assume la “direzione della cura” del paziente.
Lo psicanalista Chi è?
La distribuzione della coppia malattia-salute trova in questi tipo di concezione – superata a parole, intatta nella teoria – uno dei suoi punti d'ancoraggio nonché il proprio asservimento.
Che “sano” e “malato” non siano che una questione di prospettiva, lo sapeva anche Freud, troppo onesto per non riconoscere nella sua creazione il prodotto della sua “malattia”, di quell'irruzione – flusso di forza incoercibile che tanto gli fece amare Faust rendendolo debitore di Goethe.
La psicanalisi può crescere come cura della patologia solo per aver avuto origine nella “malattia” di Freud – cui si deve.
Ciò che fa di Nietzsche il “precursore” di Freud è il vincolo esistente fra le loro rispettive opere e la “malattia” che le ha generate. Senza indugiare nell'equivoco: la “malattia” capace di generare simili mostruosità è un tratto del genio.
La psicanalisi è, sin dall'origine, una tale mostruosità. Essa è ormai giunta alla sua fine prima ancora di nascere – prima di raccogliere davvero gli effetti di un pensiero una prima volta pensato ma la cui assunzione appare intollerabile: si tratta del pensiero del ritorno che solo l'Uber Mensch può sopportare:
“E ora racconterò la storia dello Zarathustra. La concezione fondamentale dell'opera, il pensiero dell'eterno ritorno, la suprema formula dell'affermazione che possa mai essere raggiunta – , è dell'agosto 1881; è annotato su di un foglio, in fondo al quale è scritto: “6000 piedi al di là dell'uomo e del tempo”. Camminavo in quel giorno lungo il lago di Silvaplana attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino a Surlei, mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero”.
“… Cielo! Chissà quello che mi sovrasta che forza dovrei avere per sopportarmi! Non saprei dire con precisione come ci potrò arrivare – ma può essere che per la prima volta mi sia venuto il pensiero che scinde in due la storia dell'umanità.
Questo Zarathustra non è che un prologo, preambolo vestibolo – ho dovuto farmi forza da me, poiché ero scoraggiato da tutti: farmi forza per portare quel pensiero! giacchè sono ancora ben lungi dal poterlo formulare e rappresentare. SE SARA' VERO, o meglio se sarà CREDUTO VERO – allora tutte le cose saranno modificate e rovesciate, e tutti i valori sinora prevalenti saranno valorizzati…” (Lettera a Overbeck datata Nizza, primi marzo 84')
Il pensiero del ritorno: un lampo, l'effetto di quella “malattia” per la quale anche l'uomo più forte può soccombere – Nietzsche la chiama “nevrosi della salute” e, com'è nel suo stile, passa maliziosamente il rompicapo ai “diagnostici che, dal canto loro, rinvengono distrattamente la pseudo guarigione che spesso si verifica nelle “psicosi”.
Si vive quotidianamente nella micromania.
Nietzsche non ha mai interessato davvero gli “psicanalisti” – eccetto Freud per poco o tanto che lo conoscessero; Lacan lo ha trascurato – volutamente? – dedicandogli qualche cenno irrilevante, inessenziale.
Tale silenzio – censura non avrebbe dell'i9ncredibile se non fosse che proprio a costoro, più che ad altri, si rivolge una testimonianza unica.
La storia di un suicidio.
SENTIERI DI UN PENSIERO VAGABONDO
Non occorre, invero, molto. Basta uno sguardo distratto, un orecchio anche modesto e una certa insofferenza per cogliere, nella ormai secolare tenzone sullo statuto epistemologico della “psicanalisi”, un che di limaccioso, di sospetto. Le antiche acrimonie e il livore infuocato della contesa epistemologica si vanno via via smorzando in una stereotipia di forme affievolite che la avvicinano, ormai sempre più, ad un “cerimoniale”.
La domanda radicale concernente la questione del fondamento – la psicanalisi è una scienza? O una filosofia (metafisica)? O una religione? O un arte? O … che altro? – sembra rimbalzare su sé stessa per far largo ad una strategia della rassegnazione tesa a pacificare l'angoscia legata alla mancanza di fondamento e una pratica quotidiana già avviata …
In attesa di un deus ex machina solutore dell'enigma:
lo psicanalista chi è? |
La psicanalisi che cos'è |
Nell'accarezzare queste due domande non è improbabile che si sfiori un Luogo ad alto potenziale di rischio. Ma tant'è.
I quattro concetti fondamentali della psicanalisi – i transfert, la pulsione, l'inconscio, la ripetizione – e l'abilità a “manovrarli” (come si dice di taluno in un gergo troppo militaresco per non tradire lo “status” di uno stile) non bastano a dissuaderci dall'impresa. Né si può fare impunemente dell'”ignoranza dotta” la forma più elaborata del sapere per legittimare una professione il cui grado di dispendio e di esecrabilità è segnalato, fra l'altro, dal vertiginoso successo della “costruzione dei casi clinici”.
Che cos'è la CLINICA? Che cos'è una CURA?
CHI cura CHI? Da che cosa e in vista di che? Già. |
Il furore dimostrativo della clinicomania, perla del pensiero mercantil-calcolante, nasce e si rapprende ogni qualvolta all'assenza di fondamento si tenti di ovviare con un fondamento presunto: forse che il metodo della dimostrazione non è appannaggio della scienza? Forse che la psicanalisi allora è davvero una scienza? L'enigma sarebbe dunque risolto? E se no, perché vagabondare senza requie per sentieri fuorvianti?
C'è sempre là dietro, di lato, là in fondo, davanti, la minacciosa accusa di velleitarismo o, qualche passo più in su, l'adescamento della seduzione religiosa. Con quella bagarre che è sempre stata l'arte le cose sono più facili perché quand'anche il terreno scientifico si sfaldi sotto i piedi a colpi di martello essa è sempre generosa a levarci dagli impicci.
Con Freud si giuoca allo smembramento e alla successiva incorporazione – a seconda dei gusti: il “Progetto di una psicologia scientifica” o “Il poeta e la fantasia”? Il primo Freud o l'ultimo? (purchè si escluda l'Uomo Mosè). Decisamente meno reclamato il Freud intermedio di Totem e tabù e di Al di là del principio di piacere.
Non c'è di che sorprendersi, la grandezza di un pensatore è inversamente proporzionale al suo grado di fraintendimento. In tempo d'indigenza l'eredità una faccenda tanto più seria quanto più essa pecca di sovrabbondanza.
Per fare un primo passo sulla questione epistemologica occorre partire da molto lontano. Dalle origini della filosofia greca e dallo sviluppo delle scienze quale tratto peculiare e distintivo della filosofia.
Ne dibatte Heidegger in una conferenza tenuta nel 1946 intitolata La fine della filosofia e il compito del pensiero.
La tesi – di estrema importanza – ivi sostenuta e a partire dalla quale Heidegger giungerà ad enunciare la questione fondamentale è, schematizzando, la seguente: la filosofia (metafisica) è giunta alla sua fine cioè al suo compimento senza tuttavia aver raggiunto la sua massima compiutezza e perfezione in rapporto alle proprie potenzialità.
La prima datazione di un tale evento risale alla filosofia greca in cui lo sviluppo delle scienze appare, sin dagli albori, come un tratto distintivo della filosofia. Questo tratto comporta, per le scienze, l'istituzione della loro autonomia e con essa la trasformazione della filosofia in scienza empirica dell'uomo (di cui la psicologia, l'antropologia e la sociologia costituiscono tre esempi).
Il “passaggio” dalla filosofia alla scienza lungi dall'essere semplicemente un processo storico graduale, progressivo, vanta origini antichissime e si da, sin dal sorgere della filosofia, nel suo stesso seno. Dalla metafisica alla scienza non c'è continuità ma c'è il silenzio di uno “spazio” vergine che appartiene a qualcosa dell'ordine del non avvenuto del non nato.
La fenditura originaria fra la metafisica e la scienza – che il movimento della storia si trascina appresso – è il luogo inusitato di una vacanza che concerne il pensiero rendendo ragione della sua incompiutezza. È il topos di un pensiero impensato – che resta da pensare – perché un tale “pensiero abissale” non potè essere pensato né dalla metafisica né dalla scienza.
Heidegger non esclude per un tale pensiero la possibilità di essere pensato: si chiede infatti se esista per il pensiero oltre l'ultima possibilità – la risoluzione della filosofia nelle scienze tecnicizzate – una prima possibilità da cui esso prese avvio ma che in quanto filosofia – in quanto metafisica non fu in grado di essere intrapreso.
Esisterebbe dunque per il pensiero una “via regia” ancora vergine, non intrapresa né dalla metafisica né dalla scienza non essendo, l'una e l'altra abbastanza illuminata da un certo grado di volontà come causa – dalla Volontà di potenza?
Come non trasalire presagendo in questo interrogativo l'approssimarsi alla causa originaria di quella palude che ancora intorbida lo statuto della psicanalisi. Come non scorgervi la ragione del disagio e definire, in termini epistemici persuasivi, una disciplina il cui dibattersi testimonia dell'incapacità a riconoscere nel pensiero di Freud e nella sua invenzione quel compito del pensiero che attenderebbe ancora d'essere pensato.
Perché la psicanalisi, invenzione che non ha precedenti, è il risultato ancora acerbo dell'affacciarsi all'orizzonte di un tale compito del pensiero.
Giovi, a ricordarlo, l'aristocratica distanza presa da Freud sia nei confronti della metafisica (non senza alcune tentazioni) sia nei riguardi della scienza del suo tempo – di cui pure era figlio.
La distanza, non rigorosamente imparziale rispetto a l'una e all'altra non tragga in inganno trattandosi, rispetto alla questione fondamentale – la “grande separazione” – di un inezia troppo irrilevante per indugiarvi ancora.
La psicanalisi nasce, non c'è dubbio come effetto di una lacerazione violenta affatto indolore di una “grande separazione” inaugurante una fondazioneradicalmente nuova il cui metodo e le cui fondamenta sono altrove rispetto alla filosofia e rispetto alla scienza.
“Si può presumere che uno spirito, nel quale il tipo dello “spirito libero” sia destinato a maturare fino all'ultima dolcezza e perfezione, abbia avuto il suo evento decisivo in una grande separazione. La grande separazione giunge per simili incatenati improvvisa, come una scossa di terremoto: la giovane anima viene d'un colpo scossa, strappata, divelta; essa stessa non capisce quel che accade. Un impulso e un urgenza sorgono in essa e se ne impossessano imperiosamente; si svegliano in essa una volontà e un desiderio di andare avanti, dove che sia, a ogni costo.
Un'ardente, pericolosa curiosità verso un mondo ignoto serpeggia fiammeggiando in tutti i suoi sensi … Un subitaneo orrore e sospetto verso ciò che amava, un lampo di disprezzo verso ciò che per essa significava “dovere”, una smania ribelle, capricciosa, vulcanicamente impetuosa, di peregrinare, di espatriare, estraniarsi, raffreddarsi, disincantarsi, gelarsi, un odio per l'amore, forse uno sguardo e un gesto sacrileghi all'indietro, là dove aveva finora pregato e amato, forse un rossore di vergogna per ciò che aveva appena fatto, e nello stesso un'esultanza per averlo fatto, un ebbro, profondo, esultante brivido, in cui si rivela una vittoria – una vittoria? Su che? Su chi? Una vittoria enigmatica, piena di interrogativi, problematica, ma comunque la prima vittoria: – simili cose tristi e dolorose appartengono alla storia della grande separazione. È in pari tempo una malattia che può distruggere l'uomo, questo primo scoppio di forza e di volontà di autodeterminarsi, di porre da sé dei valori, questa volontà di volontà libera … La solitudine lo circonda e lo stringe, sempre più minacciosa soffocante, attanagliante, quella terribile dea e mater saeva cupidinum – ma chi sa oggi che cosa sia la solitudine?” (U. II, p. 6)
Freud conobbe, senza dubbio, il “grande isolamento”. Ma il brano sopra riportato – il lettore ha avuto qualche indugio? – è di Nietzsche. Giocare, talvolta, con le citazioni mi diletta a patto che la regola del giuoco non dissolva la credibilità di un'affermazione: che la psicanalisi – come ogni grande creazione, come ogni Opera – nasce a partire da una “grande separazione “. L'Opera, la creazione, sono il risultato ultimo di una vittoria – una prima vittoria che si configura come una “malattia” capace di distruggere l'uomo.
Si fa strada l'esistenza di un vincolo, niente affatto nuovo, ma tutt'altro che indagato fra la Clinica e l'Opera per mettere in primo piano, dandole precedenza assoluta, la Clinica del Maestro.
Non è molto ma forse è temporaneamente bastante per ripulire il concetto di clinica dalle scorie mediche e per “sospendere” quel vizio, ormai codificato, che consiste nel fare di un magma incandescente ancora fluido un solido terreno di indagine: la ricerca del rapporto fra la clinica e l'etica o, più ingenuamente, la definizione di un etica della psicanalisi.
L'Opera di Freud – come la tragedia greca nella visione di Nietzsche – nasce, senza dubbio, da una sovrabbondanza d'energia, da uno scoppio di forza, da un “gesto sacrilego all'indietro” – il tragico è figlio dell'eccesso e Padre -. Un crimine di cui testimonia quell'opera formidabile che è “Totem e tabù” assieme a “L'Uomo Mosè e la religione monoteistica”. Perché ogni genio – qualcuno che genera – è un assassino:
“Il dubbio mi divora io ho assassinato la legge, la legge mi tormenta come un cadavere tormenta un uomo vivo; se io non sono più che ala legge, io sono il più reietto degli uomini”. (Aurora)
Genio e sregolatezza: una miscela gregaria perché il genio non è senza legge ma è qualcuno che, come legislatore e fondatore di valori, si situa nella pienezza della Legge – oltre la legge – come Kant mostra ne “La critica del giudizio”.
L'invenzione di Freud – prima ancora la “filosofia” di Nietzsche – accarezzano il compito del pensiero disatteso dalla filosofia e dalle scienze che da essa si sono sviluppate. Ma Freud se ne ritrae, inorridito. Confidando di trovare in Nietzsche le parole per dire ciò che egli dirà sempre e soltanto per frammenti allusivi.
L'attesa che al psicanalisi assurga prima o poi al rango di scienza è un auspicio senz'altro meno ingenuo di quello che la pensa come una nuova filosofia sullo stampo delle filosofie passate o come un'arte o una religione.
La fine della metafisica come “raccoglimento nelle sue possibilità estreme” e la sua incompiutezza nella realizzazione della sua possibilità prima, pone la psicanalisi di fronte al peso di un compito assegnatole in forza di un eredità millenaria. Perché il compito che spetta al pensiero è di pensare l'eterno ritorno dell'eguale come lo pensa Zarathustra, il Maestro del ritorno, colui che insegna il super uomo.
La psicanalisi come morfologia e teoria della volontà di potenza. Ciò che Freud ha sfiorato Nietzsche l'ha percorso in forma di esperimento. Lacan vi si è invischiato.
UNO “PSICOLOGO” SENZA PARI
“Creare una specie di esseri che
sostituiscano il prete, l'insegnante,
il medico”
“ – Che nei miei scritti parli uno psicologo senza pari, questa è forse la prima conclusione arriva un buon lettore – un lettore come lo merito che mi legga come i buoni filologi di una volta leggevano il loro Orazio”. (Ecce homo p. 314)
So di essere una cattiva scrittrice e una pessima oratrice ma mi reputo una buona ascoltatrice.
“Quanto più uno psicologo – uno psicologo e un divinatore-di-anime costituzionalmente e inevitabilmente tale – si rivolge ai casi e agli uomini più fuori del comune, tanto maggiore diventa il suo pericolo di restar soffocato dalla pietà: costui ha bisogno di durezza e di giocondità, più di qualsiasi altro uomo. Il pervertimento, il crollo degli uomini superiori delle anime di indole più ignota è infatti la regola. Il multiforme martirio dello psicologo, che ha scoperto questo ruminare, che già ha scoperto una volta e poi quasi sempre torna di nuovo a scoprire questa interiore “insanabilità” dell'uomo superiore … potrà forse diventare un bel giorno la causa del suo rivolgersi con amarezza contro il suo proprio destino e del tentativo d'auto distruzione che egli metterà in atto – potrà essere causa del suo stesso “pervertirsi”.
“L'anima umana e i suoi confini, l'estensione in generale fino a oggi raggiunta delle umane intime esperienze, le altitudini, le profondità e le distanze di queste esperienze, l'intera storia, sinora vissuta, dell'anima e le sue non ancora fino in fondo esaurite possibilità: tutto ciò è la predestinata zona di caccia per uno psicologo nato a un amico della “caccia grossa”. Tuttavia, quanto spesso deve rivolgere a sé stesso le disperate parole: “uno solo! ah, uno solo e basta! e questa gran selva primordiale!” E così si augura qualche centinaio di aiutanti e di segugi … Invano: sempre torna a sperimentare, profondamente e amaramente, quanto sono difficili a trovarsi aiutanti e cani per tutte quelle cose che eccitano appunto la sua curiosità”. (Al di là, P. 53)
“Si avvertirà quasi in ogni psicologo una rivelatrice compiaciuta inclinazione a entrare in rapporto con la gente comune e ben ordinata. Ciò è una spia del fatto che egli ha sempre bisogno di un risanamento che necessita di una specie di fuga e d'oblio, lontano da tutto quello che le sue intime penetrazioni e incisioni, il suo “mestiere” gli hanno fatto pesare sulla coscienza. È una sua caratteristica la paura della propria memoria … La paradossalità della sua situazione si spinge forse così lontano nell'orrido, che la moltitudine, i dottori, i visionari apprendono la grande venerazione proprio là dove egli ha imparato la grande pietà accanto al grande disprezzo …” (Al di là, p. 191-2)
“Esistono “ uomini di scienza” che si servono della scienza perché dà un aspetto sereno… Esistono spiriti liberi, audaci, che vorrebbero nascondere e negare di essere cuori infranti, superbi, immedicabili; e talvolta la follia stessa è una maschera p r un sapere infelice troppo certo. – Donde risulta che si addice a una più raffinata umanità serbar reverenza “di fronte alla maschera” e non esercitare psicologia e curiosità nel punto sbagliato”. (194)
“ O vi sarebbe qualcosa da mettere in conto negativo a quella proposizione, secondo la quale l'osservazione psicologica fa parte dei mezzi di seduzione, di salute e di alleviamento dell'esistenza? … Effettivamente, una certa fede cieca nella bontà della natura umana, una radicata avversione all'analisi delle azioni umane, una specie di pudore di fronte alla nudità dell'anima possono veramente essere per la felicità complessiva di un uomo cose più desiderabili di quella qualità di acutezza psicologica, utili in casi particolari…(Ibid. 47)
“Ma, qualunque sia il risultato di questo esame del pro e del contro, nel presente stato di una scienza particolare è ormai necessario che l'osservazione morale risorga, e la crudele vista del tavolo di vivisezione e dei suoi bisturi e pinze non può più essere risparmiata all'umanità” (Ibid. 47)
“Dunque: se l'osservazione psicologica apporti agli uomini più utilità o svantaggio, ciò può rimanere indeciso; certo è che essa è necessaria, perché la scienza non può farne a meno”. (Ibid.,p. 48)
Non c'è verso di intendere il pensiero di Nietzsche se non si sia giunti, per una via o per l'altra, in prossimità di quel pensiero tragico che è il pensiero del ritorno. Il “programma” la filosofia di Nietzsche, la psicologia, la fisiologia, la medicina, ruotano attorno ad esso come attorno al proprio asse; la Wille ZUR Macht, la transvalutazione dei valori, la morte di Dio e l'Uber Mensch restano, se si prescinde da esso, puri frammenti scomposti in “orrida casualità”.
Il “pensiero supremo” – il pensiero dei pensieri – impenetrabile al pensiero metafisico e capace di oltrepassare la metafisica occidentale non ha precedenti: esso non appartiene alla sfera della mistica più di quanto appartenga alla antica rappresentazione ciclica del mondo – nonostante e Eraclito.
Eppure, malgrado le accese dispute esegetiche che hanno impegnato nel nostro secolo in maniera considerevole un certo numero di studiosi, il pensiero che si rivelò per la prima volta a Nietzsche nell'agosto del 1881 mentre passeggiava lungo il lago di Silvaplana, è un pensiero essenzialmente semplice. Semplice non significa facilmente accessibile né orecchiabile quasi si tratti di “una canzone da organetto”. Il pensiero del ritorno è semplice in quanto è un pensiero purocostituito da un unico in gradiente – senza artifici, senza mistioni.
Tale ingrediente è la Vita con le sue fluttuazioni l'immedicabile moto del suo divenire – la volontà di potenza che sfiora la sua sfera suprema quando giunge ad “imprimere al divenire il carattere dell'essere”.
E' impossibile Vivere senza incrociare a un qualche bivio della propria esistenza un tale pensiero, senza udirlo mormorare, senza vederlo baluginare – fuggitivo.
Eppure Nietzsche è il solo ad averne parlato – tremando per aver “veduto” il fondo dell'uomo – la sua totale assenza di fondamento una volta sottoposte a tortura le consolazioni metafisiche, i deliri e le nevrosi religiose, i terrori della scienza, le illusioni dell'arte, l'inconsistenza della morale.
Sono questi colpi di martello a spingere Nietzsche a parlare in veste di psicologo senza pari; in veste di qualcuno che intende svincolare la psicologia dai pregiudizi morali per costringerla ad essere IMMORALE – immorale come la natura.
Per pensarla come “morfologia e teoria evolutiva della volontà di potenza. Per pensare la “malattia” e la “salute” come due “stati” la cui coesistenza – alternanza fa nodo rivelando al tempo stesso la loro comune discendenza originaria dalla volontà di potenza – dal grado di forza della volontà, dal quantum di forza della pulsione di vita e della pulsione di morte.
Bello-brutto, buono-cattivo, piacere-dispiacere, forza-debolezza, salute-malattia : in ciascuna di queste coppie si tratta, rispettivamente, di accrescimento o di sottrazione di potenza.
Nietzsche non ha “pazienti” da “curare” – c'è da scommettere che non l'avrebbe fatto? -. Eppure, come medico di sé stesso ci ha lasciato un'opera formidabile: la testimonianza di ciò che potrebbe essere la “ricostruzione di un caso clinico” se la clinica cessasse di essere “patologia” per diventare teoria evolutiva della Wille ZUR Macht. Se la “cura” cessasse d'essere una nuova malattia per essere CURA della Wille ZUR Macht.
Esisterebbe davvero una simile CURA? Una CURA della salute? Una CURA dell'accesso?
“La Nascita della tragedia” – dove l'opposizione Dionisio-Apollo già prelude alla “grande salute” non è un'opera letteraria né un'interpretazione storica. Essa è l'opera di un iniziato – di un iniziato alla Vita di cui Dionisio è simbolo – è l'esperienza di un risanato.
“qualunque cosa possa esserci stata alla base di questo problematico libro, deve essere stata una questione di prim'ordine, piena di fascino, e inoltre una questione profondamente personale: ne testimonianza il tempo in cui esso nacque, nonostante il quale esso nacque, il tempo emozionante della guerra franco-tedesca del 1870-71. Mentre i tuoni della battaglia di Worth trascorrevano sull'Europa, l'almanaccatore e amante di enigmi, a cui toccò in sorte la paternità di questo libro, se ne stava da qualche parte in un angolo delle Alpi, sprofondato nei pensieri e negli enigmi, per conseguenza molto preoccupato e insieme libero da preoccupazioni, e metteva in iscritto i suoi pensieri sui Greci, – nocciolo del libro stravagante, difficilmente accessibile, a cui è dedicata questa tardiva prefazione (o epilogo). Alcune settimane dopo anch'egli si trovava sotto le mura di Metz, senza essersi ancora sbarazzato dei punti interrogativi che aveva apposti alla pretesa “serenità” dei Greci e dell'arte greca; finchè da ultimo, in quel mese di massima tensione in cui a Versailles si discuteva la pace, riacquistò anch'egli la pace con se stesso e, guarendo da una malattia portata a casa dal campo, fissò definitivamente la “nascita della tragedia dallo spirito della musica”. (P. 3 p. 55 Qual era la malattia di cui soffriva Nietzsche?
In che senso La Nascita della tragedia dallo spirito della musica testimonierebbe di un risanamento, di una pace riacquistata?
La risposta è nell'aggiunta: “dallo spirito della musica” – luogo d'origine da cui scaturisce la conoscenza tragica e con essa la “grande salute”. Nietzsche pensa il soggetto – una finzione – come un'entità musicale il cui ritmo è scandito da quella pulsazione che è la Wille ZUR Macht.
Egli è il primo filosofo – psicologo che pensa il Tragico al di là della sfera etica mostrandone la radice estetica: il mondo come “musica fatta corpo” come “volontà fatta corpo”.
Il risanamento, la “guarigione” di Nietzsche trovano così la propria origine nella conoscenza tragica.
Quale l'origine della “guarigione” che si ottiene al termine di una “cura” psicanalitica?
DALLA” CONOSCENZA TRAGICA”
ALLA “NEVROSI DELLA SALUTE”
Ciò che Nietzsche “scopre” a partire dall'esperimento cui si è sottoposto e di cui ci consegna le conclusioni nella sua opera, è che :
“Nella vita non c'è niente che abbia valore al di fuori del grado di potenza – dato appunto che la vita altro non è che volontà di potenza”. (Frammenti 85-87,p.203)
“Il nostro modo di pensare e di valutare è solo un'espressone delle brame che vi ardono dietro; – le brame si specializzano sempre di più : la loro unità è lavolontà di potenza (per prendere il termine dal più forte di tutti gli impulsi, che ha diretto finora ogni sviluppo organico”. (Ibid. I 30)
“Il carattere di un'assoluta volontà di potenza è presente in tutti i campi della vita. Se abbiamo il diritto di negare la coscienza, abbiamo però difficilmente il diritto di negare gli affetti che muovono l'uomo” (Ibid. 17 I 54)
“La volontà di potenza interpreta: nella formazione di un organo si tratta di una interpretazione; essa traccia confini, determina gradi, diversità di potenza. Le mere diversità di potenza non potrebbero ancora sentire se stesse come tali: ci d'essere qualcosa che voglia crescere e che interpreti sul suo valore ogni altra cosa che voglia crescere…” (p. 126 2 148)
“Non si deve chiedere: “chi interpreta allora?” L'interpretare stesso, come una delle forme della volontà di potenza, ha esistenza come un affetto (ma non come un “essere”, bensì come un processo, un divenire.” (Ibid. 127 2 51)
“Il pensare da ultimo come vittoria ed esplicazione di potenza”. (Ibid. 245)
“Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di sete di dominio, ciascuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri istinti”. (Ibid 300)
“…I moti sono sintomi, i pensieri sono sintomi: dietro le due cose ci sono sempre i desideri, e il desiderio fondamentale è la volontà di potenza…”. (Ibid: I 59)“Infinita interpretabilità del mondo: ogni interpretazione è un sintomo del crescere o del decadere”. (Ibid. 107 2 117)
“Che il valore del mondo stia nella nostra interpretazione (e che forse in qualche luogo siano possibili interpretazioni diverse da quelle meramente umane): che finora le interpretazioni siano state tutte valutazioni prospettivistiche, in virtù delle quali noi nella vita,, ossia nella volontà di potenza, ci conserviamo per lo sviluppo della potenza; che ogni elevazione degli uomini comporti il superamento di interpretazioni più ristrette: che ogni rafforzamento mai raggiunto, ogni allargamento di potenza apra nuove prospettive e imponga di credere a nuovo orizzonti -tutte queste cose si ritrovano ovunque nei miei scritti”. (Ibid 101 2 108)
La forza capace di porre i valori è la Wille ZUR Macht ma che cos'è per Nietzsche il valore?
“Il punto di vista del valore” è il punto di vista delle condizioni di conservazione – accrescimento in ordine alle formazioni complesse di relativa durata della vita in seno al divenire”
La vita dunque non è mera conservazione di uno status ma è accrescimento inteso come trapasso da qualcosa a qualcos'altro:
“Ogni cosa ha due volti, uno del trapassare e l'altro del divenire” (82-84 147,p.190) La Wille ZUR Macht è volontà di questo trapasso – passaggio – è volontà del divenire. Il “valore” nel senso di ciò che vale, di ciò che è giusto è il divenire stesso in cui consiste la Vita
“Vivere – ecco quel che significa: respingere senza tregua da sé qualcosa che vuol morire; vivere vuol dire essere crudeli e spietati contro tutto ciò che sta diventando debole e vecchio in noi e non soltanto in noi. Vivere – vuol dire…essere sempre di nuovo assassini”? (La Gaya scienza, p. 60)
“E' possibile riportare il Tragico sulla scena del mondo?
A CHI spetterebbe tale compito? |
Quali gli strumenti per farlo? |
Esattamente cent'anni fa Nietzsche rispondeva a queste tre domande. Le sue risposte sono, al tempo stesso, il suo programma filosofico, politico, culturale, la cui datazione, 1888, precede solo di un anno la “catastrofe” di Torino – la follia.
C'è chi non ha mancato e ancora non manca di utilizzare l'evento al fine di rinvenirne la traccia nell'opera precedente nell'intento di liquidare autore ed opera con l'espediente della non credibilità. Il fatto è che non si tratta di incredulità ma di incredibilità.
Ciò che fa dell'opera di Nietzsche qualcosa di incredibile è l'estrema lucidità che – lo rileva P. Klossowsky – fa sì che essa assuma l'aspetto dell'interpretazione delirante. Il “caso” Nietzsche, considerato in termini volgari, non riesce a sedurmi. Il destino di Nietzsche, in un certo senso, è affar suo, l'opera che ci ha lasciato no. Sia che ce ne occupiamo sia che la accantoniamo giacchè comunque , non prender posizione equivale pur sempre a prenderne una. Tanto più che è a noi, proprio a noi, che egli rivolge il suo programma:
“Parla in questo scritto un'enorme speranza. E in definitiva io non ho ragione alcuna di ritirare le mie speranze in un futuro dionisiaco della musica. Gettiamo lo sguardo avanti di un secolo, poniamo il caso che il mio attentato a due millenni di contronatura e di deturpamento dell'uomo abbia avuto successo. Quel nuovo partito della vita, che prende in mano il più grande di tutti i compiti, l'allevamento dell'umanità all'allevamento di se stessa, includendovi l'inesorabile annientamento di tutto ciò che è degenere e parassitario, renderà di nuovo0 passibile quel sovrappiù di vita sulla terra, da cui anche lo stato dionisiaco dovrà svilupparsi una nuova volta. Io prometto un'epoca tragica: l'arte di dire sì alla vita, la tragedia; rinascerà di nuovo, quando l'umanità avrà dietro di sé la coscienza delle guerre più dure, ma più necessarie, senza soffrirne” (Ecce homo p. 322)
“Che cosa significa proprio presso i Greci dell'epoca migliore, più forte, più valorosa, il mito tragico? E l'enorme fenomeno del dionisiaco? Che cosa significa la tragedia nato da esso? – E d'altra parte ciò per cui la tragedia morì, il socratismo della morale, la dialettica, la moderazione e la serenità dell'uomo teoretico – ebbene non potrebbe essere proprio questo socratismo un segno di declino, di stanchezza, di malattia… E la “serenità greca” della grecità posteriore non potrebbe essere solo un tramonto? E la scienza stessa, la nostra scienza – già che cosa significa mai, considerata come sintomo di vita ogni scienza? Una sottile legittima difesa contro la verità? E, per parlare in termini morali, qualcosa come viltà o falsità? O per parlare in termini immorali, un'astuzia?” ( La nascita della tragedia)
“Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore, il suo grado di sensibilità -, questo rapporto rimase uguale a se stesso oppure si capovolse? – la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dalla melanconia e dal dolore. Posto ciò che proprio questo fosse vero – e Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso funebre – da che discenderebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò cronologicamente prima, il desiderio del brutto, la dura e buona volontà di pessimismo nel Greco antico, di mito tragico, dell'immagine di tutto il terribile, il malvagio, l'enigmatico, il distruttivo, il fatale che ci cela in fondo all'esistenza – da che cosa discenderebbe allora la Tragedia? Forse dal piacere, dalla forza, da salute straripante; da esuberante pienezza? E che significato ha poi, sotto l'aspetto fisiologico, quella follia da cui si sviluppò sia l'arte tragica che l'arte comica? Come? Forse la follia non è necessariamente sintomo di degenerazione, di declino… Ci sono forse – un problema da psichiatri – nevrosi della salute.. E all'ora? Se i Greci ebbero, proprio nella ricchezza della loro gioventù, la volontà del tragico e furono pessimisti; se fu proprio la follia, per usare un'espressione di Platone, a portare alla Grecia le maggiori benedizioni, e se d'altra parte e inversamente, proprio ai tempi della loro dissoluzione e i Greci si fecero sempre più ottimisti, superficiali, istrionici, e anche più smaniosi per la logicizzazione del mondo… Non potrebbe essere forse la vittoria dell'ottimismo, il predominio della razionalità… la democrazia stessa… – un sintomo di forza declinante… a dispetto di tutte le “idee moderne?” (La nascita della tragedia).
Il ritmo assordante degli interrogativi che Nietzsche si pone e pone al lettore tradisce l'impazienza che caratterizza il rapporto fra lo svelamento di un'intuizione straordinaria e il suo autore. Nietzsche – come accadrà ancora per il suo Zarathustra – avverte sin d'ora d'essere in prossimità di un pensiero la cui scoperta potrebbe rivelargli, in un lampo, la chiave d'interpretazione con cui rendere finalmente ragione, sotto un profilo psicologico, dell'origine dell'arte tragica e comica in Grecia in un modo per lui convincente – nel senso di conforme alla “verità” dell'evento.
Si tratta, in effetti, di un'intuizione incredibilmente lucida che nessuna obiezione di carattere “scientifico” è riuscita seriamente ad intaccare – ne mai lo potrà-: Chi parla non è affatto il Nietzsche scienziato – nel senso deteriore – ma lo scienziato de La Gaya scienza. Lo “psicologo” la cui affinità elettiva con Freud resta, per ammissione di quest'ultimo, indiscutibile – almeno quanto lo è la differenza che pure esiste fra questi due pensatori.
Non è affatto semplice cogliere a un primo sguardo, nel pensiero di Nietzsche, il vincolo che unisce il Tragico e la “grande salute” di cui Dionisio è supremo simbolo divinizzatore.
Il Tragico è Figlio dell'eccesso – e Padre: ciò che lo genera – e con esso l'arte – è un “sovrappiù di vita”, una sovrabbondanza che consiste nella capacità di dire sì alla Vita nella verità delle sue metamorfosi – nel suo orrore e nella sua interezza.
Eppure la speranza in un “futuro dionisiaco” della musica – la speranza in una rinascita della tragedia – coincide per Nietzsche con la presenza di una volontà capace di ricreare quel “sovrappiù di vita” sulla Terra di cui l'Uber Mensch rappresenta la incarnazione suprema: Il Tragico è Padre dell'eccesso – e Figlio. Infatti solo la conoscenza tragica e il grado di forza – di volontà di potenza – che una tale conoscenza esige per essere tollerata può generare quell'eccesso di Vita che Nietzsche chiama anche “nevrosi della salute”.
Della salute di Nietzsche? Di una salute?
“Dovrebbe la mia vicenda – la storia di una malattia e di una guarigione, giacchè essa mise capo a una guarigione – essere stata solo la mia personale vicenda? E proprio solo il mio “umano-troppo-umano”? Vorrei oggi credere il contrario; in me cresce sempre più la fiducia che i miei libri di pellegrinaggio non siano stati scritti solo per me, come fino a poco fa è sembrato. Posso ormai, dopo sei anni di crescente fiducia, rimetterli in viaggio per un esperimento? Posso porgerli particolarmente al cuore e all'orecchio di8 coloro che sono affetti da qualche “passato”, e a cui resta abbastanza spirito da soffrire ancora dello spirito del loro passato? Ma soprattutto li porgo a voi, che durate più fatica, a voi rari, più minacciati, più spirituali, più coraggiosi, a voi che dovete essere la coscienzadell'anima moderna e che come tali dovete averne la scienza”. (Umano II,p. 19)
Come? Vi sarebbe dunque una tragedia della salute? Invero, la malattia, di tragico non ha proprio nulla giacchè essa è l'effetto dell'affossamento del Tragico.
Di quale salute si fa garante, attualmente, una “cura” psicanalitica?
LA FINE DELLA PSICANALISI
E LA SUA RISORSA
La “fine” della psicanalisi è la scomparsa del Tragico, la sua Risorsa è il Tragico.
Tale scomparsa, a sentire Nietzsche, è un fatto compiuto da Socrate in poi – con la complicità di Euripide. Ne rispondono, dopo Socrate, il Cristianesimo e, infine, la dialettica moderna emblematicamente rappresentata dalla figura di Wagner. Ma Kant e Shopenhauer, nella visione nietzschiana, non sono da meno.
Nell'orizzonte storico-culturale in cui nasce la invenzione freudiana il Tragico è dunque fuori scena da immemorabile tempo.
Il problema si fa avvincente ma anche più denso di conseguenze, per la psicanalisi, nel ripensare il vincolo – già enunciato – che Nietzsche stabilisce fra il Tragico e la “grande salute”: il Tragico è Figlio della “grande salute” – e Padre. Che vuol dire: al di fuori dell'esperienza del Tragico l'evocazione del concetto di salute è pura impertinenza.
La psicanalisi nasce dunque senz'altro all'insegna di una cattiva stella; in un orizzonte in cui la scomparsa del Tragico è un fatto compiuto da immemorabile tempo.
Eppure è proprio dalla cura dell'isteria che Freud comincia a fare i suoi passi per ottenere – si suppone – che la malattia compaia per far posto alla guarigione.
Alla salute? Alla “grande salute?
Semplificando, il problema, di portata enorme, che la psicanalisi ha il compito di affrontare si riduce essenzialmente alla differenza che passa fra “guarigione” e “grande salute”. Differenza radicale che permette di tracciare forse finalmente con un minimo di rigore, la linea di demarcazione netta, il confine che separa psicoterapia e psicanalisi, consentendo altresì di riformulare in termini epistemici più persuasivi e convincenti la querelle del rapporto fra psicoanalisi e religione – fra psicanalisi e scienza.
Non si fa che scivolare dolcemente di superficie in superficie. Non basta gridare che la psicanalisi non è una religione perché non lo sia davvero – perché poi tanta acrimonia? – ; non basta dire ribaldamente che non è una terapia per dire che cos'è; né basta ribadire che non è una scienza perché divenga un'arte baldanzosa e selvaggia dell'improvvisazione o una “scienza nuova”. Né si può persistere nel dimenticare che il velo che eclissa con tanta fissità e determinazione il suo statuto è l'indizio manifesto di ciò che non va.
La psicanalisi non si è mai data la pena di affrontare veramente – voglio dire genealogicamente la questione – preliminare ad ogni teoria e ad ogni pratica che si rispetti – del valore del “valori” di cui essa è portatrice, legislatrice. Costruendo nondimeno, malgrado un tale vuoto, una teoria della “cura”, un metodo e una prassi i cui fondamenti, genealogicamente parlando, giacciono ancora sepolti in attesa di essere rianimati.
Due sono attualmente i possibili esiti – per ragioni diverse parimenti “infelici” – di una esperienza psicanalitica – di una “cura”. La via della “megalomania” e quella della “micromania”. La scelta fra le due è davvero difficile. C'è, nel primo caso, dell'impostura ma nel secondo l'integrazione perfetta è lo scopo. Si tratta di due esiti in cui il destino delle pulsioni – delle passioni – viene differentemente “giocato”.
Intravedo, da lontano, un terzo esito possibile ma occorrerà lavorare moltissimo, lavorare in profondità arrischiando di più – infinitamente di più.
A connotare la “natura” di questo esito i termini “felice” e “infelice” sono egualmente infelici giacchè non di “felicità” o d'infelicità si tratta ma di qualcosa che è all0ordine della giustizia.
La giustizia è un concetto morale, non è un Bene né un Male essendo al di là dell'una e dell'altro in forza della sua appartenenza ad una sfera extramorale. Con questa sfera extramorale – immorale come la natura – la psicanalisi dovrà presto o tardi confrontarsi piuttosto che vagare, sempre più annoiata, alla ricerca di un'etica che nel mentre ricalca da cima a fondo le orme dell'etica tradizionale ereditata dalla metafisica e da due millenni di cristianesimo vorrebbe audacemente porsi come garante di un'etica differente, “alternativa” – sovversiva.
L'appartenenza della giustizia alla sfera extramorale rende quest'u7ltima particolarmente impegnativa e rischiosa. La giustizia evocata in relazione al terzo esito possibile di una psicanalisi, lungi dall'essere una giustizia “divina” alla mercè degli imperscrutabili disegni del divino volere o una giustizia legalmente intesa, è la giustizia che nasce dalla morte di Dio. Da cui Tragedia Incipit – da cui comincia la tragedia della salute.
Esisterebbe dunque un vincolo fra la salute – la “grande salute” – e la giustizia?
Il ritardo della psicanalisi nella formulazione genealogica di una teoria del valore dei “valori” è imputabile, fra l'altro, alla fedeltà che rende sempre ai Maestri dei pessimi servigi.
Una teoria – filosofica, scientifica – non è mai un valore da custodire gelosamente. Essa è, semplicemente, ciò che è. Essa “vale” in quanto risultato e prodotto di un punto di vista: del punto di vista della volontà di chi la enuncia – in quanto sintomo di un determinato corpo.
“Ma lasciamolo andare, il Signor Nietzsche: che ce ne importa se il Signor Nietzsche è tornato in buona salute?… Per uno psicologo poche questioni sono così allettanti come quelle riguardo al rapporto di salute e filosofia, e nel caso che lui stesso si ammali, porta con sé, nella malattia, tutta la sua scientifica curiosità… Che ne sarà del pensiero stesso sottoposta alla pressione del male? Questo è il problema che interessa gli psicologi: e qui l'esperimento è possibile. Ogni filosofia che la pace ripone più in alto della guerra, ogni etica che della nozione di felicità una concezione negativa, ogni metafisica e ogni fisica che conosce un finale, uno stato terminale, di qualsivoglia specie, ogni esigenza prevalentemente estetica o religiosa di un per sé, di un al di là, di un al di fuori, di un al di sopra, autorizza a chiedere se non sia stata la malattia ad ispirare il filosofo. L'inconsapevole travestimento di filosofiche necessità sotto il mantello dell'obiettivo, dell'ideale, del pur – spirituale va tanto lontano da far drizzare i capelli – e abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino a oggi principalmente soltanto un'interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo… E' legittimo ravvisare in tutte quelle ardite stravaganze della metafisica, specialmente alle sue risposte alla domanda sul valore dell'esistenza, in primo luogo e sempre i sintomi di determinati corpi: e se anche, tutto sommato, in tali affermazioni o negazioni del mondo non v'è – a misurarle scientificamente – un granello di significato intrinseco, esse costituiscono tuttavia per lo storico e lo psicologo indici tanto più apprezzabili, in quanto sintomi, come si è detto, del corpo, del suo riuscire o mal riuscire; della sua pienezza, potenzialità, signoria di sé nella storia, oppure invece delle sue inibizioni, stanchezze, accadimenti, del suo presentire la fine. Sono ancora in attesa che un filosofo medico, nel senso eccezionale della parola, … abbia in futuro il coraggio di portare al culmine il mio sospetto e di osare questa affermazione: in ogni filosofare non si è trattato per nulla, fino a oggi di “verità”, ma di qualcos'altro, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita…” ( La Gaia scienza, p. 16)
Portiamo pure l culmine tale sospetto osando ribadire, senza indugio, quanto già affermato in precedenza: la psicanalisi, invenzione di Freud, è una creazione della sua “malattia”: del suo eccesso, del suo sovrappiù di vita e di potenza – è il sintomo del suo corpo. Ma l'eccesso è Padre del Tragico – e Figlio.
Con l'invenzione freudiana il Tragico tenta forse per la prima volta nella storia dell'Occidente, la sua ricomparsa. Per un tempo che ha la durata di una folgore: tutto il tempo – giusto il tempo – impiegato da Freud nella creazione della sua Opera. Che si conclude nel '38.
Attorno agli anni '15-20, Freud consapevole di avere fra le mani dinamite: è la dinamis, la forza – la volontà di potenza – il cui grado si rivela nel sensibile disorientamento che lo induce a scrivere Al di là del principio di piacere in cui la conoscenza tragica gli si offre per la prima volta senza veli.
Ciò che Freud scopre in Al di là del principio di piacere è l'esperienza del ritorno dell'eguale. E' il Pensiero dei pensieri di Zarathustra. Non è una combinazione se i due più importanti riferimenti al pensiero di Nietzsche li troviamo proprio qui.
Eppure un tale pensiero non sarà mai portato da Freud sino alle sue giuste conseguenze estreme in relazione all'esperienza psicanalitica e a ciò che ne costituisce propriamente l'essenza.
Con la morte di Freud la scintilla si spegne di nuovo osando la sua fugace ricomparsa, ancora una volta, con Lacan ma solo per morire di nuovo con lui.
La psicanalisi è morta per mancanza di musica. Quando accade che il Tempo si fermi, quando non accade più nulla perché tutto ormai sembra essere accaduto e niente sembra più poter accadere, è segno che qualcosa volge al tramonto. Quando le domande ruotano incessantemente, oziosamente attorno a se stesse producendo delle pseudo-interrogazioni e delle false riflessioni cui manca la forza – la volontà – necessaria per assurgere alla dignità di pensiero, è segno che la musica è finita.
Non c'è che lo spirito della musica – e il Tragico che essa genera – a trasformare la stereotipia della ripetizione nell'eternità di un ritorno che osa dire di siall'eterni “da capo” e di no all'“una volta per tutte”. Non è affatto necessaria una “cultura” musicale per sapere che lo spirito della musica – assenza del “soggetto” – è il circulus vitiosus deus in cui spietatamente si rincorrono per un tempo che è la durata di una vita Eros e Thanatos.
Il Tragico – che nasce dallo spirito della musica – e la musica – che è Figlia del Tragico – rivelano nel loro intimo grado di parentela la via segreta per situare l'esperienza della psicanalisi – un esperimento del ritorno – in una sfera estetica, extramorale.
Si ha un bel parlare di “psicosi”. Capita che si rinneghi la propria formazione per ostentarne un'altra certi di trarre dallo scambio qualche vantaggio. Meno medici si è, meno si afferma di volerlo essere chiamando in causa le indicazioni di Freud sull'analisi condotta da non medici, più la clinicomania si va consolidando.
La clinicomania è una variante, una fra le moltissime applicazioni della micromania: l'affezione dominante che conferisce al nostro secolo la tonalità monocorde, depressiva che lo distingue in ogni campo.
C'è in quello particolare di cui m'interesso, una forma d'appagamento assai ricercata: un'attrattiva formidabile per la frattaglia dell'hic et nunc. Qualcuno, malignamente, ne attribuirebbe la responsabilità alle donne che in questo campo sembrano particolarmente versate – ma sarebbe in errore.
Il pedantesco e minuzioso trionfo del particolare – retaggio di una vivisezione attorno al vuoto cui è approdato il pensiero – pare una costante ormai generalmente acquisita; insofferenza e fastidio: le note dominanti nei confronti di ogni pensiero arrischiante.
La “forclusione del Nome del Padre” è uno fra i molti problemi in giacenza, ibernato in attesa di tempi fecondi. I clinicomaniaci non fanno che tornarvi su mimando Lacan senza troppo successo. Eppure si “curano” gli “psicotici” – quelli che dicono sempre NO – e che, dal canto loro hanno qualche cosa da obiettare alla “cura”.
Lo “psicotico” CHI è?
“Vorrei tuttavia farvi notare prima di lasciarvi quest'anno che come medici potete essere innocenti, ma che come psicanalisti converrebbe proprio che meditaste su un tema come questo (la psicosi), quantunque né il sole né la morte si possono guardare in faccia. Non dirò che il pur minimo gesto fatto per alleviare un male dia la possibilità di un male maggiore: esso comporta sempre un male maggiore. E' una cosa cui converrebbe che uno psicanalista si abituasse, perché senza questo credo che non sia assolutamente capace di esercitare in tutta la coscienza la sua funzione professionale.” (Lacan, Libro III,p. 380)
“Per concludere vorrei passare a un genere di stile diverso dal mio. Già da qualche settimana mi ero ripromesso di terminare su una bella pagina di un poeta mirabile che si chiama Guillame Apollinaire. E' tratta da L'Enchanteur pourissant. Alla fine di un capitolo c'è l'incantatore che marcisce nella sua tomba, e che, da buon cadavere, non direi che farfuglia, come si esprimerebbe Barres, ma incanta, e parla molto bene. C'è lì anche la Signora del lago seduta sulla tomba – è lei che lo ha fatto entrare nella tomba dicendogli che ne sarebbe uscito facilmente, ma lei aveva anche i suoi trucchi e l'incantatore è lì che marcisce, e di tanto in tanto parla. Ecco dove ci troviamo allorché, in variopinti cortei, arriva qualche pazzo, e un mostro che spero riconoscerete…”
0 commenti