“Das Unbehagen in der Kultur”
in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XIV, p. 421
Traduzione di Antonello Sciacchitano
Prefazione di Antonello Sciacchitano
Il disagio nella lettura di Freud ovvero la cosa freudiana
La libertà individuale non è un bene civile.
Sigmund Freud
Presentare il senso di colpa come il problema più importante dell’evoluzione civile.
Sigmund Freud
Non so voi, ma oggi avverto un particolare disagio a leggere e tradurre Freud. Da freudiano avverto una non lieve stonatura nella scrittura freudiana tra l’innovazione dell’inconscio, come luogo di un sapere che non si sa di sapere, e il modo di presentarla, l’aristotelico scire per causas, cioè conoscere attraverso le cause. Come conciliare, da una parte, l’abisso epistemico della rimozione originaria, per cui ci sono effetti senza causa conscia, e dall’altra, c’è l’ordinamento della razionalità eziologica? Se c’è una causa psichica mai saputa, come valutarne gli effetti? Un vecchio detto evangelico ammoniva a non mettere vino nuovo in otri vecchi. Si rischia l’aceto o gli otri scoppiano. Forse Freud non ebbe familiarità con il nuovo testamento. Allora, per descrivere i processi inconsci della metapsicologia pulsionale, Freud adottò l’antico palinsesto aristotelico delle cause efficienti e finali, appreso dalla tradizione ippocratica. L’effimero successo iniziale del freudismo si deve all’ignoranza diffusa nel senso comune, anch’esso eziologico. Ecco come è andata.
La storia deve fare i conti con la statistica. Freud si può ben definire l’Uomo di Ur, come Abramo. Complice la lingua tedesca, nelle 7000 pagine delle Sigmund Freud gesammelte Werke le parole che cominciano con la sillaba Ur, come Urteil, giudizio, Ursache, causa, Urvater, padre primitivo, Urverdrängung, rimozione originaria, Ursprung, origine; Urzeit, tempo preistorico, ecc., sono 2625, distribuite su 1909 pagine. In pratica, ogni tre pagine si trova almeno un riferimento a una “cosa che viene prima”, in particolare la causa (Ur-sache), come ciò che precede l’effetto. L’approccio psicogenetico freudiano ha tale base linguistica.
Ma non solo. Nell’algebra rinascimentale italiana la “cosa” o la “cossa” era l’incognita dell’equazione. Intitolando un suo scritto La chose freudienne (1955), intendendo la cosa come la verità, Lacan entrò in questo ordine di idee senza saperlo. La moderna ics della scrittura algebrica contiene le stesse lettere di “cosa”, nello stesso ordine. La fobia per la matematica, in generale per la scienza, è l’insofferenza per la cosa che tanto travagliò Freud, ma rimase a lui inconscia. Quanto segue va considerato un prolungamento dell’incompiuta analisi freudiana, se è vero che esiste un soggetto collettivo psicanalitico.
In Freud sono cause efficienti le pulsioni sessuali; cause finali le pulsioni di morte. Entrambe le pulsioni vanno soddisfatte in modo coatto, secondo il modello della nevrosi coatta, detta ossessivo-compulsiva, la nevrosi più cara a Freud, di certo la sua; nel caso di Freud la coazione fu eziologica o “imperativo bisogno di causalità”, interpretato come bisogno di cosalità. L’eziologico è un vecchio modo deterministico di pensare, in gran parte immaginario, ma molto diffuso, oggi codificato come buon senso di marca vitalista, buono per raccontare l’eterno romanzo della lotta tra la vita e la morte, tra umano e non umano. Per contro, la scienza moderna, primo, non è vitalista e, secondo, fa a meno di riferimenti obbligati a cause che producano effetti. Valga, come paradigma della nuova fisica, l’esistenza di moti inerziali a velocità costante in assenza di cause, cioè di forze che modifichino la traiettoria. Galilei, che Freud non citò mai, non ospitò coazioni vitaliste. La materia è inerte e sempre uguale a sé stessa: corpi di massa diversa, una piuma o una palla di cannone, cadono nel vuoto con gli stessi tempi dalle stesse altezze, contro il dettato aristotelico della velocità proporzionale alla massa, supposta causa del moto. “La natura non è aristotelica, accidenti a lei!”, esclamò il grande fisico quantistico Richard Feynman, Nobel nel 1965.
Ma non è, il mio, solo un disagio filosofico. È una questione di contenuto. Mi sono di recente impegnato a tradurre testi non metapsicologici di Freud, che trattano la genesi della civiltà, in ossequio al principio psicogenetico di tutta l’elucubrazione freudiana. Il buco è evidente. Non si vuole vederlo solo per rispettare l’appartenenza a qualche collettivo di osservanza freudiana. In Freud manca proprio una teoria del collettivo. Il collettivo freudiano è privo di dimensione collettiva, cioè di variabilità. La Massenpsychologie, di cui parla Freud nel saggio del 1921, è una teoria individualista delle masse, non è una psicologia collettiva. La massa freudiana è un insieme di individui tutti uguali, tutti maschi, tutti identificati allo stesso Führer, senza interazioni tra loro; neppure si parlano. Sono monadi senza finestre o meglio con una sola finestra aperta verso l’alto, un lucernario sul tetto; è il Super-Io da cui calano le regole del vivere civile. Il legame sociale, che Freud chiama “legame libidico”, non è altro che l’identificazione comune al Padre simbolico. È una vera e propria “miseria psicologica delle masse”, direbbe Freud (v. cap. 5); testimonia la ristrettezza di visione dell’inventore di tale psicologia. Naturalmente, il riferimento freudiano è alle termiti, alle formiche e alle api (v. cap. 7). Si può ben dire, come dicono i sovranisti di casa nostra, che la massa freudiana è compatta e unita come un sol uomo.
Ma Freud ignora che la diversità, in particolare la diversità genetica, è la condizione necessaria, benché da sola insufficiente, perché una specie sopravviva e si adatti alle mutevoli condizioni ambientali. L’identità individuale/collettivo, in particolare la conservazione della specie, è il cardine del Freud-pensiero, grazie a una topologia dove ogni individuo è intorno di sé stesso. Nel freudismo l’altro non esiste come fattore costitutivo di una popolazione. Alla fine del saggio qui tradotto, Freud conclude per l’esistenza di un Super-Io civile, duplicato dell’individuale. Ovviamente, non basta che la psicologia confermi la metapsicologia pulsionale. Anche i deliri paranoici si basano su conferme empiriche e sono perciò inconfutabili.
Gli individui freudiani interagirono tra loro fugacemente ai tempi mitici del parricidio, gabellato per verità storica (cap. 8), poi si polverizzarono di nuovo. Il legame sociale per Freud era puramente identificatorio, sempre verticale, rivolto al padre morto, mai orizzontale rivolto al fratello vivo. L’economia libidica non legava gli individui. Non dava spazio a una scienza del collettivo, per esempio al darwinismo. Freud operò con un Darwin di fantasia, quello falso dell’orda primitiva, governata dal mitico stallone, das Männchen, a conferma del mito del parricidio e della castrazione. Non aprì prospettive di una scienza dei sistemi complessi. La lasciò a Darwin, di cui si disinteressò. La biologia freudiana è predarwiniana: presuppone la conservazione della specie (v. cap. 6). Non considera la variazione di una specie all’altra. La libertà individuale non esiste e neppure la cooperazione tra individui, oppressi da un senso di colpa per un delitto immaginario. Tutta la sociologia freudiana si riduce al complesso paterno in versione maschile standard: castrazione e parricidio. Trascurò la variabilità e il contributo della femminilità, ridotta a soddisfazione del maschio e a maternità.
Il mio disagio a leggere Freud è generale. Tralascio i particolari inattendibili della mitologia freudiana, tipicamente la congettura qui proposta della rimozione organica delle sensazioni olfattive, dovuta alla stazione eretta, che allontana il naso da terra. La stazione eretta fu una conquista australopiteca, ben prima di Homo sapiens, che se la trovò bell’e fatta qualche milione di anni dopo. Freud non poteva sapere dello scheletro fossile di Lucy, l’australopiteca scoperta nel 1974 in Etiopia da Mary Leaky. Fu quella ominide che circa tre milioni di anni fa discese dagli alberi della foresta, che la proteggevano, e si incamminò per la savana piena di pericoli, ben prima di Homo sapiens. Perciò Freud, da uomo cartesiano di scienza, avrebbe dovuto dubitare del valore scientifico della coazione a trovare conferme verosimili alle proprie fantasie genealogiche, ben sapendo dal Discorso sul metodo, che tutto il verosimile è falso.
Poi posso giustificare Freud. Posso dire che il suo giudizio è storico, che racconta una certa storia, quella edipica, quindi particolare, quindi locale, che non si preoccupa di confutare. Posso riconoscere le peripezie della verità materiale nella verità storica. Posso riconoscere che a Freud manchi la dimensione del giudizio globale. Ma mi è difficile accettare l’assenza di connessione tra locale e globale, cioè l’ignoranza delle interazioni individuali, la materia prima della vita sociale, anche se in Freud c’è la percezione del fatto: “Forse si comincia a chiarire che l’elemento civile è dato dal primo tentativo di regolare le relazioni sociali” (cap. 3). Furono le interazioni positive a decretare il successo evolutivo di Homo sapiens rispetto ad altri congeneri lungo l’arco della sua breve vita di 300.000 anni, senza ricorrere a guerre ma solo grazie alla cooperazione. Homo neanderthalensis si estinse 40.000 anni fa. Certo, dopo l’invenzione dell’agricoltura e la fondazione dei grandi insediamenti urbanistici, sono emerse anche le interazioni negative, le guerre, come se l’aggressività del genere Homo richiedesse grandi numeri per manifestarsi. Le prime testimonianze fossili di guerre risalgono solo a 12.000 anni fa. Homo homini lupus emerse molto tardi. Freud non solo non lo sapeva, ma neppure lo concepiva. La sua orda primitiva, in questo testo rinominata “famiglia primitiva”, era troppo piccola per ospitare eserciti.
A quello teorico si sovrappone il buco linguistico: il termine Interaktion non ricorre nelle 7000 pagine delle Sigmund Freud gesammelte Werke. Certo, mi si dirà, Freud era un medico, non un fisico delle particelle o dei sistemi complessi alla Poincaré o alla Parisi. Da medico aveva a cuore la salute psichica dei suoi pazienti, a prescindere dal contesto filosofico in cui la pensava. A ciò si aggiunga che la medicina non è una scienza ma una tecnica; è un’ingegneria biologica che applica alla salute scoperte scientifiche di altre scienze. Affidando la psicanalisi al modulo eziopatogenetico della patologia medica, Freud commise un passo falso, da attribuire alla propria resistenza all’analisi.
Capisco tutto, ma dall’inventore della psicanalisi, che formulò un’ipotesi scientifica di stampo galileiano, paragonabile al moto inerziale, come l’inconscio, mi sarei aspettato un’apertura scientifica maggiore e soprattutto più moderna; dopo tutto, la scienza aristotelica, intesa come scire per causas, fu condannata dal tribunale dell’Inquisizione nel 1633, schierato contro Galilei. O non bastano quattro secoli per passare in giudicato?
Forse non bastano. I rigurgiti ippocratici, da cui siamo travolti in questi tempi di pandemia, in primis il vaccino come fantasma eziologico di chissà quali mali, giustificano il mio disagio intellettuale a leggere Freud in formato aristotelico, dove regna l’“imperativo bisogno di causalità”. Ci vuole pazienza a sopportare i no-vax, che non vogliono sentire parlare di interazioni interindividuali, neppure di quelle in cui il virus si trasmette. Non meno insopportabili di Freud, che non citò mai Galilei, essendo affascinato da Leonardo, sempre per via del complesso paterno individuale. Fu l’errore di Freud ma fatale: considerare il patologico come esclusivamente individuale. O non aveva vissuto anch’egli una pandemia, che gli portò via la diletta figlia Sophie? Insomma, la scientificità di Freud è esile. Meglio di me l’anno capito i praghesi, dotati di umorismo caustico, che rappresentano Freud appeso a una trave su un abisso. È il Super-Io? Finché tiene…
Ora passo provvisoriamente dalla parte di Freud, alla sua psicologia individualista delle masse. Non posso dire che Freud non sia rigoroso. Dal suo assioma individualista discende il primo teorema: die Feindseligkeit, l’ostilità dell’individuo alla civiltà, da cui deriva come corollario il disagio, das Unbehagen, nel vivere civile. L’individuo sarebbe ostile alla civiltà, perché in cambio della protezione dai pericoli ambientali naturali, offerta dal vivere in comunità, gli si richiede la rinunzia a certe soddisfazioni pulsionali – der Triebverzicht – e l’obbligo di lavorare per la comunità, con un compenso inferiore all’equo. La rinuncia è in parte sessuale, per via dell’interdizione dell’incesto, un fatto ricalibrato in modo meno schematico di Freud, per esempio da Lévi-Strauss. Nel caso delle pulsioni di morte la richiesta della civiltà è però ancora più stringente: non solo vieta di uccidere l’altro, ma impone che l’aggressività verso l’altro si rivolga su di sé. Quando si dice la coerenza.
Il difetto della costruzione freudiana sta nel manico, nel supporre un primum pulsionale immodificabile. È un difetto che non va da solo. Infatti, si accompagna a un secondo, sintattico quanto il primo era semantico: nella sistemazione psichica freudiana manca la nozione di variabilità. La mancanza della nozione di interazione nella summa freudiana consegue alla mancanza di variabilità. Individui diversi interagiscono in modo diverso, se portano valori diversi delle variabili esistenziali. Se tutti gli individui sono uguali, tra loro non ci può essere interazione. Siamo nella condizione della massa, non della civiltà. L’effetto che genera in chi legge è scontato: il disagio intellettuale.
Credo che questa lettura semplificata di Freud, centrata sulla doppia carenza di variabilità e di interazioni collettive, abbia una certa coerenza. Soprattutto credo che offra un appiglio per una modifica sostanziale del freudismo – la rinuncia alla metapsicologia pulsionale – e inauguri la sua riformulazione scientifica. Ammesso che possa interessare qualcuno, dati i tempi sfavorevoli allo sviluppo scientifico, già denunciati dallo stesso Freud in questo testo e in altri precedenti, insisto sulla potenziale ma inespressa scientificità dell’approccio freudiano. Il compito non è da poco: si tratta di introdurre nel freudismo due concetti scientifici ad esso estranei, quelli di variabilità e di interazione, per uscire dalle secche del suo individualismo.
Ben sapendo che “la sostituzione del potere della comunità a quello del singolo è il passo decisivo verso la civiltà” (cap. 3), come Freud stesso riconosce in questo scritto, propongo di rinnovare il freudismo su quattro assiomi, tre freudiani e uno lacaniano: il primo, l’inconscio come sapere che non si sa di sapere, il secondo, la rimozione originaria, come base trascendentale della vicenda epistemica di Homo sapiens, il terzo, la Nachträglichkeit o acquisizione differita del sapere, grazie al lavoro analitico, e il quarto il transfert come funzione che instaura nella cura il soggetto supposto sapere. Questo approccio scientifico al freudismo fa decadere tutta la metapsicologia pulsionale con il suo assetto eziologico, non poco delirante. Filosoficamente parlando, si tratta del programma di transizione dall’ontologia all’epistemologia. Non è facile da frequentare. Dico quel che ci vuole e che mancò a Freud: la curiosità intellettuale come nerbo del procedere scientifico; intendo la voglia di vedere in modo nuovo, meno individualistico e più collettivo, cose ormai vecchie, su cui campano i vecchi analisti, come il parricidio e l’angoscia di castrazione, che sono solo l’individualistico contorno nevrotico della cosa freudiana.
1
Non si può sfuggire all’impressione che in generale gli uomini misurino con falsi metri, che aspirino per sé al potere, al successo, alla ricchezza e li ammirino negli altri, ma sottovalutando i veri valori della vita. Pure, nel formulare un qualsiasi giudizio generale di questo tipo, c’è il pericolo di dimenticare la varietà del mondo umano e della sua vita psichica. Vi sono uomini a cui i contemporanei non negano l’ammirazione, benché la loro grandezza poggi su doti e prestazioni del tutto estranee agli scopi e agli ideali della folla. È facile supporre che, comunque, solo una minoranza finisca con il riconoscere la grandezza di questi uomini, e che la maggioranza non ne voglia sapere di loro. Ma potrebbe non essere così semplice, grazie alle discrepanze tra pensiero e azione degli uomini e alla molteplicità dei loro moti di desiderio.
Uno di questi uomini eccezionali si definisce, per lettera, mio amico. Gli avevo mandato il mio piccolo scritto che tratta la religione come illusione, e mi rispose di concordare in pieno con il mio giudizio sulla religione, ma di deplorare che non avessi apprezzato l’autentica fonte della religiosità. Sarebbe un particolare sentimento che non lo abbandonerebbe mai e sarebbe confermato da molti altri e presupposto in milioni di uomini. Chiamerebbe questo sentimento senso dell’“eternità”, un sentimento di qualcosa di illimitato, di sconfinato, per così dire di “oceanico”. Sarebbe un fatto puramente soggettivo, non un articolo di fede; non sarebbe collegato ad alcuna garanzia d’immortalità personale, ma sarebbe la fonte di quella energia religiosa, catturata e incanalata, e indubbiamente poi anche esaurita, dalle varie chiese e sistemi religiosi. Solo sulla base di questo sentimento oceanico potremmo, a suo parere, dirci religiosi, anche rifiutando ogni fede e ogni illusione.
Questa dichiarazione del mio stimatissimo amico, che una volta ha esaltato poeticamente la magia dell’illusione,1 mi ha causato non poche difficoltà. Io stesso non riesco a scoprire in me questo sentimento “oceanico”. Non è semplice elaborare scientificamente i sentimenti. Si può tentare di descriverne gli indizi fisiologici. Dove ciò non funziona – e temo che anche il sentimento oceanico si sottragga a tale caratterizzazione – non resta che attenersi al contenuto rappresentativo più connesso in via associativa al sentimento. Se ho ben compreso, il mio amico allude a ciò che un drammaturgo originale e piuttosto bizzarro offre al suo eroe come consolazione di fronte alla morte volontaria: “Fuori da questo mondo non possiamo cadere”.2 È dunque un sentimento di indissolubile legame, di appartenenza al complesso del mondo esterno. Potrei dire che per me ciò ha piuttosto il carattere dell’intuizione intellettuale, non senza una risonanza emotiva di accompagnamento, che comunque non manca anche ad altri atti di pensiero di analoga portata. Per quanto mi riguarda non riesco proprio a convincermi della natura primaria di un tale sentimento. Non per questo posso però contestarne la presenza effettiva in altre persone. C’è solo da chiedersi se sia correttamente interpretato e se vada riconosciuto come fons et origo di tutti i bisogni religiosi.
Non ho nulla da addurre che influenzi in modo decisivo la soluzione di questo problema. L’idea che l’uomo debba avere conoscenza della propria connessione con il mondo circostante mediante un sentimento diretto e immediato, orientato fin dall'inizio in tale direzione, suona talmente strana e si accorda così male al tessuto della nostra psicologia da tentare una derivazione psicanalitica, ossia genetica, di tale sentimento. Disponiamo allora della seguente linea di pensiero.
Normalmente nulla è per noi più sicuro del sentimento di sé, del nostro proprio Io. Questo Io ci appare autonomo, unitario, ben contrapposto a ogni altra cosa. Che tale apparenza sia un inganno, che invece l’Io abbia verso l’interno, senza alcuna delimitazione netta, la propria continuazione in un’entità psichica inconscia, che noi designiamo come Es, e per la quale l’Io funge per così dire da facciata, lo abbiamo appreso per la prima volta dalla ricerca psicanalitica, da cui ci attendiamo molte altre informazioni sul rapporto tra Io ed Es. Ma verso l’esterno, almeno, l’Io sembra difendere linee di confine chiare e nette. Solo in uno stato, in verità inusuale, ma non tale da poter essere giudicato come morboso, le cose vanno diversamente. Al culmine dell’innamoramento, il confine tra Io e oggetto minaccia di sfumare. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che Io e Tu sono una cosa sola, ed è pronto a comportarsi come se fosse davvero così. Ciò che può transitoriamente esser superato grazie a una funzione fisiologica, deve naturalmente poter essere turbato da processi morbosi. La patologia ci mostra un gran numero di stati in cui la delimitazione dell’Io rispetto al mondo esterno diventa incerta o in cui i confini sono effettivamente tracciati in modo scorretto; ci sono casi in cui parti del proprio corpo, perfino porzioni della propria vita psichica, percezioni, pensieri, sentimenti, appaiono come estranei e non appartenenti all'Io; ci sono altri casi in cui al mondo esterno viene attribuito ciò che manifestamente ha avuto origine nell’Io e che da esso dovrebbe essere riconosciuto. Così perfino il sentimento dell'Io è soggetto a disturbi e i confini dell’Io non sono stabili.
Un’ulteriore riflessione dice che questo sentimento dell'Io dell’adulto non può essere stato così fin dall’inizio. Deve aver compiuto uno sviluppo naturalmente non documentabile, ma che si può ricostruire con sufficiente verosimiglianza.3 Il lattante non distingue ancora il proprio Io da un mondo esterno in quanto fonte delle sensazioni che gli affluiscono. Impara gradualmente su stimoli diversi. Deve fargli la più forte impressione che alcune fonti di eccitamento, nelle quali più tardi riconoscerà i propri organi corporei, possano trasmettergli sensazioni in ogni momento, mentre altre – fra cui quella più desiderata, il seno materno – temporaneamente gli si sottraggono e gli sono riportate solo grazie al grido che reclama. Così si contrappone per la prima volta all’Io un “oggetto” come qualcosa che si trova “fuori” ed è spinto ad apparire solo grazie a un’azione particolare. Un ulteriore impulso al distacco dell’Io dalla massa delle sensazioni, e quindi a riconoscere un “fuori”, un mondo esterno, viene dalle abbondanti, molteplici, inevitabili sensazioni di dolore e avversione, che il “principio di piacere”, dominante senza limiti, dice di superare ed evitare. Sorge la tendenza a tenere distaccato dall’Io tutto ciò che può divenire fonte di tale avversione, a rigettarlo all’esterno e a formare un puro lo-piacere, di fronte al quale sta un fuori estraneo e minaccioso. I confini di questo primitivo Io-piacere non possono però sottrarsi alla correzione dell’esperienza. Parte di ciò cui non si vorrebbe rinunciare, perché dà piacere, è non-Io, oggetto; parte della pena che si vuole espellere si dimostra inseparabile dall’Io, perché di origine interna. Si impara a riconoscere un procedimento grazie al quale, attraverso un consapevole orientamento delle proprie attività sensoriali e un’opportuna azione muscolare, si riesce a distinguere ciò che è interno, appartenente all’Io, e ciò che è esterno, originante da un mondo esterno; in tal modo si compie il primo passo verso l’avvento del principio di realtà, che deve dominare gli sviluppi futuri. Questa differenziazione serve naturalmente all’intento pratico di difendersi da certe sensazioni avverse già provate e dalle incombenti. Diventa poi punto di partenza di alcuni importanti disturbi patologici che, per difendersi da taluni eccitamenti avversi sorti al suo interno, l’Io non applichi metodi diversi da quelli che servono contro l’esteriorità avversa.
In tal modo, dunque, l’Io si distacca dal mondo esterno. Detto meglio, all’origine l’Io include tutto e poi scinde da sé un mondo esterno. Il nostro attuale sentimento dell’Io e perciò solo l’avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, anzi onnicomprensivo, corrispondente all’intima comunione dell’Io con l’ambiente. Ammesso che – in misura più o meno notevole – tale sentimento primario dell’Io si sia conservato nella vita psichica di molte persone, si collocherebbe, come una sorta di controparte, accanto al più angusto e più nettamente delimitato senso dell’Io della maturità, e i contenuti rappresentativi ad esso conformi sarebbero precisamente quelli dell’illimitatezza e della comunione con il tutto, ossia quelli con cui il mio amico spiega il sentimento “oceanico”. Ma abbiamo il diritto di ammettere la sopravvivenza dell’originario accanto al successivo che ne è derivato?
Indubbiamente sì; un tale evento non sorprende né in campo psichico né in altri campi. Per la serie animale ci atteniamo all’ipotesi che le specie più evolute siano derivate dalle inferiori. Eppure troviamo ancor oggi tra i viventi tutte le forme semplici di vita. Il genere dei grandi sauri si è estinto e ha ceduto il posto ai mammiferi, ma un vero rappresentante di quel genere, il coccodrillo, vive ancora tra noi. L’analogia può essere troppo remota; risulta inoltre viziata dalla circostanza che le specie inferiori che sopravvivono non sono per lo più i veri antenati delle specie attuali altamente sviluppate. Gli anelli intermedi si sono di regola estinti e ci sono noti solo per ricostruzione. In campo psichico la conservazione del primitivo accanto al risultante trasformato è invece così frequente che è superfluo dimostrarla con esempi. L’evento consegue per lo più a una scissione nello sviluppo. Una parte (quantitativamente intesa) di un atteggiamento, di un moto pulsionale, è rimasta inalterata, mentre un’altra ha sperimentato l’ulteriore sviluppo.
Tocchiamo qui il problema più generale della conservazione nello psichico, a tutt’oggi scarsamente trattato, ma tanto stimolante e importante che, pur essendo il pretesto insufficiente, possiamo permetterci di dedicarvi un po’ d’attenzione. Da quando abbiamo superato l’errore che l’abituale oblio significhi distruggere la traccia mnestica, cioè l’annullamento, propendiamo per l’ipotesi opposta, cioè che nella vita psichica nulla possa perire una volta formato, che tutto in qualche modo si conservi e, in circostanze opportune, ad esempio attraverso una regressione spinta, si possa riportare in primo piano.
Cerchiamo di chiarire il contenuto di tale ipotesi con un paragone in un altro campo. Prendiamo come esempio l’evoluzione della Città Eterna.4 Gli storici ci insegnano che la Roma più antica fu la Roma quadrata, un insediamento cintato sul Palatino. Seguì la fase del Septimontium, un’associazione degli insediamenti sui singoli colli; poi la città delimitata dalle mura serviane e, più tardi ancora, dopo tutte le trasformazioni del periodo repubblicano e del primo periodo imperiale, la città che l’imperatore Aureliano recinse con le sue mura. Non vogliamo seguire ulteriormente le trasformazioni dell’Urbe; ci chiediamo cosa di tali stadi precedenti possa ancora trovare nella Roma odierna un visitatore che pensiamo dotato delle più vaste conoscenze storiche e topografiche. Salvo poche interruzioni, vedrà quasi immutate le mura aureliane. In alcuni luoghi potrà trovare tratti delle mura serviane portate alla luce dagli scavi. Se ne saprà abbastanza – più dell’archeologia contemporanea – potrà forse tracciare sulla pianta della città l’intero percorso di tali mura e il perimetro della Roma quadrata. Degli edifici inclusi un tempo in quest’antica cornice non troverà nulla, o solo scarsi resti; infatti, non esistono più. Il massimo che un’ottima conoscenza della Roma repubblicana potrebbe consentirgli sarebbe di sapere indicare i luoghi dove sorgevano i templi e gli edifici pubblici di quel periodo. Ciò che oggi occupa questi luoghi sono rovine; non si tratta tuttavia delle rovine di tali edifici medesimi, ma di quelle di loro rifacimenti posteriori dopo incendi e distruzioni. Non c’è bisogno di ricordare che tutti questi resti dell’antica Roma sono disseminati nell’intrico di una grande città sorta negli ultimi secoli, dal Rinascimento in poi. Qualcosa di antico è senza dubbio tuttora sepolto nel suolo della città o sotto i suoi fabbricati moderni. Questo è il modo in cui la conservazione del passato ci si presenta in luoghi storici come Roma.
Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, in cui nulla di ciò che una volta ha acquisito esistenza è scomparso, in cui accanto all’ultima fase di sviluppo sussistono tutte le fasi precedenti. Nel caso di Roma ciò significherebbe quindi che sul Palatino i palazzi dei Cesari e il Septizonium di Settimio Severo si ergerebbero ancora nella loro antica imponenza, che Castel Sant’Angelo porterebbe ancora sulla sua sommità le belle statue di cui fu adorno fino all’assedio dei Goti, e così via. Ma non basta: nel posto occupato dal Palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio dovesse esser demolito, il tempio di Giove Capitolino, e non solo nel suo aspetto più recente, quale lo videro i romani dell’epoca imperiale, ma anche in quello originario, quando ancora presentava forme etrusche ed era ornato di antefisse di argilla. Dove ora sorge il Colosseo potremmo adesso ammirare la scomparsa Domus aurea di Nerone; sulla piazza del Pantheon troveremmo non solo il Pantheon odierno, quale ci fu lasciato da Adriano, ma, sul medesimo suolo, anche l’edificio originario di Marco Agrippa; sì, lo stesso terreno risulterebbe occupato dalla chiesa di Santa Maria sopra Minerva e dall’antico tempio su cui fu costruita. E, a evocare l’una o l’altra scena, basterebbe forse solo variare la direzione dello sguardo o il punto di vista dell’osservatore.
Non ha chiaramente senso sviluppare oltre questa fantasia; porta all’inimmaginabile, anzi all’assurdo. Volendo raffigurare il succedersi storico in termini spaziali, si può solo con giustapposizioni nello spazio; il medesimo spazio non può venir riempito in due modi diversi. Il nostro tentativo sembra un gioco ozioso, che ha una sola giustificazione: mostrarci quanto siamo lungi dal dominare le peculiarità della vita psichica con rappresentazioni intuitive.
Dobbiamo ancora affrontare un’obiezione. Ci si chiede perché abbiamo scelto proprio il passato di una città per paragonarlo al passato psichico. L’ipotesi della conservazione di tutto il passato vale per la vita psichica solo a condizione che l’organo della psiche sia rimasto intatto, che il suo tessuto non sia stato danneggiato da un trauma o da un’infiammazione. Ma influssi distruttivi paragonabili a queste cause di malattia non mancano nella storia di nessuna città, neppure di città con un passato meno movimentato di quello di Roma, anche se, come Londra, non sono mai state funestate da un nemico. Lo sviluppo più pacifico di una città include demolizioni e sostituzioni di edifici; la città è quindi fin dall’inizio inadatta al confronto con un organismo psichico.
Cedendo a questa obiezione e rinunciando a un vivace effetto di contrasto, rivolgiamoci a un oggetto di confronto più consono, come il corpo di un animale o di un umano. Ma anche qui troviamo la stessa cosa. Le fasi anteriori dello sviluppo non sono più conservate in nessun senso; si sono dissolte in quelle posteriori, cui hanno fornito il materiale. L’embrione non è dimostrabile nell’adulto; la ghiandola del timo posseduta dal bambino dopo la pubertà viene sostituita da tessuto connettivo, ma, di per sé, non esiste più; nelle ossa lunghe dell’uomo maturo posso certo tracciare il contorno dell’osso del bambino, ma, come tale, questo è scomparso: si è allungato e ispessito fino a raggiungere la sua forma definitiva. Resta quindi che solo nello psichico è possibile tale conservazione di tutti gli stadi anteriori accanto alla strutturazione finale, e che non siamo in grado di raffigurare questa presenza in modo intuitivo.
Forse andiamo troppo avanti in questa ipotesi. Forse dovremmo accontentarci di asserire che nella vita psichica il passato si può conservare e non deve necessariamente essere distrutto. È pur possibile che – di norma o eccezionalmente – anche in ambito psichico qualcosa di ciò che è antico sia cancellato o assorbito al punto da non poter più con alcun mezzo essere restaurato o richiamato in vita, o che, in generale, la conservazione dipenda da certe condizioni favorevoli. È possibile, ma non ne sappiamo nulla. Possiamo solo ribadire che nella vita psichica la conservazione del passato è regola più che sconcertante eccezione.
Se così siamo del tutto pronti a riconoscere che un sentimento “oceanico” esiste in molte persone, e tendiamo a ricondurlo a una prima fase del sentimento dell’Io, si pone la questione di quale diritto abbia questo sentimento a essere considerato la fonte dei bisogni religiosi.
Questa pretesa non mi sembra una forzatura. Un sentimento può essere fonte di energia solo se esprime un forte bisogno. Quanto ai bisogni religiosi, la loro derivazione dall’impotenza infantile e dalla conseguente nostalgia del padre mi sembra incontrovertibile, tanto più che questo sentimento non si limita a perpetuarsi oltre la vita del bambino, ma si alimenta di continuo nell’angoscia per la forza del destino. Non saprei indicare un bisogno infantile di intensità pari alla protezione del padre. Il ruolo del sentimento oceanico, che potrebbe restaura un illimitato narcisismo, esce di scena. L’origine dell’atteggiamento religioso si può far risalire nei suoi chiari contorni fino al sentimento d’impotenza infantile. Dietro può esserci ancora qualcos’altro, per ora avvolto nella nebbia.
Posso immaginare che in un secondo tempo il sentimento oceanico sia entrato in relazione con la religione. Questo essere uno con il tutto, che è il suo contenuto ideativo, ci parla di un primo tentativo di consolazione religiosa, un altro modo di rinnegare il pericolo che l’Io riconosce incombere dal mondo esterno. Confesso di nuovo che mi è molto difficile lavorare con queste grandezze a stento afferrabili. Un altro mio amico, che un’insaziabile sete di sapere ha spinto a compiere gli esperimenti più inusuali fino a farne un enciclopedico, mi ha assicurato che nelle pratiche Yoga, estraniandosi dal mondo esterno, fissando l’attenzione sulle funzioni corporee, applicando metodi particolari di respirazione, possiamo di fatto destare in noi nuove sensazioni e sentimenti universali, che considera regressioni a stati primitivi della vita psichica da tempo sepolti. Vi scorge un fondamento per così dire fisiologico di molte saggezze della mistica; sono evidenti i rapporti con certe modificazioni oscure della vita psichica come le trance e le estasi. Ma ancora una volta sono spinto a esclamare con le parole del “Tuffatore” di Schiller:
…Es freue sich, wer da atmet im rosigten Licht.
[… Gioisca, chi qui respira nella luce rosata.]
2
Il mio scritto Il futuro di un’illusione (1927) trattava assai meno delle fonti più profonde del sentimento religioso che di ciò che l’uomo comune intende per sua religione, cioè il sistema di dottrine e di promesse che, da un lato, gli spiega con invidiabile compiutezza gli enigmi di questo mondo, dall'altro gli garantisce che una Provvidenza benigna e sollecita veglierà sulla sua vita e in un’esistenza nell’aldilà lo ripagherà di eventuali interdizioni patite su questa terra. L’uomo comune non può rappresentarsi questa Provvidenza se non nella persona di un padre straordinariamente elevato. Solo un essere simile può comprendere i bisogni del figlio dell’uomo, essere commosso dalle sue preghiere, placato dai segni del suo pentimento. Tutto è così chiaramente infantile, così irrealistico, da rendere doloroso al sentimento amico dell’umanità pensare che la grande maggioranza dei mortali non potrà mai sollevarsi al di sopra di questa concezione della vita. Ancora più umiliante è scoprire che grandissimo è il numero di chi, vivendo oggi, deve riconoscere che questa religione non è sostenibile, eppure tenta di difenderla a palmo a palmo, con una serie di penose azioni di ripiegamento. Si vorrebbe mescolarsi alle schiere dei credenti per rivolgere, ai filosofi che credono di salvare il Dio della religione sostituendolo con un principio impersonale, vago e astratto, il seguente monito: “Non nominare il nome di Dio invano!” Se alcuni dei più grandi spiriti del passato hanno fatto lo stesso, non è lecito richiamarsi a loro. Si sa perché dovettero.
Torniamo all’uomo comune e alla sua religione, l’unica che dovrebbe portare questo nome. Ci viene anzitutto in mente la nota dichiarazione di uno dei nostri grandi poeti e saggi, che si pronuncia circa il rapporto tra religione, arte e scienza. Suona così:
Wer Wissenschaft und Kunst besitzt,
hat auch Religion;
Wer jene beiden nicht besitzt,
der habe Religion.
[Chi possiede scienza e arte
ha anche religione;
Chi non possiede entrambe,
abbia la religione!] 5
Questo detto contrappone da un lato la religione alle due più alte realizzazioni dell’uomo, dall’altro afferma che, per il loro valore nella vita, possono rappresentarsi o sostituirsi a vicenda. Volendo contestare la religione anche all’uomo comune, è chiaro che non abbiamo dalla nostra l’autorità del poeta. Tentiamo una via particolare per avvicinarci all’apprezzamento del suo enunciato. La vita, come ci è imposta, è troppo dura per noi; ci porta troppi dolori, delusioni, compiti impossibili. Per sopportarla non possiamo fare a meno di mezzi di sollievo. (“Non va senza costruzioni ausiliarie”, ci ha detto Theodor Fontane.) Tre sono forse tali mezzi: diversivi potenti, che ci fanno sottovalutare la nostra miseria; soddisfazioni sostitutive, che la riducono; stupefacenti, che ci rendono insensibili. Qualcosa di simile è indispensabile.6 Voltaire allude appunto ai diversivi, concludendo il suo Candide con il consiglio di coltivare il proprio giardino; anche l’attività scientifica è un diversivo di questo genere. Le soddisfazioni sostitutive che l’arte offre agli uomini sono illusioni contrastanti con la realtà; non per questo, tuttavia, sono psichicamente meno efficaci, data il ruolo che la fantasia ha assunto nella vita psichica. Gli stupefacenti influiscono sul nostro corpo, alterando il chimismo. Indicare il posto della religione entro questa serie non è semplice. Dovremo prenderla più alla larga.
La domanda sullo scopo della vita umana è stata posta innumerevoli volte; non ha ancora trovato una risposta soddisfacente, forse nemmeno la consente. Alcuni di quelli che l’hanno posta hanno aggiunto che, se dovesse darsi che la vita non ha uno scopo, perderebbe per loro ogni valore. Ma tale minaccia non cambia nulla. Sembra piuttosto che si abbia diritto a respingere la domanda. Sua premessa appare infatti la presunzione umana, di cui conosciamo già tante altre manifestazioni. Non si parla di scopo della vita degli animali, sempre che il loro destino non consista per caso nel porsi al servizio dell’uomo. Ma neanche questo è sostenibile; di molti animali l’uomo non sa infatti che farsene, salvo descriverli, classificarli, studiarli; innumerevoli specie animali si sono sottratte persino a questa utilizzazione, essendo vissute ed essendosi estinte prima che l’uomo le vedesse. Ancora una volta, solo la religione sa rispondere alla domanda sullo scopo della vita. Non sbaglieremmo di molto concludendo che l’idea di uno scopo della vita sta e cade insieme con il sistema religioso.
Ci chiederemo quindi, meno ambiziosamente, che cosa, attraverso il loro comportamento, gli uomini stessi ci facciano riconoscere come scopo e intenzione della loro vita, che cosa pretendano da essa, che cosa desiderino ottenere in essa. Mancare la risposta è quasi impossibile: tendono alla felicità, vogliono diventare e rimanere felici. Questa aspirazione ha due facce, una meta positiva e una negativa: mira da un lato all'assenza del dolore e del dispiacere, dall’altro a vivere sentimenti intensi di piacere. Nella sua accezione più stretta la parola “felicità” si riferisce solo al secondo aspetto. Conformemente a questa bipartizione delle mete l’attività degli uomini si sviluppa in due direzioni, secondo che cerchi di raggiungere – in misura prevalente o addirittura esclusiva – l’uno o l’altro obiettivo.
Come si vede, è semplicemente il programma del principio di piacere a porre lo scopo dell’esistenza. Fin dall’inizio tale principio domina il funzionamento dell’apparato psichico; non può esserci dubbio sul suo finalismo, eppure il suo programma è in conflitto con il mondo intero, con il macrocosmo e non meno con il microcosmo. È del tutto ineseguibile; tutti i dispositivi dell’universo vi si oppongono; si direbbe che il piano della “creazione” non includa che l’uomo sia “felice”. Quel che in senso più stretto si chiama felicità, proviene dalla soddisfazione, per lo più improvvisa, di bisogni fortemente compressi e per sua natura è possibile solo come fenomeno episodico. Qualsiasi perdurare di una situazione agognata dal principio di piacere produce solo un sentimento di moderato benessere; siamo così predisposti da poter godere intensamente solo del contrasto, molto meno dello stato delle cose.7 Le nostre possibilità di essere felici sono dunque già limitate dalla nostra costituzione. Provare infelicità è assai meno difficile. La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia; dal mondo esterno che contro di noi può accanirsi con forze distruttive inesorabili e di potenza immane; infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall’ultima fonte è da noi avvertita come la più dolorosa di ogni altra; propendiamo a considerarla in un certo senso un ingrediente superfluo, sebbene possa essere non meno fatalmente inevitabile della sofferenza d’altra origine.
Nessuna meraviglia se, sotto la pressione di queste possibilità di soffrire, gli uomini riducono di solito la loro pretesa di felicità, così come, sotto l’influsso del mondo esterno, anche lo stesso principio di piacere si sia trasformato nel più modesto principio di realtà, ritenendosi felici per il solo fatto di scampare all’infelicità, di sopportare la sofferenza, e se, nel senso più generale, il compito di evitare il dolore spinge sullo sfondo quello di procurarsi il piacere. La riflessione insegna che è possibile tentare di risolvere questo compito per vie molto diverse, tutte raccomandate dalle varie scuole della saggezza del vivere e percorse dagli uomini. L’illimitata soddisfazione di tutti i bisogni si propone come la condotta di vita più seducente; ma significa anteporre il godimento alla prudenza e, dopo non molto, si castiga. Gli altri metodi, il cui intento prevalente è di evitare l’avversione, si diversificano secondo la fonte di avversione cui dedicano maggiore attenzione. Esistono processi estremi e moderati, unilaterali e concernenti più aspetti insieme. La solitudine volontaria, il distanziarsi dagli altri, sono il riparo più immediato contro il tormento che possono arrecarci le relazioni con altri uomini. La felicità conseguibile in tal modo è, ovviamente, quella della quiete. Contro il temuto mondo esterno non possiamo difenderci che distogliendoci in qualche modo, volendo portare a termine il compito da soli. C’è naturalmente un altro modo migliore: con l’aiuto della tecnica, guidata dalla scienza, in quanto membri della comunità umana aggredire la natura e assoggettarla al volere umano. Si lavora allora con tutti per il bene di tutti. I metodi più interessanti per prevenire la sofferenza sono però quelli che cercano di influire sul proprio organismo. Dopo tutto ogni sofferenza non è che sensazione; sussiste solo nella misura in cui la proviamo e la proviamo solo perché il nostro organismo è predisposto in un certo modo.
II più rozzo, ma anche il più efficace metodo per influire sull’organismo è chimico, l’intossicazione. Non credo che qualcuno sia in grado di penetrarne il meccanismo, ma è un fatto che esistono sostanze estranee al corpo, la cui presenza nel sangue e nei tessuti ci procura immediate sensazioni piacevoli, alterando in pari tempo le condizioni della nostra vita sensoriale al punto da renderci incapaci di accogliere moti avversi. I due effetti non si limitano a essere simultanei, sembrano anche intimamente connessi. Anche nel nostro stesso chimismo devono però esserci sostanze che producono risultati simili; conosciamo, infatti, almeno uno stato patologico, la mania, in cui si produce tale comportamento simile all’ebbrezza senza che sia stato introdotto alcun tossico stupefacente. La nostra vita psichica normale presenta inoltre delle oscillazioni: il piacere può liberarsi con maggiore o minore facilità, in parallelo a una diminuita o accresciuta recettività all’avversione. È molto deplorevole che l’aspetto tossico dei processi psichici si sia sottratto a tutt’oggi alla ricerca scientifica. Gli effetti degli stupefacenti nella lotta per la felicità e nella difesa dalla miseria sono considerati talmente benefici che individui e popoli hanno loro riservato un posto stabile nella propria economia libidica. Dobbiamo ad essi non solo l’acquisizione immediata di piacere, ma anche parte, ardentemente desiderata, d’indipendenza dal mondo esterno. Con l’aiuto dello “scacciapensieri” sappiamo dunque di poterci sempre sottrarre alla pressione della realtà e trovare riparo in un mondo nostro, che ci offra condizioni sensitive migliori. È noto che proprio questa qualità degli stupefacenti ne condiziona il pericolo e la dannosità. Per colpa loro in talune circostanze vanno inutilmente perse grandi quantità di energia, che potrebbero essere applicate per migliorare la sorte umana.
La complessa costruzione del nostro apparato psichico consente però anche di esercitare sull’organismo tutta una serie di altri influssi. Come la soddisfazione pulsionale è felicità, così il mondo esterno è causa di grave sofferenza quando ci fa vivere in condizioni disagiate e rifiuta di saziare i nostri bisogni. Possiamo allora sperare di liberarci di parte della sofferenza, agendo su tali moti pulsionali. Questo tipo di difesa dal dolore non tocca più l’apparato sensoriale, ma tenta di dominare le fonti interne dei bisogni. In forma estrema ciò accade quando si mortificano le pulsioni, come insegna la saggezza di vita orientale e fa la pratica dello Yoga. Se ci si riesce, ne deriva indubbiamente anche la rinuncia ad ogni altra attività (è la vita a esser sacrificata), ossia, per altra via, si ottiene ancora una volta solo la felicità della quiete. Il medesimo cammino si percorre, sia pure in vista di mete più modeste, quando si mira solo a governare la vita pulsionale. A predominare sono allora le istanze psichiche superiori, assoggettate al principio di realtà. In questo caso non si rinuncia in alcun modo all’intento della soddisfazione; una certa protezione contro la sofferenza si ottiene perché l’insoddisfazione delle pulsioni non è sentito così dolorosamente come quando sono inibite. Per contro c’è una innegabile riduzione delle possibilità di godimento. Il senso di felicità derivante dalla soddisfazione di un moto pulsionale selvaggio, che l’Io non controlla in alcun modo, è incomparabilmente più intenso di quello ottenuto saziando una pulsione addomesticata. L’irresistibilità degli impulsi perversi, e forse in genere il fascino del proibito, trovano qui una spiegazione economica.
Un’altra tecnica di difesa dal dolore si serve degli spostamenti di libido, consentiti dal nostro apparato psichico, grazie a cui la sua funzione acquista tanta versatilità. Il compito da risolvere è spostare le mete pulsionali in modo che non siano colpite dal rifiuto del mondo esterno. In ciò aiuta la sublimazione delle pulsioni. Si ottiene il massimo riuscendo ad accrescere a sufficienza il piacere tratto dalle fonti del lavoro psichico e intellettuale. Il destino può allora nuocere poco. Una soddisfazione del genere, come la gioia dell’artista nel creare e dar corpo alle immagini della sua fantasia, o quella del ricercatore che risolve problemi e riconosce la verità, ha una qualità particolare, che un giorno riusciremo certo a caratterizzare in termini metapsicologici. Per ora possiamo dire solo, in modo figurato, che essa ci sembra “più fine e più elevata” ma, a confronto con quella di saziare i moti pulsionali più rozzi e primari, la sua intensità è smorzata: non scuote la nostra corporeità. La debolezza di questo metodo è però di non essere applicabile universalmente, essendo accessibile solo a pochi. Presuppone particolari disposizioni e doti, che non tutti hanno. Neanche a tali pochi è in grado di garantire una protezione completa dal dolore; non dà loro una corazza impenetrabile contro i dardi del destino e di solito fallisce se la fonte della sofferenza è il proprio corpo.8
Se già in tale processo è palese l’intento di rendersi indipendenti dal mondo esterno, cercando le proprie soddisfazioni in processi interni, psichici, in quanto segue le stesse caratteristiche hanno un rilievo ancora maggiore. Qui la connessione con la realtà è meno salda ancora; otteniamo la soddisfazione con illusioni riconosciute come tali, senza lasciarci turbare nel godimento dal divario dalla realtà. L’ambito da cui scaturiscono queste illusioni è quello della vita fantastica; a suo tempo, quando si compì lo sviluppo del senso della realtà, essa fu espressamente sottratta alle pretese dell’esame di realtà e rimase destinata all’appagamento di desideri difficilmente realizzabili. Il primo posto fra queste soddisfazioni fantastiche è occupato dal godimento delle opere d’arte, reso accessibile, anche a chi non è creatore in proprio, attraverso la mediazione dell’artista.9 Chi è sensibile all’influsso dell’arte non lo stimerà mai abbastanza come fonte di piacere e consolazione nella vita. La lieve narcosi in cui l’arte ci trasferisce non può tuttavia offrirci che una fugace evasione dagli affanni della vita, non abbastanza forte da far dimenticare la reale miseria.
Più energicamente e più a fondo va un altro processo che vede nella realtà l’unico nemico, la fonte di ogni male, che non fa vivere, con cui occorre quindi troncare ogni rapporto, volendo in qualche modo essere felici. L’eremita volta le spalle a questo mondo; non vuole averci nulla a che fare. Ma si può fare di più, si può trasformare il mondo, costruendo al suo posto un mondo diverso in cui le caratteristiche più intollerabili siano eliminate e sostituite da altre consone ai propri desideri. Chi in una rivolta disperata imbocca tale strada verso la felicità, non ottiene di regola nulla; la realtà si dimostra per lui troppo forte e diventa un pazzo, che non riesce a realizzare il suo folle desiderio e non trova per lo più nessuno disposto ad aiutarlo. Si è detto, tuttavia, che per qualche aspetto ognuno di noi si comporta come il paranoico, correggendo con una formazione di desiderio un lato del mondo che gli è intollerabile e iscrivendo nella realtà questo delirio. Importanza particolare riveste il caso in cui un gran numero di persone tenta insieme di assicurarsi la felicità e ripararsi dalla sofferenza con una trasformazione delirante della realtà. Come deliri di massa dobbiamo caratterizzare anche le religioni dell’umanità. Naturalmente, chi ancora lo condivide, mai lo riconosce come delirio.
Non credo che sia completa questa rassegna dei metodi con cui gli uomini si sono sforzati di acquisire la felicità e di tenere lontano il dolore; so pure che la materia si potrebbe distribuire diversamente. Non ho ancora citato una di queste procedure, non perché l’abbia dimenticata, ma perché dovremo occuparcene in altro contesto. Come sarebbe possibile dimenticare proprio questa tecnica dell’arte del vivere? Si distingue per la più notevole convergenza di tratti caratteristici. Anch’essa naturalmente lotta per l’indipendenza dal destino – lo chiamiamo così al meglio – e a questo scopo trasferisce la soddisfazione in processi psichici interni, servendosi della possibilità già citata di spostare la libido; ma non volta le spalle al mondo esterno, al contrario si ancora ai suoi oggetti e raggiunge la felicità in una relazione emotiva con essi. Nel farlo non si accontenta di evitare l’avversione con rassegnazione per così dire fiacca, ma la sfiora incurante, tenendo ferma l’appassionata aspirazione originaria alla felicità positiva. Forse si avvicina in realtà più di ogni altro metodo a tal fine. Penso naturalmente all’indirizzo di vita centrato sull’amore, attendendosi ogni soddisfazione dall’amare e dall’essere amati. Un atteggiamento psichico di questo genere è abbastanza familiare a tutti noi; una delle forme in cui l’amore si manifesta, l’amore sessuale, ci ha procurato la più intensa esperienza di una travolgente sensazione di piacere, fornendoci così il modello della nostra aspirazione alla felicità.
Cosa c’è di più naturale del persistere a cercare la felicità sulla stessa via dove per la prima volta l’abbiamo incontrata? Il lato debole di questa tecnica di vivere è lampante; altrimenti a nessuno sarebbe venuto in mente di abbandonare questa via alla felicità per un’altra. Mai come quando amiamo siamo così indifesi alla sofferenza; mai come quando abbiamo perduto l’oggetto amato o il suo amore siamo così senza scampo infelici. Ma con ciò non abbiamo esaurito l’argomento della tecnica di vita per essere felici basata sull’amore; anzi, ci resta da dirne molto di più.
Possiamo inserire qui l’interessante caso in cui si cerca la felicità della vita in prevalenza nel godere la bellezza, ovunque si dia ai nostri sensi o al nostro giudizio: la bellezza delle forme e dei gesti umani, degli oggetti naturali e dei paesaggi, delle creazioni artistiche e persino scientifiche. Tale atteggiamento estetico in relazione allo scopo della vita offre scarsa protezione contro la sofferenza incombente, ma può di gran lunga compensarla. Il godimento della bellezza ha un suo modo particolare, leggermente inebriante, d’essere percepito. L’utilità della bellezza non è evidente; che sia necessaria alla civiltà non risulta a prima vista, ma non potrebbe mancare alla civiltà. La scienza dell’estetica studia le condizioni per cui si avverte il bello, ma non è stata in grado di spiegare né la natura né l’origine della bellezza; come al solito, l’assenza di risultati è celata da uno spreco di parole altisonanti ma povere di contenuto. Purtroppo anche la psicanalisi ha pochissimo da dire sulla bellezza. Sembra certo solo che l’amore per il bello derivi dal campo delle sensazioni sessuale; sarebbe un esempio paradigmatico di impulso inibito nella meta. “Bellezza” e “stimolo” sono originariamente qualità dell’oggetto sessuale. È per altro notevole che gli organi genitali, la cui vista è sempre eccitante, quasi mai siano ritenuti belli, e invece sembra che il carattere della bellezza sia proprio di certi caratteri sessuali secondari.
Nonostante questa incompletezza, azzardo sin d’ora alcune osservazioni conclusive della nostra ricerca. Il programma di essere felici, impostoci dal principio di piacere, è irrealizzabile; tuttavia, non dobbiamo, anzi non possiamo, abbandonare gli sforzi per avvicinarci a realizzarlo. In questa direzione si possono prendere molte strade diverse: o ci si fa guidare dal contenuto positivo della meta, conseguire il piacere, o dal contenuto negativo, eludere l’avversione. Per nessuna di queste strade possiamo ottenere tutto ciò che desideriamo. La felicità, nell’accezione ridotta in cui è ritenuta possibile, è un problema di economia libidica individuale. Non c’è un consiglio valido per tutti; ogni individuo deve trovare da sé la modalità particolare in cui può essere felice. I fattori più diversi varranno a indicargli la strada, che dipende da quanta reale soddisfazione può aspettarsi dal mondo esterno e fino a che punto è disposto a rendersi indipendente da esso; infine, anche, da quanta forza confida di avere per modificarlo secondo i propri desideri. Qui è decisiva la costituzione psichica dell'individuo, al di là delle condizioni esterne. L’uomo prevalentemente erotico metterà prima le relazioni emotive con gli altri; il narcisista, più incline all’autosufficienza, cercherà le soddisfazioni essenziali nei propri processi psichici interni; l’uomo d’azione non abbandonerà mai il mondo esterno su cui può mettere alla prova la propria forza. Nel tipo intermedio, le doti naturali e il grado di sublimazione pulsionale che l’individuo è in grado di raggiungere determineranno dove collocare i suoi interessi. Ogni decisione estrema finisce per punirsi, perché espone l’individuo ai pericoli che l’inadeguatezza della tecnica di vita adottata in modo esclusivo reca con sé inevitabilmente. Come il commerciante prudente evita d’investire tutto il suo capitale in una sola impresa, così, forse, anche la saggezza nata dall’esperienza della vita ci consiglierà di non attenderci tutta la soddisfazione da una sola aspirazione. Il successo non è mai sicuro; dipende dall’azione congiunta di molti fattori e, forse, più che da ogni altra cosa dalla capacità della costituzione psichica di adeguare la propria funzione al mondo circostante e di usarlo per trarne piacere. Chi ha una costituzione pulsionale particolarmente sfavorevole e non ha correttamente effettuato la trasformazione e il riordino delle proprie componenti libidiche, operazioni davvero indispensabili per qualsiasi prestazione futura, difficilmente potrà raggiungere la felicità partendo dalla sua condizione esterna, una volta che si trovi di fronte a compiti più difficili. Come ultima tecnica di vita, che gli promette se non altro soddisfazioni sostitutive, gli si offre la fuga nella malattia nevrotica, il più delle volte adottata fin da giovane. Chi poi più avanti con l’età vede sventati i propri sforzi verso la felicità, si consola ancora nel procurarsi piacere con l’intossicazione cronica, o si butta nel disperato tentativo di rivolta della psicosi.10
La religione pregiudica questo gioco di scelte e adattamenti, imponendo a tutti in modo uniforme la sua via verso l’acquisizione della felicità e la protezione dalla sofferenza. La sua tecnica consiste nello sminuire il valore della vita e nel deformare in maniera delirante l’immagine del mondo reale, cose che presuppongono l’avvilimento dell'intelligenza. A questo prezzo, con la fissazione violenta all’infantilismo psichico e l’inclusione in un delirio di massa, la religione riesce a risparmiare a molti la nevrosi individuale. Ma niente di più. Esistono, come abbiamo detto, molte strade che possono portare alla felicità, per quanto umanamente raggiungibile; tuttavia, nessuna è sicura. Nemmeno la religione è capace di mantenere le sue promesse. Quando il credente si trova da ultimo costretto a parlare dell’“imperscrutabile decreto” di Dio, con ciò stesso ammette che tutto quel che gli è lasciato come ultima consolazione possibile e fonte di gioia nella sofferenza è l’incondizionata sottomissione. E se è pronto a questo, avrebbe verosimilmente potuto risparmiarsi il lungo giro.
3
Finora la nostra ricerca sulla felicità non ci ha insegnato molto di più di quanto non sia universalmente noto. Anche procedendo con la domanda perché sia così difficile agli uomini essere felici, non sembra molto maggiore la prospettiva di venire a sapere qualcosa di nuovo. Abbiamo già dato la risposta, indicando le tre fonti da cui proviene la nostra sofferenza: il potere superiore della natura, la nullità del nostro corpo e l’insufficienza delle istituzioni che regolano le relazioni reciproche degli uomini nella famiglia, nello Stato e nella società. Sulle prime due il nostro giudizio non può esitare a lungo; ci costringe a riconoscere queste fonti di sofferenza e a rassegnarci all’inevitabile. Non domineremo mai completamente la natura; il nostro organismo, parte di questa natura, rimarrà sempre un dispositivo transitorio di adattamento e prestazione limitati. Da tale riconoscimento non viene alcun effetto paralizzante; al contrario, ci indica in che direzione operare. Possiamo abolire, se non tutta, almeno parte della sofferenza, e possiamo attenuarne un’altra parte; l’esperienza di migliaia d’anni ce ne ha convinto. Diversamente ci comportiamo sulla terza fonte di sofferenza, quella sociale. Non vogliamo in generale ammetterla; non riusciamo a capire perché le istituzioni da noi stessi create non debbano essere piuttosto una protezione e un beneficio per tutti noi. Tuttavia, considerando che proprio questa part e della prevenzione della sofferenza è riuscita così male, si desta il sospetto che anche qui ci sia una parte dell’invincibile natura, questa volta della nostra stessa natura psichica.
Intendendo occuparci di questa possibilità, ci imbattiamo in una tesi così sorprendente da volere soffermarci su di essa. Afferma che gran parte della colpa della nostra miseria la porti la nostra cosiddetta civiltà; saremmo molto più felici, se vi rinunciassimo e ci ritrovassimo nelle condizioni primitive. Dico tesi sorprendente perché, comunque si definisca il concetto di civiltà, è certo che ogni mezzo con cui tentiamo di proteggerci dalla minaccia dei diversi tipi di sofferenza fa appunto parte della stessa civiltà.
Per quale via così tanti uomini sono giunti a tal punto di sorprendente ostilità alla civiltà? A mio avviso il terreno fu preparato da una insoddisfazione profonda e da tempo persistente verso lo stato della civiltà vigente, su cui si levò poi la condanna in occasione di determinati eventi storici. Di questi eventi credo di riconoscere l’ultimo e il penultimo, mentre non sono abbastanza dotto per seguir la catena abbastanza a ritroso nella storia della specie umana. Già nella vittoria del cristianesimo sulle religioni pagane deve essere stato operante tale fattore ostile alla civiltà, che era molto vicino all’attuale svalutazione della vita terrena tipica della dottrina cristiana.
Il penultimo evento si ebbe quando, con il progresso dei viaggi di esplorazione, l’uomo entrò in contatto con popoli e stirpi primitive. In conseguenza di un’osservazione insufficiente e di un’interpretazione errata dei loro usi e costumi, parve agli europei che quei popoli conducessero una vita semplice, con pochi bisogni, felice, per loro, visitatori di una civiltà superiore, irraggiungibile. L’esperienza successiva ha corretto alcuni giudizi di questo genere: in molti casi si era erroneamente attribuita alla mancanza di pretese civili complicate una certa semplificazione della vita, dovuta piuttosto alla generosità della natura e alla possibilità di soddisfare agevolmente i bisogni più importanti. L’ultimo evento determinante ci è particolarmente familiare; si verificò quando si cominciò a riconoscere il meccanismo delle nevrosi, che minacciano di distruggere quel po’ di felicità concessa all’uomo civile. Si trovò che l’uomo diventa nevrotico perché non può sopportare il peso del rifiuto [pulsionale] che la società gli impone al servizio dei suoi ideali civili, e se ne concluse che, se tali pretese fossero abolite o ridotte di molto, si tornerebbe alla possibilità di essere felici.
Viene poi un fattore di delusione. Nelle ultime generazioni gli uomini hanno compiuto progressi straordinari nelle scienze naturali e nell'applicazione tecnica di queste scienze, rinforzando il dominio sulla natura in un modo prima inimmaginabile. I particolari di questo progresso sono noti a tutti ed è superfluo enumerarli. Gli uomini vanno fieri di queste acquisizioni e a ragione. Ma credono di aver notato che il comando da poco raggiunto sullo spazio e sul tempo, questo assoggettamento delle forze della natura che appaga un’aspirazione vecchia di migliaia di anni, non ha aumentato la quantità di piacevole soddisfazione che possono aspettarsi dalla vita; non li ha resi, stando alle loro sensazioni, più felici. Dovremmo accontentarci di concludere da questa affermazione che il potere sulla natura non è la sola condizione della felicità umana – così come non è l’unica meta degli sforzi di civiltà – ma non per questo se ne può dedurre che il progresso tecnico sia privo di valore per l’economia della nostra felicità. Si può obiettare che non è un acquisto positivo di piacere, un aumento indubbio del sentimento di felicità, poter ascoltare tutte le volte che lo desidero la voce d’un bambino che vive centinaia di chilometri lontano da me, o apprendere da un amico, subito dopo lo sbarco, che ha portato felicemente a termine un lungo e faticoso viaggio? Non conta nulla che la medicina sia riuscita non solo a ridurre enormemente la mortalità infantile e i pericoli di infezione delle partorienti, ma anche a prolungare di un numero considerevole di anni la durata media della vita dell’uomo civile? Potremmo continuare a lungo l’elenco di questi benefici, dovuti alla tanto disprezzata era del progresso scientifico e tecnico; ma a questo punto la voce della critica pessimistica interviene ammonendo che la maggior parte di queste soddisfazioni segue il modello di quel “godimento a buon mercato” decantato in un certo aneddoto. Per procurarsi tale diletto basta mettere una gamba nuda fuori dalle coperte in una fredda notte d’inverno e poi ritirarla sotto. Se non ci fossero ferrovie per superare grandi distanze, il bambino non avrebbe mai lasciato la città natale e non avrei bisogno del telefono per udire la sua voce. Se non si fossero istituite le traversate per nave dell’Oceano, l’amico non si sarebbe mai messo in viaggio e non avrei bisogno del telegrafo per calmare le apprensioni per lui. A che serve la riduzione della mortalità dei bambini, se ci obbliga alla massima cautela nel procrearli, così che tutto sommato non ne alleviamo di più che nei tempi antecedenti al trionfo dell’igiene, mentre così facendo abbiamo invece posto difficili condizioni alla nostra vita sessuale nel matrimonio e verosimilmente lavorato contro i benefici della selezione naturale? E infine, a che pro una lunga vita quando essa ci è gravosa, priva di gioie e tormentosa al punto da dare il benvenuto alla morte solo come liberatrice?
Sembra assodato che non ci sentiamo bene nella nostra civiltà odierna, ma è molto difficile formarsi un’opinione a proposito del problema se e in qual misura in tempi precedenti gli uomini si sentissero più felici e quale parte avessero in ciò le condizioni della loro civiltà. Saremmo sempre inclini a considerare la miseria come fatto oggettivo, cioè a trasferirci con le nostre pretese e la nostra sensibilità in quelle antiche condizioni, per esaminare quali opportunità di provare felicità o infelicità vi si trovano. Questo modo di trattare il problema, che sembra oggettivo, perché prescinde dalle variazioni della sensibilità soggettiva, è naturalmente il più soggettivo, perché sostituisce ogni altra condizione psichica ignota con la nostra. Ma la felicità è qualcosa di totalmente soggettivo. Per quanto possiamo ritrarci inorriditi di fronte a certe situazioni, come quella degli antichi schiavi delle galere, dei contadini nella Guerra dei trent’anni, delle vittime della Santa Inquisizione, degli ebrei in attesa di un pogrom, pure ci è impossibile immedesimarci con queste persone, indovinare i mutamenti che l’ottusità originaria, l’abbrutimento graduale, la cessazione d’ogni speranza e tutti i metodi più o meno sottili d’ottundimento hanno prodotto sulla loro ricettività alle sensazioni piacevoli e spiacevoli. Ad ogni modo, in casi di possibilità estreme di sofferenza, entrano in azione speciali meccanismi protettivi della psiche. Mi sembra poco fruttuoso dilungarsi ancora su questo aspetto del problema.
È tempo di occuparci dell’essenza di questa civiltà, il cui valore di felicità è stato messo in dubbio. Non cercheremo formule che esprimano quest’essenza in poche parole, finché non avremo imparato qualcosa da un esame più attento. Ci accontenteremo dunque di ripetere11 che la parola “civiltà” designa la somma di prestazioni e istituzioni che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e che servono a due scopi: proteggere l’uomo dalla natura e regolare le relazioni degli uomini tra loro. Per capirne di più, esamineremo nei dettagli le caratteristiche della civiltà, così come si manifestano nelle comunità umane. Senza esitare ci lasceremo guidare dall’uso comune del linguaggio o, come anche si dice, dal nostro senso del linguaggio, fiduciosi che in questo modo renderemo giustizia a intime convinzioni che ancora si oppongono a essere espressi in parole astratte.
L’inizio è facile: come civili riconosciamo tutte le attività e i valori utili all’uomo per porre la terra al suo servizio, proteggerlo dalla violenza delle forze naturali e così via. Su questo aspetto del civile vi sono pochissimi dubbi. Risalendo abbastanza indietro nel tempo, i primi atti di civiltà furono l’uso di utensili, l’addomesticamento del fuoco, la costruzione di abitazioni. Tra questi, l'addomesticamento del fuoco spicca come conquista straordinaria e senza precedenti;12 mediante gli altri, l’uomo si aprì una strada che da allora ha sempre seguito, per uno stimolo facile da indovinare. Con tutti i suoi utensili, l’uomo perfeziona i suoi organi – motori e sensori – o sposta i limiti della loro azione. I motori gli mettono a disposizione forze immani, che, come i suoi muscoli, possono essere impiegate in qualsiasi direzione; navi e aeroplani fanno sì che né l'acqua né l’aria possano più ostacolare i suoi movimenti. Con gli occhiali corregge i difetti delle sue lenti oculari, con il telescopio scruta a grande distanza, con il microscopio sconfigge i limiti posti alla visibilità dalla struttura della retina. Con la macchina fotografica ha creato uno strumento che fissa le impressioni fuggevoli della vista; il disco grammofonico riesce a fare lo stesso per le sensazioni altrettanto transitorie dell’udito, materializzazioni entrambe, in definitiva, del suo potere di ricordare, cioè della sua memoria. Con l’aiuto del telefono può udire a distanze che neppure le fiabe avrebbero osato immaginare. Lo scritto è in origine la voce dell’assente; la casa è una sostituzione del ventre materno, della prima dimora cui con ogni probabilità l’uomo non cessa di anelare, dove era al sicuro e si sentiva a proprio agio.
Non sembra solo una favola; è la realizzazione diretta di tutti, no della maggior parte dei desideri delle fiabe; sono cose che l’uomo, grazie alla scienza e alla tecnica, ha realizzato su questa Terra, dove apparve dapprima come una debole creatura animale e dove ogni individuo della sua specie (oh inch of nature!) torna a fare il suo ingresso come lattante indifeso. Tutto questo patrimonio può ritenerlo acquisizione della civiltà. Da lungo tempo si era fatto una rappresentazione ideale dell'onnipotenza e dell’onniscienza, cui diede corpo nei suoi dei. A loro assegnò tutto quel che ai suoi desideri pareva irraggiungibile o proibito. Si può dunque dire che questi dei erano ideali di civiltà. Oggi si è avvicinato molto al raggiungimento di questi ideali; egli stesso è diventato quasi un dio. Certo, ciò è avvenuto solo nel modo in cui, per generale giudizio umano, gli ideali sono soliti realizzarsi, e cioè non completamente, per alcune parti in nulla affatto, per altre solo a metà. L’uomo è per così dire divenuto una specie di dio-protesi, veramente magnifico quando è equipaggiato di tutti i suoi organi accessori; questi, però, non formano un tutt’uno con lui e ogni tanto gli danno ancora da fare. Si consoli, tuttavia; questa evoluzione non si concluderà nell'anno del Signore 1930. Le età future riservano nuovi e forse inimmaginabili passi avanti in questo campo che appartiene alla civiltà, e accresceranno ancora la somiglianza tra l’uomo e Dio. Nell’interesse della nostra ricerca, non vogliamo dimenticare che l’uomo d’oggi, pure nella sua somiglianza con Dio, non si sente felice.
Riconosciamo dunque il livello di civiltà di un paese, trovando che tutto ciò che serve a sfruttare la terra da parte dell’uomo e a difenderlo dalle forze della natura, in breve, tutto ciò che gli è utile, vi è curato e opportunamente eseguito. In un simile paese, i fiumi, che minacciano di straripare, sono regolati nel loro corso, le loro acque guidate da canali verso i luoghi che ne mancano; il suolo è accuratamente coltivato e dotato della vegetazione a cui è più adatto; le ricchezze minerarie sono laboriosamente estratte e trasformate negli utensili e nei macchinari voluti. I mezzi di comunicazione sono numerosi, veloci e sicuri; gli animali selvatici e pericolosi sono sterminati; fiorisce l’allevamento di quelli domestici. Ma pretendiamo anche altre cose dalla civiltà e speriamo di trovarle attuate in modo notevole in questi stessi paesi. Quasi volendo smentire la pretesa che abbiamo avanzato per prima, salutiamo come segno di civiltà vedere che l’industriosità degli uomini si applichi anche a cose che non hanno alcun valore pratico o sembrano addirittura inutili; per esempio, il fatto che gli spazi verdi di una città, indispensabili come spazi di gioco e riserve d’aria pulita, abbiano anche aiuole fiorite o che le finestre delle case siano adorne di vasi di fiori. Vediamo subito che l’inutile, che ci aspettiamo adorato dalla civiltà, è la bellezza; esigiamo che l’uomo civile onori la bellezza ovunque la incontri nella natura e la traduca in oggetti per quanto lo consenta il lavoro delle sue mani. Lungi da noi l’aver esaurito le nostre pretese riguardo alla civiltà. Vogliamo vedere i segni della pulizia e dell’ordine. Non pensiamo molto bene della civiltà di una cittadina di campagna inglese al tempo di Shakespeare, leggendo che davanti alla porta della casa paterna del poeta, a Stratford, c’era una grande mucchio di letame; quando troviamo i sentieri del Wiener Wald cosparsi di cartacce ci scandalizziamo e diciamo che chi le ha gettate è un “barbaro”, cioè il contrario dell’uomo civile. Ogni genere di sporcizia ci sembra incompatibile con la civiltà; esigiamo che anche il corpo umano si mantenga pulito; apprendiamo con meraviglia che dalla persona del Re Sole solesse emanare un pessimo odore, e scuotiamo la testa quando all’Isola Bella ci mostrano il minuscolo catino che Napoleone usava per la toilette mattutina. Non ci stupisce che qualcuno prenda il consumo di sapone come misura diretta di civiltà. Lo stesso avviene per l’ordine che, come la pulizia, si riferisce esclusivamente alle opere umane. Ma mentre non possiamo pretendere la pulizia in natura, l’ordine è invece un dono che le abbiamo carpito; l’osservazione delle grandi regolarità astronomiche ha fornito all’uomo non solo il modello, ma anche i primi punti di attacco per introdurre l’ordine nella sua vita. L’ordine è una sorta di coazione a ripetere, che decide, mediante una norma stabilita una volta per tutte, quando, dove e come, una cosa debba essere fatta, in modo da risparmiare esitazioni e indugi in ogni caso simile. Il beneficio dell’ordine è del tutto incontestabile: dà all’uomo la possibilità di utilizzare nel modo migliore il tempo e lo spazio, risparmiando le sue forze psichiche. A buon diritto ci aspetteremmo che fosse stato inserito fin dall’inizio e senza costrizione nell’attività umana, e ci sorprende che ciò non sia già accaduto e che anzi, al contrario, l’uomo manifesti l’inclinazione naturale alla negligenza, all’irregolarità e all’inaffidabilità nel lavoro e vada solo faticosamente educato a imitare i modelli celesti.
Bellezza, pulizia e ordine occupano chiaramente un posto particolare fra le richieste della civiltà. Nessuno sosterrà che siano d’importanza così vitale come il dominio delle forze della natura e altri fattori che dobbiamo ancora imparare a conoscere; eppure nessuno vorrà relegarle sullo sfondo come cose secondarie. Che la civiltà non si prefigga solo l’utile lo dimostra già dimostra l’esempio della bellezza, che non vogliamo che manchi tra gli interessi della civiltà. L’utilità dell’ordine è del tutto evidente e, circa la pulizia, dobbiamo rammentare come sia richiesta anche dall’igiene, e possiamo supporre che, anche prima dell’epoca della prevenzione scientifica delle malattie, tale connessione non fosse del tutto estranea. Ma l’utilità non spiega del tutto gli sforzi; deve essere in gioco ancora qualcos’altro.
Riteniamo però che nessun altro tratto distingua meglio la civiltà quanto apprezzare e coltivare le più alte attività psichiche: le prestazioni intellettuali, scientifiche o artistiche, il ruolo guida attribuito alle idee nella vita umana. In cima a tali idee ci sono i sistemi religiosi, sulla cui intricata struttura ho tentato altrove di gettar luce; seguono le speculazioni filosofiche e, infine, quelle che si possono chiamare le formazioni ideali degli uomini, le loro rappresentazioni di una possibile perfezione della persona singola, del popolo, dell’intera umanità e le pretese avanzate sulla base di tali rappresentazioni. Non essendo tra loro indipendenti, ma tanto più intimamente intrecciate, è difficile descrivere e derivare psicologicamente tali creazioni. Supponendo in via del tutto generale che la molla di ogni attività umana sia l’aspirazione verso le due mete convergenti dell’utile e del piacevole, dobbiamo far valere le stesse considerazioni anche per le riportate espressioni della civiltà, sebbene ciò sia del tutto evidente solo per l’attività scientifica e artistica. Ma non si può dubitare che anche altre attività corrispondano a forti bisogni degli esseri umani, che forse si sono sviluppate solo in una minoranza. Inoltre non si deve farsi fuorviare dal giudizio di valore su questo o quel sistema religioso o filosofico, o su questo o quel ideale; sia vedendo in essi la più alta realizzazione dello spirito umano, sia deplorandoli come errori, va riconosciuto che la loro presenza e in particolare il loro predominio significano un alto livello di civiltà.
Da ultimo ci resta da apprezzare il carattere distintivo di una civiltà, non certo il meno importante, cioè il modo di regolare le relazioni reciproche, le relazioni sociali tra gli uomini, che concernono l’uomo in quanto prossimo, aiuto, oggetto sessuale di un altro, membro di una famiglia e di uno Stato. Qui è particolarmente difficile mantenersi liberi da certe esigenze ideali e cogliere ciò che è in generale il civile. Forse l’inizio è chiarire che l’elemento civile è il primo tentativo di regolare le relazioni sociali. In assenza di un tale tentativo, le relazioni sociali sarebbero soggette all’arbitrio del singolo, cioè il più forte fisicamente deciderebbe secondo i suoi interessi e moti pulsionali. Nulla muterebbe se questo individuo più forte ne incontrasse un altro ancora più forte. La vita umana in comune è possibile solo se si ritrova insieme una maggioranza che sia più forte di ogni singolo e resti unita contro ogni singolo. Il potere di questa comunità si oppone allora come “diritto” al potere del singolo, condannato come “forza bruta”. La sostituzione del potere della comunità a quello del singolo è il passo decisivo verso la civiltà. La sua essenza consiste nel limitare le possibilità di soddisfazione dei membri della comunità, mentre il singolo non conosceva limitazioni del genere. Quindi, il primo requisito della civiltà è la giustizia, cioè la sicurezza che l’ordine stabilito non sarà infranto a favore di nessuno. Con ciò non si decide sul valore etico di tale diritto. Il corso ulteriore dell’evoluzione civile sembra mirare a che questa legge non sia più l’espressione della volontà di una comunità poco numerosa – casta, classe, stirpe – la quale si comporti a sua volta come un individuo violento verso altri gruppi simili e magari più vasti. Il risultato finale dovrebbe essere un diritto al quale tutti – o almeno tutti gli adatti a vivere in comunità – hanno contribuito con il loro sacrificio pulsionale e che non lascia nessuno alla mercé della forza bruta, di nuovo con le stesse eccezioni.
La libertà individuale non è un bene civile. Era massima prima di ogni civiltà, benché allora fosse per lo più senza valore, perché difficilmente l’individuo era in grado di difenderla. La libertà subisce limitazioni per lo sviluppo civile e la giustizia esige che queste restrizioni non siano risparmiate a nessuno. Ciò che in una comunità umana tocca come spinta alla libertà, può essere ribellione contro qualche ingiustizia esistente e può dunque risultare propizio all’ulteriore evoluzione civile, rimanendo compatibile con la civiltà. Può però anche scaturire dal residuo della personalità arcaica, non ancora bandita dalla civiltà, e così fondare l’ostilità alla civiltà. La spinta alla libertà si rivolge dunque o contro particolari forme o pretese della civiltà o contro la civiltà in quanto tale. Non sembra possibile influire sull’uomo fino a cambiare la sua natura in quella di una termite; difenderà sempre la sua pretesa di libertà individuale contro il volere della massa. Buona parte degli sforzi dell’umanità si infrange nel tentativo di trovare un accomodamento funzionale (tale da dare felicità) tra le pretese individuali e quelle civili delle masse; uno dei problemi fatali dell’umanità è se l’accomodamento sia raggiungibile in qualche particolare forma di civiltà o se il conflitto sia inconciliabile.
Potendo dire per senso comune quali siano gli aspetti civili della vita umana, abbiamo ricavato una chiara impressione del quadro generale della civiltà, ma è anche vero che finora non siamo venuti a sapere nulla che non sia generalmente noto. In proposito ci siamo guardati bene dall’aderire al pregiudizio che la civiltà sia sinonimo di perfezione o sia la via assegnata all’uomo per la perfezione. Ma ora ci si impone una concezione che forse porta altrove. Lo sviluppo civile ci appare come un processo peculiare che attraversa l’umanità con qualcosa di familiare. Possiamo caratterizzarlo con le modificazioni prodotte nelle note disposizioni pulsionali dell’uomo, la cui soddisfazione è il compito economico della nostra vita. Alcune di tali pulsioni sono consumate a tal punto che al loro posto compare qualcosa che nel singolo individuo descriviamo come qualità del carattere. L’esempio più notevole da noi trovato di questo processo è l’erotismo anale del giovane uomo. Durante la crescita, l’interesse originario per la funzione escrementizia, per i suoi organi e prodotti cambia nel gruppo di qualità che ci sono note come parsimonia, senso dell’ordine e pulizia, che sono in sé e per sé pregevoli e ben accette, ma che possono rafforzarsi fino a diventare vistosamente predominanti e produrre poi ciò che si chiama carattere anale. Ignoriamo come succeda, ma sull’esattezza della concezione non c’è dubbio.13 Ora, abbiamo trovato che ordine e pulizia sono pretese essenziali della civiltà, sebbene non sia proprio evidente la loro necessità vitale, tanto meno la loro idoneità come fonti di godimento. A questo punto non può non colpirci l’analogia tra il processo di civiltà e l’evoluzione libidica del singolo. Altre pulsioni sono indotte a spostare le condizioni della loro soddisfazione, a trasferirle su altre vie, processo che nella maggioranza dei casi coincide con la sublimazione (della meta pulsionale) a noi ben nota; in alcuni casi c’è però una differenza. La sublimazione pulsionale è un segno che contraddistingue particolarmente il processo dell’evoluzione civile; fa sì che alcune attività psichiche assai elevate – le attività scientifiche, artistiche, ideologiche – abbiano un ruolo così importante nella vita civile. Cedendo alla prima impressione, saremmo tentati di dire che la sublimazione sia un destino imposto alle pulsioni dalla civiltà. Ma sarà meglio riflettervi un po’ più a lungo.
In terzo e ultimo luogo, e questo sembra il fatto più importante, è impossibile trascurare in quale misura la civiltà sia costruita sulla rinuncia pulsionale (Triebverzicht), quanto abbia come presupposto la non soddisfazione (repressione, rimozione o che altro?) di potenti pulsioni. Questo “rifiuto (Versagung) civile” domina il vasto campo delle relazioni sociali degli uomini; già sappiamo che è la causa dell’ostilità contro cui tutte le civiltà devono combattere. Essa richiede anche un forte impegno nel nostro lavoro scientifico, per chiarire il molto che resta inspiegato. Non è facile capire come si possa sottrarre a una pulsione la soddisfazione. Non va senza pericoli; senza risarcimento economico, bisogna rassegnarsi a seri disturbi.
Se, tuttavia, vogliamo sapere quale valore si possa attribuire alla nostra concezione dello sviluppo civile come un processo particolare, paragonabile alla normale maturazione dell’individuo, dobbiamo chiaramente affrontare un altro problema e porre la questione di quali influssi diedero avvio all’evoluzione civile, come essa ebbe origine e da cosa fu determinato il suo corso.
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Il compito sembra immane; si deve ammettere che scoraggia. Ecco il poco che sono riuscito a indovinare.
Da che l’uomo primitivo scoprì di dipendere dalle sue mani – da intendere alla lettera – nel senso di migliorare la propria sorte sulla terra lavorando, non poteva essergli indifferente che un altro lavorasse con lui o contro di lui. L’altro acquisì il valore di compagno di lavoro, con cui era utile convivere. Ancora prima, all’epoca in cui era simile alle scimmie, l’uomo si abituò a formare famiglie: verosimilmente i primi aiutanti furono i membri della famiglia. Presumibilmente la fondazione della famiglia si collegò al fatto che il bisogno di soddisfazione genitale non si comportò più come un ospite che arriva all’improvviso e dopo la sua partenza non si fa più sentire, ma si insediò nel singolo individuo come inquilino permanente. Allora lo stallone (Männchen) ebbe motivo di tenere presso di sé la femmina o più in generale gli oggetti sessuali; le femmine, non desiderando separarsi dai piccoli senza aiuto, anche nel loro interesse dovettero rimanere presso lo stallone più forte.14 In tale famiglia primitiva manca ancora un tratto essenziale della civiltà; l’arbitrio del signore e padre è illimitato. In Totem e tabù ho cercato di mostrare il cammino che portò da questa famiglia allo stadio successivo della vita in comune, nella forma di gruppo di fratelli. Sopraffacendo il padre, i figli sperimentarono che l’unione può essere più forte del singolo individuo. La civiltà totemica si basa sulle restrizioni che i fratelli dovettero imporsi l’un l’altro per conservare il nuovo stato di cose. Le ingiunzioni dei tabù furono il primo “diritto”. Quindi la vita in comune degli uomini ebbe un duplice fondamento: la costrizione al lavoro, creata dalla necessità esterna, e la potenza dell’amore, che nel maschio provocò il desiderio di non essere privato dell’oggetto sessuale della femmina, e nella femmina quello di non essere privata della parte da lei separatasi, cioè del figlio. Eros e Ananke divennero così i genitori della civiltà umana. La prima conseguenza della civiltà fu che ora un numero maggiore di uomini poteva restare in comunità. E, poiché quelle due grandi potenze cooperavano, c’era da aspettarsi che si compisse agevolmente lo sviluppo ulteriore verso il sempre miglior dominio del mondo esterno e verso l’ulteriore ampliamento del numero di uomini compresi nella comunità. Non è facile capire come questa civiltà possa agire su chi ne fa parte, se non può renderlo felice.
Prima ancora di cercare da dove possa venire un disturbo, facciamo una digressione, riconoscendo nell’amore uno dei fondamenti della civiltà e colmando una lacuna della discussione precedente. Abbiamo detto che l’uomo, avendo sperimentato che l’amore sessuale (genitale) gli garantiva il massimo dei soddisfacimenti possibili, diventando per lui modello di ogni felicità, dovette trarne la conseguenza che la gioia e la felicità nella vita andavano ulteriormente cercate nel campo delle relazioni sessuali, posto al centro della vita l’erotismo genitale. Proseguimmo dicendo che per tale via si rese in modo preoccupante dipendente da un pezzo di mondo esterno, cioè dall’oggetto amoroso scelto, esponendosi alle sofferenze più forti se ne fosse stato respinto o lo avesse perso per infedeltà o morte. Pertanto i saggi di ogni epoca non hanno cessato di metterci in guardia contro questo modo di vivere che, tuttavia, per un gran numero di figli dell’uomo non ha perso la sua attrattiva.
A una piccola minoranza, grazie alla sua stessa costituzione, è reso possibile di trovare la felicità sulla via dell’amore, ma perché ciò avvenga sono indispensabili ampie modificazioni psichiche della funzione amorosa. Tali persone si rendono indipendenti dal consenso dell’oggetto, spostando il valore principale dall’essere amati al loro proprio amare; si difendono dalla perdita dell’oggetto riversando il loro amore non su oggetti singoli, ma su tutti gli uomini in ugual misura; evitano le incertezze e le delusioni dell’amore genitale, deviandolo dalla meta sessuale e trasformando la pulsione in un moto inibito nella meta. Lo stato in questo modo raggiunto – quel loro sentire sempre equilibrato, inalterabile, pieno di dolcezza – esternamente somiglia ben poco alle tempeste dell'amore genitale, da cui pure è derivato. San Francesco d’Assisi può aver usato nel modo più ampio l’amore nel senso di felicità interiore. Ciò che riconosciamo come una delle tecniche per soddisfare il principio di piacere, è stato spesso messo in rapporto anche con la religione, con cui si può connettere in quelle remote regioni dove si trascura la distinzione tra l’Io e gli oggetti e degli oggetti tra loro. Una considerazione etica, le cui più profonde motivazioni ci diventeranno presto evidenti, pretende di vedere nella disponibilità all’amore universale degli uomini e del mondo il più alto livello cui l’uomo possa elevarsi. Già qui non possiamo trascurare due dubbi principali. L’amore che non sceglie ci sembra che perda parte del suo valore, perché fa torto all’oggetto. Inoltre, non tutti gli uomini sono degni d’essere amati.
L’amore, che fondò la famiglia, mantiene l’impronta originaria, senza rinunciare né alla soddisfazione sessuale diretta né alla modifica in tenerezza inibita nella meta, che continua a operare nella civiltà. Nelle due forme riesce a soddisfare la funzione di legare tra loro un maggior numero di persone in modo più intenso dell’interesse per il lavoro comune. La trascuratezza linguistica nell’uso della parola “amore” trova una giustificazione genetica. Si chiama amore la relazione tra un uomo e una donna, che hanno fondato una famiglia in base ai loro bisogni genitali, ma anche il sentimento positivo tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle nella famiglia, sebbene per noi questi rapporti vadano descritti come amore inibito nella meta o tenerezza. L’amore inibito nella meta era originariamente un amore pienamente sensuale e lo è sempre ancora nell’inconscio dell’uomo. Tanto l’amore pienamente sensuale quanto quello inibito nella meta superano la cerchia della famiglia e producono molti legami con persone fino ad allora estranee. L’amore genitale porta a formare nuove famiglie, l’amore inibito nella meta ad “amicizie”, importanti per la civiltà, sfuggendo a molte limitazioni dell’amore genitale, per esempio alla sua esclusività. Ma nel corso dell’evoluzione il nesso tra amore e civiltà perde la sua univocità. Da un lato l’amore si oppone agli interessi della civiltà, dall’altro la civiltà minaccia l’amore con sensibili limitazioni.
La divisione sembra inevitabile; la base non è subito riconoscibile. Si manifesta prima nel conflitto tra la famiglia e la comunità più ampia di appartenenza del singolo. Abbiamo già indovinato che uno degli intenti principali della civiltà è di raccogliere gli uomini in grandi unità. La famiglia invece non vuole lasciar libero l’individuo. Quanto maggiore è la coesione tra i membri della famiglia, tanto più tendono a segregarsi dagli altri e tanto più difficile risulta loro inserirsi nella cerchia più ampia della vita. La forma filogenetica più antica di vita in comune, l’unica valida nell’infanzia, si oppone a farsi sostituire dalla forma successiva, acquisita dalla civiltà. Il distacco dalla famiglia è divenuto il compito che attende ogni giovane; perché possa adempierlo la società lo sostiene spesso con i riti di pubertà e iniziazione. Si ha l’impressione che queste difficoltà siano inerenti ad ogni evoluzione psichica, anzi, in fondo, ad ogni evoluzione organica.
Poi ben presto le donne entrano in contrasto con la corrente della civiltà ed esercitano il loro influsso che lo ritarda e lo reprime; sono le stesse donne che da principio con le esigenze del loro amore avevano posto le basi della civiltà. Le donne rappresentano gli interessi della famiglia e della vita sessuale; il lavoro della civiltà è divenuto sempre più faccenda maschile; impone loro compiti sempre più difficili, che obbligano a sublimazioni pulsionali, a cui le donne sono poco adatte. Il maschio, Non disponendo d’illimitate quantità di energia psichica, l’uomo deve compiere i suoi doveri con una ripartizione della libido finalizzata. Ciò che usa a scopi civili, lo sottrae in larga misura alle donne e alla vita sessuale; la sua continua frequentazione con altri uomini e la sua dipendenza dalle relazioni con questi lo estraniano dai suoi doveri di marito e di padre. Così la donna si vede spinta in secondo piano dalle pretese della civiltà e subentra in lei un atteggiamento ostile verso di essa.
Dal lato della civiltà la tendenza a limitare la vita sessuale non è meno chiara dell’altra a espandere l’ambito civile. Già la prima fase della civiltà, il totemismo, porta con sé la proibizione della scelta incestuosa dell’oggetto, forse la più decisiva mutilazione subita dalla vita erotica dell’uomo nel corso del tempo. Ulteriori limitazioni sono prodotte dai tabù, dalle leggi e dai costumi che toccano tanto gli uomini quanto le donne. Non tutte le civiltà arrivano così avanti; sulla misura della restante libertà sessuale incide anche la struttura economica della società. Già sappiamo che in queste cose la civiltà segue la costrizione della necessità economica, dato che deve sottrarre alla sessualità una grande quota di energia psichica, che lei stessa utilizza. In questo senso la civiltà si comporta verso la sessualità come una stirpe o uno strato di popolazione che ne assoggetti un altro per sfruttarlo. Il timore della rivolta dei repressi spinge a severe misure cautelative. La nostra civiltà europea occidentale mostra l’apice di tale sviluppo. Dal punto di vista psicologico è del tutto giustificato proibire sin dall’inizio ogni manifestazione di vita sessuale nei bambini, poiché non ci sono prospettive di frenare le bramosie sessuali degli adulti se non si è iniziato nell’infanzia. Non è invece giustificato che la società civile sia giunta al punto di rinnegare questi fenomeni, non solo facilmente dimostrabili, ma addirittura appariscenti. La scelta oggettuale dell’individuo sessualmente maturo viene ristretta al sesso opposto, e la maggior parte delle soddisfazioni extra-genitali sono bollate come perversioni. La pretesa, evidente in queste proibizioni, di una vita sessuale di ugual genere per tutti sovrasta le differenze nella costituzione sessuale innata e acquisita degli esseri umani e priva un considerevole numero di persone del godimento sessuale, diventando così fonte di pesante ingiustizia. Ora l’effetto di questi provvedimenti restrittivi potrebbe essere che nelle persone normali, non impedite costituzionalmente, ogni interesse sessuale affluisca senza discapito nei canali lasciati aperti. Ma ciò che non è stato messo al bando, l’amore genitale eterosessuale, è ulteriormente circoscritto dalle barriere della legittimità e della monogamia. Non c’è dubbio che la civiltà odierna intende permettere le relazioni sessuali solo sulla base di un legame unico e indissolubile tra un uomo e una donna, non accetta la sessualità come fonte di piacere fine a sé stessa ed è disposta a tollerarla solo come mezzo finora non sostituito per accrescere la specie.
Naturalmente, questo è un caso estremo. È noto che si è dimostrato inattuabile, anche per periodi più brevi. Solo i deboli si sono piegati al crollo così grande della loro libertà sessuale; le nature più forti solo a una condizione compensatrice, di cui si può parlare più avanti. La società civile si è vista costretta a passare sotto silenzio molte trasgressioni che, stando ai suoi canoni, avrebbe dovuto perseguire. Tuttavia, non si può sbagliare in senso opposto, ritenendo che tale suo atteggiamento civile sia del tutto innocuo, dato che non raggiunge tutti i suoi intenti. La vita sessuale dell’uomo civile è in effetti seriamente danneggiata; talora dà l’impressione di una funzione che si trova in via d’involuzione, come la dentatura e la capigliatura, organi apparentemente tali. Si ha verosimilmente ragione a supporre che l’importanza della vita sessuale come fonte di sensazioni di felicità, nell’adempimento dunque dello scopo della nostra vita, sia diminuita sensibilmente.15 Qualche volta crediamo di avvertire che non solo la pressione della civiltà, ma qualcosa nell’essenza della stessa funzione [sessuale] ci impedisca la piena soddisfazione e ci spinga su altre strade. Può essere un errore; è difficile dire.16
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Il lavoro psicanalitico ci ha insegnato che proprio i rifiuti della vita sessuale non sono sopportati dai cosiddetti nevrotici. I quali con i loro sintomi si creano soddisfazioni sostitutive, che tuttavia sono causa di sofferenza o in sé o perché provocano difficoltà con il mondo circostante e la società. Non è difficile capire il secondo caso, ma nel primo siamo di fronte a un nuovo enigma. Però la civiltà esige anche altri sacrifici oltre a quello della soddisfazione sessuale.
Abbiamo concepito la difficoltà dell’evoluzione civile come difficoltà evolutiva generale, riconducendola all’inerzia della libido ad abbandonare la vecchia posizione per la nuova. Diciamo quasi lo stesso derivando il contrasto tra civiltà e sessualità dal fatto che l’amore sessuale è un rapporto tra due persone, in cui un terzo può solo essere superfluo o importuno, mentre la civiltà si basa su relazioni tra un numero maggiore di persone. Al culmine del rapporto amoroso non resta interesse per l’ambiente; la coppia di amanti basta a sé stessa; non ha neppure bisogno, per essere felice, del bambino che ha in comune. In nessun altro caso l’eros svela così chiaramente il nucleo della sua essenza, l’intento di fare uno da più d’uno; ma quando lo ha raggiunto nel modo diventato proverbiale, nell’innamoramento reciproco di due persone, non vuole uscirne.
Fin qui potremmo immaginare molto bene una comunità civile di tali individui doppi che, saziati libidicamente in sé stessi, legati tra loro dal lavoro e dagli interessi comuni. In questo caso la civiltà non avrebbe bisogno di sottrarre energia alla sessualità. Ma tale stato augurabile non esiste né è mai esistito; la realtà ci mostra che la civiltà non si accontenta dei vincoli finora ammessi; pretende anche di legare libidicamente tra loro i membri della comunità; a tale scopo si serve di ogni mezzo, favorisce ogni tramite che procuri forti identificazioni tra gli uomini, impegna enormi quantità di libido inibita nella meta per rinforzare i legami sociali con rapporti d’amicizia. Per realizzare tali intenti è inevitabile la restrizione della vita sessuale. Ma non riusciamo a comprendere quale necessità spinga la civiltà su questa via e provochi l’antagonismo con la sessualità. Deve trattarsi di un fattore di disturbo non ancora da noi scoperto.
Qui può indicarcene la traccia una delle cosiddette pretese ideali della società civile che dice: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. È nota in tutto il mondo, certo più antica del cristianesimo che la ostenta come la sua più orgogliosa dichiarazione, ma certo non antichissima; in epoca storica era ancora estranea agli uomini. Vogliamo affrontarla in modo ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la prima volta. Impossibile allora reprimere un senso di sorpresa e di sconcerto. Perché dovremmo? Cosa ne caviamo? Ma soprattutto, come arrivarci? Come si può? II mio amore è per me prezioso; non posso gettarlo via senza ragione. Mi impone degli obblighi che devo essere pronto a sostenere con sacrifici. Se amo un altro, deve in qualche modo meritarlo.17 Lo merita se mi assomiglia in certi aspetti importanti, così che in lui possa amare me stesso; lo merita, se è tanto più perfetto di me da poter io amare in lui l’ideale di me stesso; devo amarlo se è figlio del mio amico, perché il dolore del mio amico, che gli accada qualcosa, sarebbe anche il mio dolore, un dolore che dovrei condividere. Ma se per me è un estraneo e non può attrarmi per alcun merito personale o per alcun significato da lui già acquisito per la mia vita emotiva, mi sarà difficile amarlo. E farei un’ingiustizia, perché il mio amore è stimato da tutti i miei come segno di predilezione; sarebbe ingiusto nei loro confronti mettere un estraneo sul loro stesso piano. Ma se devo amarlo di quell’amore universale, solo perché anche è un essere di questa terra, come un insetto, un verme, una biscia, allora temo che gli toccherà una quota d’amore ben piccola, impossibile quanto quella che a giudizio di ragione sono giustificato a riservare a me stesso. A che scopo un precetto presentato tanto solennemente, se realizzarlo non si raccomanda da sé come razionale?
Se osservo le cose più da vicino, trovo ancora più difficolta. Non solo l’estraneo in generale non è degno d’amore, ma devo onestamente riconoscere che ha piuttosto diritto alla mia ostilità e persino al mio odio. Sembra non avere il minimo amore per me; non mi mostra la minima considerazione. Se gli torna utile, non esita a danneggiarmi, senza nemmeno chiedersi se il vantaggio ricavato corrisponda alla gravità del danno che mi procura. Anzi, non ha neppure bisogno di trarne vantaggio; pur di poter soddisfare un piacere qualsiasi, non esita a schernirmi, a offendermi, a calunniarmi, a ostentare il suo potere su di me, e più si sente sicuro e io sono indifeso, tanto più certamente devo attendermi da lui questa condotta verso di me. Se si comportasse diversamente, se verso di me estraneo mostrasse rispetto e indulgenza, io ad ogni buon conto, a parte qualsiasi precetto, sarei disposto a trattarlo nello stesso modo. Se quel grandioso comandamento avesse ordinato: “Ama il tuo prossimo come il tuo prossimo ama te”, non avrei nulla in contrario. C’è un secondo comandamento che mi sembra ancora più incomprensibile e che solleva in me un’opposizione ancora più violenta. È “ama i tuoi nemici”. A pensarci bene, ho torto a respingerlo come pretesa ancora più forte. In fondo è lo stesso.18
Credo ora di udire una voce che grave mi ammonisce: “Proprio perché il prossimo non è degno d’amore, anzi è tuo nemico, dovresti amarlo come te stesso”. Capisco allora che è un caso simile al Credo quia absurdum.
È ora molto verosimile che il prossimo, quando gli si imporrà di amarmi come sé stesso, risponderà esattamente come me e mi respingerà per analoghe ragioni. Spero non con lo stesso diritto oggettivo, ma la penserà come me. Per lo meno esistono differenze di comportamento degli uomini che, trascurando i condizionamenti, l’etica classifica come “buoni” o “cattivi”. Finché queste innegabili differenze non saranno abolite, il conformarsi ad alte esigenze etiche significa pregiudicare i disegni della civiltà, perché è come premiare direttamente i malvagi. Non si può fare a meno di ricordare in proposito un episodio avvenuto alla Camera francese, quando si discuteva della pena capitale: un oratore si era appassionatamente adoperato per l’abolizione, ricevendo scroscianti applausi, quando si levò una voce in mezzo alla sala: Que messieurs les assassins commencent! (Che i signori assassini inizino!).
La parte volentieri rinnegata di realtà dietro a tutto ciò è che l’uomo non è un essere mansueto, bisognoso d’amore, capace anche di difendersi se attaccato, ma che si deve attribuire al suo corredo pulsionale anche una potente dose di tendenza all’aggressione. Ne segue che vede nel prossimo non solo un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo. Homo homini lupus; chi ha coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, raggiungibile anche con mezzi meno brutali. In circostanze che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano d’operare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo la bestia selvaggia, a cui è estraneo il riguardo per la propria specie. Chiunque rievochi le atrocità dei popoli, delle invasioni degli Unni o dei cosiddetti Mongoli sotto Gengis Khan e Tamerlano, del sacco di Gerusalemme dei pii Crociati, e ancora gli orrori stessi dell’ultima guerra mondiale, dovrà umilmente piegarsi alla realtà di questa concezione.
L’esistenza di questa tendenza all’aggressione, che possiamo rintracciare in noi stessi e a ragione supporre negli altri, è il fattore che turba i nostri rapporti con il prossimo e obbliga la civiltà allo spreco [di energie]. Per via di questa ostilità primaria degli uomini tra loro, la società civile è minacciata di continuo di distruzione. L’interesse del lavoro della comunità non la terrebbe insieme; le passioni pulsionali sono più forti degli interessi razionali. La civiltà deve far di tutto per porre limiti alle pulsioni aggressive dell’uomo e abbassare le loro manifestazioni grazie a formazioni psichiche reattive. Di qui lo spiegamento di metodi che dovrebbero spingere gli uomini a identificazioni e a relazioni amorose inibite nella meta, di qui le restrizioni della vita sessuale e di qui, anche, il comandamento ideale di amare il prossimo come sé stessi, che si giustifica effettivamente perché null’altro contrasta così tanto con l’originaria natura umana. Nonostante tutti i suoi sforzi la civiltà non ha finora ottenuto molto. Spera di prevenire le peggiori violenze della forza bruta, conferendo a sé stessa il diritto di impiegare la violenza contro i criminali, ma la legge non può mettere le mani sulle manifestazioni più discrete e raffinate dell’aggressività umana. Per ciascuno di noi viene il momento di lasciar cadere come illusorie le speranze riposte in gioventù nei propri simili, e di sperimentare quanto la vita gli è resa aspra e gravosa dalla loro malevolenza. Al tempo stesso sarebbe ingiusto accusare la civiltà di voler escludere dalle attività umane il conflitto e la contesa. Essi sono indubbiamente indispensabili, ma il contrasto non è necessariamente inimicizia, ma solo un abusato pretesto.
I comunisti pensano di aver trovato la via per liberarci dal male. L’uomo è chiaramente buono, ben disposto verso il prossimo, ma l’istituzione della proprietà privata ne ha rovinato la natura. Il possesso di beni privati dà a qualcuno il potere, quindi la tentazione di maltrattare il vicino; l’escluso dal possesso deve ribellarsi in ostilità all’oppressore. Abolendo la proprietà privata, mettendo in comune tutti i beni, tutti potendo partecipare al loro godimento, malevolenza e ostilità tra gli uomini scomparirebbero. Soddisfatti tutti i bisogni, non ci sarebbe più ragione di vedere nell’altro un nemico; tutti si sottometterebbero volentieri al lavoro necessario. Non è affare mio la critica economica del sistema comunista; non posso sapere se l’abolizione della proprietà privata sia opportuna e proficua.19 Ma so riconoscere che la sua premessa psicologica è un’illusione infondata.
Abolendo la proprietà privata si toglie al piacere umano di aggressione uno dei suoi strumenti, certo uno strumento efficace ma di certo non il più efficace. Quanto alle differenze di potere e influenza, di cui l’aggressività abusa ai propri fini, nulla cambia essenzialmente. L’aggressività non è stata creata dalla proprietà; dominava quasi senza restrizione nei tempi primitivi, quando la proprietà era ancora estremamente ridotta; già si palesa nella camera dei bambini, quando non ha ancora abbandonato la forma anale originaria; forma il substrato di ogni relazione tenera e amorosa tra esseri umani, con l’unica eccezione, forse, di quella tra madre e figlio maschio. Sopprimendo il diritto personale ai beni materiali, il privilegio rimane nelle relazioni sessuali, che deve diventare fonte della più forte invidia e rabbiosa ostilità tra uomini per altro messi sullo stesso piano. Superando anche questo elemento grazie alla completa liberazione della vita sessuale, abolendo cioè la famiglia, cellula germinale della civiltà, pur non potendosi prevedere le nuove vie che imboccherebbe l’evoluzione della civiltà, ci attenderemmo comunque una cosa: questo tratto incancellabile della natura umana la seguirebbe ovunque.
Chiaramente non riesce facile agli uomini rinunciare a soddisfare questa loro tendenza aggressiva; non si sentirebbero bene. Il vantaggio di un ambito ristretto di civiltà, che consenta alla pulsione una via d’uscita osteggiando gli esterni, non va disprezzato. È sempre possibile riunire un numero rilevante di uomini nell’amore, solo se ne restano altri per manifestare l’aggressività. Una volta mi sono occupato del fenomeno per cui comunità limitrofe e tra loro affini si osteggiano e si scherniscono a vicenda, come gli Spagnoli e i Portoghesi, i Tedeschi del sud e del nord, gli Inglesi e gli Scozzesi, ecc. Lo chiamai “narcisismo delle piccole differenze”, che non contribuì molto a spiegarlo. Ora vi si riconosce una comoda e relativamente innocua soddisfazione della tendenza aggressiva, che facilita lo stare insieme dei membri di una comunità. Il popolo ebraico, disperso per ogni dove, ha così acquisito meriti degni di essere riconosciuti dalle civiltà dei popoli ospiti. Purtroppo tutti i massacri degli Ebrei nel Medioevo non sono bastati a rendere quest’epoca storica più pacifica e sicura per i loro compagni cristiani. Dopo che l’apostolo Paolo pose l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile che sorgesse l’estrema intolleranza della cristianità contro chi rimaneva fuori. Ai Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, l’intolleranza religiosa fu estranea, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo Stato fosse impregnato di religione. Non fu un caso incomprensibile che il sogno germanico del dominio mondiale facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede preoccupati cosa faranno i Sovietici una volta annientata la loro borghesia.
Se la civiltà impone sacrifici tanto grandi non solo alla sessualità ma anche alla tendenza aggressiva dell’uomo, allora comprendiamo meglio perché l’uomo stenti a trovarvi la felicità. Di fatto l’uomo primitivo stava meglio, perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte di possibilità di felicità per un po’ di sicurezza. Non vogliamo dimenticare poi che nella famiglia primitiva solo il capo godeva di tale libertà pulsionale; gli altri vivevano repressione come schiavi. Ai primordi della civiltà, il contrasto tra una minoranza che godeva dei vantaggi della civiltà e una maggioranza che ne era priva era dunque portato agli estremi. Quanto ai primitivi oggi viventi, sappiamo ormai, dopo accurate indagini, che la loro vita pulsionale non è affatto da invidiare per libertà; soggiace a restrizioni di altra specie, ma forse più rigorose ancora di quelle dell’uomo civile moderno.
Quando giustamente obiettiamo allo stato attuale della nostra civiltà, accusandolo di appagare troppo poco le nostre esigenze di un assetto vitale che ci renda felici, di lasciar sussistere molto dolore che verosimilmente potrebbe essere evitato, quando con critica spietata ci sforziamo di mettere a nudo le radici della sua imperfezione, sicuramente esercitiamo un nostro giusto diritto e non ci mostriamo nemici della civiltà. Possiamo aspettarci di ottenere cambiamenti nella nostra civiltà con l’andare del tempo, tali da soddisfare meglio i nostri bisogni e sfuggire a questa critica. Ma forse ci abitueremo anche all’idea che ci sono difficoltà inerenti all’essenza stessa della civiltà, che resisteranno di fronte a qualsiasi tentativo di riforma. Oltre agli obblighi, cui siamo preparati, della restrizione pulsionale, ci sovrasta il pericolo di una condizione che potremmo definire “la miseria psicologica della massa”. Questo pericolo incombe maggiormente dove il legame sociale è stabilito soprattutto grazie all’identificazione reciproca dei vari membri, mentre le personalità dei capi non acquistano l’importanza che dovrebbero avere nella formazione di una massa.20 La presente condizione della civiltà americana potrebbe offrire una buona opportunità di studiare questo temuto peccato della civiltà. Ma evito la tentazione di addentrarmi nella critica di tale civiltà; non voglio dare l’impressione che io stesso voglia servirmi dei metodi americani.
6
In nessuno lavoro ho avuto mai come questa volta così forte la sensazione di presentare una materia generalmente nota, di consumare carta e inchiostro e poi dar da fare al compositore e allo stampatore per raccontare ovvietà. Perciò coglierei volentieri la palla al balzo, se risultasse che il riconoscimento di una particolare pulsione aggressiva indipendente comporterebbe la modifica della teoria psicanalitica delle pulsioni.
Si vedrà che non è così; si tratta solo di precisare meglio e di seguire le conseguenze di una svolta compiuta da tempo. Di tutte le parti della teoria analitica lentamente sviluppate, la dottrina delle pulsioni è più di ogni altra avanzata faticosamente a tastoni. Eppure essa era così indispensabile per completare il quadro, che si doveva mettere qualcosa al suo posto. Nel colmo della perplessità iniziale, mi fornì il primo appiglio l’aforisma del poeta filosofo Schiller che “fame e amore” tengono insieme il congegno del mondo. La fame poteva valere come rappresentante di quelle pulsioni che vogliono mantenere il singolo individuo; l’amore aspira agli oggetti e la sua funzione principale, favorita in tutti modi dalla natura, è la conservazione della specie. Così all’inizio pulsioni dell’Io e pulsioni oggettuali si contrapposero. Per l’energia di queste ultime, ed esclusivamente per essa, introdussi il termine “libido”; il contrasto divenne dunque quello tra pulsioni dell’Io e pulsioni “libidiche” dell’amore (inteso nel senso più ampio) dirette all’oggetto. In verità, una di queste pulsioni oggettuali, quella sadica, si distingueva per la sua meta tutt’altro che amorosa; aveva evidentemente molti lati in comune con le pulsioni dell’Io, non potendo nascondere la sua stretta affinità con le pulsioni di appropriazione senza mire libidiche. Ma tali discrepanze furono superate; il sadismo apparteneva chiaramente alla vita sessuale, dove il gioco della crudeltà poteva sostituire la tenerezza. La nevrosi apparve l’esito della lotta fra interessi auto-conservativi e richieste libidiche, una lotta in cui l’Io aveva vinto, ma a prezzo di gravi sofferenze e rinunce.
Ogni analista concederà che ancora oggi tutto ciò non si dimostra un errore da tempo superato. Tuttavia, una modifica si rese indispensabile da quando la nostra ricerca ha progredito dal rimosso al rimovente, dalle pulsioni oggettuali all’Io. Decisiva fu l’introduzione del concetto di narcisismo, secondo cui anche l’Io è occupato da libido, di cui è anzi la dimora originaria e rimane in una certa misura il quartier generale. Questa libido narcisistica si rivolge agli oggetti, divenendo così libido oggettuale, ma può ritrasformarsi in libido narcisistica. Il concetto di narcisismo ha permesso d’intendere analiticamente le nevrosi traumatiche, così come molte affezioni vicine alla psicosi e la stessa psicosi. Non fu necessario abbandonare l’interpretazione delle nevrosi di traslazione come tentativo dell’Io di proteggersi contro la sessualità, ma fu messo in pericolo il concetto di libido. Infatti, essendo anche le pulsioni dell’Io, libidiche, per un certo periodo di tempo sembrò inevitabile far coincidere in generale la libido con l’energia pulsionale, come già C.G. Jung aveva preteso.
Pure restava indietro qualcosa come una certezza, non ancora da fondare, che le pulsioni non potevano essere tutte della medesima specie. Feci il passo successivo in AI di là del principio di piacere (1920), quando per la prima volta mi colpì la coazione a ripetere e il carattere conservativo della vita pulsionale. Da speculazioni sull’origine della vita e da paralleli biologici, conclusi che, oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più vaste,21 doveva esistere un’altra pulsione ad essa opposta, mirante a dissolvere tali unità e a ricondurle allo stato primitivo inorganico. Dunque, oltre a eros una pulsione di morte; la loro azione congiunta e contrastante poteva spiegare i fenomeni della vita. Non fu facile, allora, documentare l’attività di questa supposta pulsione di morte. Le manifestazioni dell’eros erano quanto mai appariscenti e chiassose; si poteva supporre che la pulsione di morte lavorasse in silenzio all’interno dell’organismo per dissolverlo, ma ciò naturalmente non era dimostrato. Portò oltre l’idea che parte della pulsione si dirigesse verso il mondo esterno e diventasse quindi visibile come pulsione d’aggressione e di distruzione. La pulsione stessa si piegherebbe così al servizio dell’eros, nel senso che l’essere vivente distruggerebbe qualcos’altro, animato o inanimato, invece del proprio Sé. Viceversa, limitare questa aggressività verso l’esterno dovrebbe far salire l’autodistruzione, che va comunque da sé. Al tempo stesso da questo esempio si poteva indovinare che le due specie di pulsioni di rado, e forse mai, apparissero isolate, ma si legassero sempre tra loro in rapporti diversi, assai variabili, rendendosi così irriconoscibili al nostro giudizio. Il sadismo, da tempo noto come pulsione parziale della sessualità, sarebbe una siffatta lega particolarmente salda della brama amorosa con la pulsione distruttiva, mentre nella sua controparte, il masochismo, avremmo la congiunzione della distruttività rivolta all’interno con la sessualità; per questa via l’aspirazione non altrimenti percepibile diventa appunto evidente e sensibile.
L’ipotesi della pulsione di morte o distruttiva ha trovato resistenze persino in circoli psicanalitici; so che spesso si tende ad attribuire tutto ciò che nell’amore si trova di pericoloso e ostile a un’originaria bipolarità della sua stessa natura. Da principio avevo sostenuto solo a titolo di tentativo le concezioni qui sviluppate, ma con il passare del tempo hanno acquisito su di me tale potere da non riuscire più a pensare diversamente. In campo teorico sono incomparabilmente più utilizzabili di ogni altra possibile concezione; senza trascurare o violentare i fatti, ci offrono quella semplificazione a cui aspiriamo nel lavoro scientifico. Riconosco che nel sadismo e nel masochismo abbiamo sempre avuto sott’occhio manifestazioni della pulsione distruttiva rivolta verso l’esterno e verso l’interno, strettamente legate all’erotismo, ma non capisco più come abbiamo potuto trascurare la presenza ubiquitaria dell’impulso aggressivo e distruttivo non erotico, omettendo di assegnargli il posto che gli spetta nell’interpretazione della vita. (La smania distruttiva diretta verso l’interno, quando non è tinta d’erotismo, si sottrae per lo più alla percezione). Ricordo che io stesso mi difendevo all’idea d’una pulsione distruttiva quando emerse per la prima volta nella letteratura psicanalitica e quanto tempo mi ci volle a recepirla. Che altri mostrassero e mostrino tuttora lo stesso rifiuto, mi sorprende meno. I bambini non ascoltano volentieri quando si parla della tendenza innata dell’uomo al male, all’aggressione, alla distruzione e perciò anche alla crudeltà. Dio li ha creati a immagine della sua perfezione, così che a nessuno piace sentirsi ricordare com’è difficile far coincidere l’esistenza innegabile del male – che rimane tale nonostante le proteste della Christian Science – con l’onnipotenza divina e la suprema bontà. Il diavolo sarebbe un’ottima scappatoia per scagionare Dio; economicamente avrebbe la stessa funzione di scarico che spetta all’ebreo nel mondo degli ideali ariani. Ma poi? Dio può essere chiamato a rispondere tanto dell’esistenza del diavolo quanto del male che questi incarna. Visto che le cose sono così difficili, è consigliabile per chiunque, al momento debito, fare un profondo inchino di fronte alla natura profondamente morale dell’uomo: l’aiuterà a ottenere il favore generale e molto gli sarà perdonato.22
Il nome di libido può di nuovo essere usato per le manifestazioni della forza dell’eros, per distinguerle dall’energia della pulsione di morte.23 Bisogna confessare che ci è molto più difficile concepire quest’ultima; in un certo senso la indoviniamo solo sullo sfondo, dietro l’eros, e addirittura ci sfugge se non si svela legandosi ad esso. Nel sadismo, dove la pulsione di morte distorce dal suo senso la meta erotica, pur soddisfacendo completamente il desiderio sessuale, riusciamo a discernere nel modo più chiaro la sua natura e la sua relazione con l’eros. Ma anche dove essa fa la sua comparsa senza alcuna mira sessuale, anche nel più cieco furore distruttivo, non si può misconoscere che al soddisfacimento della pulsione di morte si riallaccia un godimento narcisistico fuori dall’ordinario, perché mostra all’Io l’appagamento dei suoi antichi desideri d’onnipotenza. Temperata e imbrigliata, in certo qual modo inibita nella meta, la pulsione distruttiva diretta verso gli oggetti procura all’Io la soddisfazione dei suoi bisogni vitali e il dominio della natura. Dato che l’ipotesi della sua esistenza poggia soprattutto su fondamenti teorici, è indiscutibile che essa non è del tutto al sicuro da obiezioni teoriche. Ma così ci appare adesso, allo stato attuale delle nostre conoscenze; la ricerca e la riflessione futura ci porteranno certo la chiarezza definitiva.
Nel seguito, mi attengo allora al punto fermo che la tendenza aggressiva sia nell’uomo una disposizione pulsionale originaria e indipendente e torno perciò ad affermare che la civiltà vi trova il suo ostacolo più grave. A un certo punto, nel corso di questa ricerca, ci si è imposto il modo di vedere che l’evoluzione civile sia un particolare processo che trascorre nell’umanità è restiamo affascinati da tale idea. Aggiungiamo che si tratta di un processo al servizio dell’eros, che mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità: il genere umano. Perché ciò debba accadere non lo sappiamo; è appunto opera dell’eros. Queste moltitudini umane vanno legate l’una all’altra libidicamente; la sola necessità e i vantaggi del lavoro in comune non basterebbero a tenerle insieme. Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte, che abbiamo trovato accanto all’eros con cui si spartisce il dominio del mondo. Ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra eros e morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione, come si attua nella specie umana. Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.24 E le nostre bambinaie vorrebbero placare questa battaglia di giganti con la “canzoncina del premio celeste”!
7
Perché i nostri parenti, gli animali, non mostrano alcuna lotta per la civiltà? Oh! Non lo sappiamo. Molto verosimilmente alcuni di essi – api, formiche, termiti – hanno dovuto lottare per migliaia di secoli prima di trovare quelle istituzioni statali, quella distribuzione delle funzioni, quelle restrizioni individuali, che oggi ammiriamo in essi. Tipico del nostro stato attuale è quanto le nostre sensazioni ci dicono, che non ci riterremmo felici in nessuna di queste istituzioni statali animali e in nessuno dei ruoli ivi assegnati al singolo. In altre specie animali, può essersi stabilito un temporaneo equilibrio tra le influenze dell’ambiente e le pulsioni in lotta al loro interno, arrivando così all’arresto evolutivo. Nell’uomo primitivo, un nuovo assalto libidico può aver attizzato una nuova opposizione alla pulsione distruttiva. Qui le domande sono molte e ancora senza risposta.
Un’altra questione ci tocca più da vicino. Di quali mezzi si serve la civiltà per inibire la spinta aggressiva che le si oppone, per renderla innocua, magari disinnescarla? Di alcuni di questi metodi abbiamo già fatto conoscenza, ma non ancora di quelli apparentemente più importanti. Possiamo studiarli nella storia dello sviluppo individuale. Cosa succede in lui per rendere innocuo il suo piacere di aggredire? Qualcosa di assai strano, che non avremmo indovinato e pure è così evidente. L’aggressività è introiettata, interiorizzata, propriamente è rimandata là da dove viene, quindi è rivolta contro il proprio Io. Qui è assunta da una parte dell’Io, che si contrappone come Super-Io al rimanente, e ora come “coscienza morale” è pronta a dimostrare contro l’Io la stessa severa disposizione aggressiva che l’Io avrebbe volentieri soddisfatto contro altri individui estranei. Chiamiamo coscienza di colpa la tensione tra il rigido Super-Io e l’Io ad esso soggetto, che si manifesta come bisogno di punizione. La civiltà domina dunque il pericoloso piacere d’aggressione dell’individuo indebolendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da un’istanza al suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata.
Sull’origine del senso di colpa l’analista la pensa diversamente dagli altri psicologi, ma anche per lui non è facile darne conto. Innanzitutto, quando si chiede come si giunga ad avere un senso di colpa, si riceve una risposta inconfutabile: uno si sente colpevole (i devoti dicono: in peccato) quando ha fatto qualcosa che riconosce come “male”. Ma poi si vede quanto poco ci dia questa risposta. Forse dopo qualche esitazione si aggiungerà che anche chi non ha commesso questo male, ma semplicemente riconosce in sé stesso l’intenzione di commetterlo, può ritenersi colpevole; allora sorge la domanda su perché in questo caso l’intenzione sia considerata equivalente all’attuazione. Ambedue i casi presuppongono che il male sia stato già riconosciuto come riprovevole, qualcosa da escludere dall’attuazione. Come si giunge a tale decisione? Va scartata un’originaria, per così dire naturale, facoltà di discriminare il bene dal male. Il male spesso non è quel che danneggia o mette in pericolo l’Io, anzi può essere anche qualcosa che l’Io desidera, da cui trae piacere. Qui si mostra dunque un influsso estraneo, che determina cosa debba chiamarsi bene o male. Dato che la propria sensazione non l’avrebbe messo su questa strada, l’uomo deve avere un motivo per sottomettersi a tale influsso estraneo. È facile scoprirlo nella sua impotenza e nella sua dipendenza dagli altri; si può indicare meglio come angoscia di perdere l’amore. Se l’uomo perde l’amore degli altri da cui dipende, ci rimette anche la protezione contro molti pericoli e soprattutto si espone al rischio che la persona più forte mostri la sua superiorità punendolo. Pertanto il male è originariamente tutto ciò per cui si è minacciati di perdere l’amore; bisogna evitarlo, per timore di tale perdita. Perciò conta poco se si è già fatto il male o se solo si intenda farlo; in entrambi i casi il pericolo si presenta solo se l’autorità lo scopre; in entrambi i casi essa si comporterebbe allo stesso modo.
Questo stato d’animo si chiama “cattiva coscienza”, ma in verità il termine non è appropriato perché a questo stadio il senso di colpa è chiaramente solo paura della perdita d’amore, angoscia “sociale”. Nei bambini piccoli il senso di colpa non può essere altro e anche in molte persone adulte il solo cambiamento è che al posto del padre o dei due genitori subentra la più vasta comunità umana. Di conseguenza si permettono di solito di commettere il male che potrebbe portar loro dei vantaggi, purché siano sicuri che l’autorità non venga a saperne nulla o non possa farglielo scontare; loro unico timore è di essere scoperti.25 Ai giorni nostri la società deve tener conto in generale di questo stato.
Un grande mutamento subentra solo se l’autorità è interiorizzata per l’istituirsi di un Super-Io. I fenomeni della coscienza morale si pongono allora su un nuovo gradino più alto; in fondo solo ora si dovrebbe parlare di coscienza morale e di senso di colpa.26 A questo punto decadono sia la paura di essere scoperti, sia la differenza tra fare il male e volerlo, perché niente può rimanere celato al Super-Io, neppure i pensieri. La reale importanza della situazione è comunque svanita, perché la nuova autorità, il Super-Io, non ha motivo, per quanto ne sappiamo, di maltrattare l’Io, a cui appartiene intimamente; è anche vero, tuttavia, che l’influsso esercitato dal modo in cui tale autorità si è generata, lasciando sopravvivere il passato superato, si manifesta nel rimanere in fondo tutto come prima. Il Super-Io tormenta l’Io colpevole con le stesse sensazioni d’angoscia e spia le occasioni per farlo punire dal mondo esterno.
In questo secondo stadio di sviluppo, la coscienza morale mostra una particolarità estranea al primo, che non è più tanto facile da spiegare. Essa si comporta, cioè, con tanto maggior rigore e diffidenza quanto più l’uomo è virtuoso, così che alla fine proprio le persone più avanzate sulla via della santità si accusano delle peggiori nequizie. La virtù ci rimette perciò una parte della ricompensa a lei promessa; l’Io arrendevole e astinente non gode della fiducia del suo mentore e, a quanto sembra, si sforza invano di ottenerla. Ora è pronta l’obiezione: queste sono difficoltà preparate artificiosamente. Una coscienza morale più rigida e vigilante è il segno distintivo dell’uomo morale e, se i santi pretendono di essere dei peccatori, non hanno certo torto, considerate le tentazioni di soddisfacimento pulsionale a cui sono esposti in misura particolarmente grande, dal momento che le tentazioni aumentano, come tutti sanno, se il rifiuto (Versagung) è costante, mentre, soddisfacendole di tanto in tanto, si affievoliscono almeno per un po’.
Un altro fatto dell’etica, campo così ricco di problemi, è che la sventura, quindi il rifiuto esterno, accresca così tanto il potere della coscienza morale nel Super-Io. Finché all’uomo va bene, anche la coscienza è mite e lascia che l’Io affronti di tutto; ma quando è colpito da una calamità, si raccoglie in sé stesso, riconosce la propria iniquità, eleva le proprie pretese morali, si impone astinenze e si punisce con penitenze.27 Popoli interi si sono comportati così e si comportano così tuttora. Ma ciò si spiega facilmente con lo stadio originario, infantile, della coscienza morale, che dunque non è abbandonato dopo l’introiezione del Super-Io, ma continua a sussistere accanto e dietro ad esso. Il destino è visto come sostituto dell’istanza parentale; se si ha sfortuna, significa che non si è più amati da questa somma potestà e, minacciati da questa perdita d’amore, si torna a inchinarsi davanti alla rappresentanza, nel Super-Io, dei genitori, che nella fortuna si volle trascurare. Ciò diventa particolarmente chiaro, se si riconosce nel destino in senso strettamente religioso solo l’espressione della volontà di Dio. Il popolo d’Israele aveva creduto di essere il figlio prediletto di Dio, e quando il Padre fece ricadere su questo suo popolo calamità su calamità, non perse la fede in quella relazione né dubitò della potenza e della giustizia divina, ma generò i profeti che gli rinfacciarono la sua iniquità e dal suo senso di colpa trasse i severissimi comandamenti della sua religione sacerdotale. È notevole come il primitivo si comporti diversamente! Se ha avuto sfortuna, non attribuisce la colpa a sé stesso, ma al feticcio, che chiaramente non ha fatto il suo dovere, e lo bastona invece di punire sé stesso.
Conosciamo quindi due origini del senso di colpa: dall’angoscia dell’autorità e dalla successiva angoscia del Super-Io. La prima costringe a rinunciare alla soddisfazione pulsionale, la seconda, oltre a ciò, preme per la punizione, perché non si può nascondere al Super-Io che i desideri proibiti persistono. Abbiamo anche visto come intendere la severità del Super-Io (gli scrupoli di coscienza). Prosegue semplicemente la severità dell’autorità esterna, da cui si è staccata e ha sostituito in parte.
Vediamo ora la relazione tra rinuncia pulsionale e senso di colpa. All’origine la rinuncia pulsionale consegue all’angoscia dell’autorità esterna; si rinuncia alle soddisfazioni per non perdere il suo amore. Fatta la rinuncia, si è per così dire a posto con l’autorità e non dovrebbe rimanere nessun senso di colpa. Le cose vanno diversamente nel caso dell’angoscia da Super-Io. Qui non basta la rinuncia pulsionale, perché il desiderio rimane e non si può nasconderlo al Super-Io. Così, nonostante segua la rinuncia, sopravviene un senso di colpa e questo è un grande svantaggio economico dell’istituzione del Super-Io o, per dirla altrimenti, del formarsi della coscienza morale. La rinuncia pulsionale ora non ha più un effetto completamente liberatorio, l’astinenza virtuosa non è più ricompensata dalla certezza dell’amore; una minacciosa infelicità esterna – perdita dell’amore e punizione da parte dell’autorità esterna – è stata barattata con una permanente infelicità interna, la tensione del senso di colpa.
Sono rapporti così complicati e al tempo stesso così importanti che, a costo di correre il rischio di ripetermi, vorrei affrontarli ancora da un altro lato. La successione temporale sarebbe dunque questa: prima, rinuncia pulsionale per angoscia dell’aggressione da parte dell’autorità esterna – a ciò si riduce infatti la paura della perdita d’amore; l’amore protegge dall’aggressione della punizione – poi istituzione dell’autorità interna, rinuncia pulsionale conseguente alla sua angoscia, angoscia morale. Nel secondo caso, equiparazione tra azione cattiva e intenzione cattiva, da cui il senso di colpa, il bisogno di essere puniti. L’aggressione della coscienza morale conserva l’aggressione dell’autorità. Fin qui tutto è abbastanza chiaro; ma dov’è Io spazio per l’influsso della sventura (della rinuncia imposta dall’esterno) che rafforzerebbe la coscienza? o per l’eccezionale severità della coscienza nelle persone migliori e più arrendevoli?
Abbiamo già spiegato le due particolarità della coscienza morale, ma verosimilmente mantenendo l’impressione che queste spiegazioni non giungano al fondo e lascino un residuo non chiarito. E qui interviene finalmente un’idea assolutamente tipica della psicanalisi ed estranea al pensiero comune degli uomini. È di tal genere da farci capire perché la questione debba apparirci tanto confusa e oscura. Dice infatti che in principio la coscienza morale (più esattamente, l’angoscia che poi diventa coscienza morale) è la causa della rinuncia pulsionale, ma poi il rapporto si rovescia. Ogni rinuncia pulsionale diventa allora una fonte dinamica di coscienza morale; ogni nuova rinuncia ne accresce la severità e l’intolleranza, e se solo potessimo meglio armonizzare tutto questo con quello che già sappiamo sulla storia dell’origine della coscienza morale, saremmo tentati di giungere al seguente paradosso: la coscienza morale risulta dalla rinuncia pulsionale; oppure, la rinuncia pulsionale (impostaci dall’esterno) crea la coscienza morale, che poi esige ulteriori rinunce.
In verità, la contraddizione tra quest’affermazione e la genesi della coscienza morale proposta non è così grande e vediamo una via per ridurla ulteriormente. Per rendere l’esposizione più facile, scegliamo l’esempio della pulsione aggressiva e supponiamo che in questa circostanza si tratti sempre di rinuncia all’aggressione. Questa naturalmente è solo una supposizione provvisoria. L’effetto della rinuncia pulsionale sulla coscienza morale va allora da sé; quella parte di aggressività che tralasciamo è presa su di sé dal Super-Io e ne accresce l’aggressività contro l’Io. Ciò non si accorda bene con il fatto che l’originaria aggressività della coscienza morale continui il rigore dell’autorità esterna e quindi non ha niente a che fare con la rinuncia. Ma facciamo scomparire la discrepanza supponendo che la prima aggressività, di cui è dotato il Super-Io, abbia un’altra derivazione. Contro l’autorità che impedì al bambino le prime ma più importanti soddisfazioni, si dovette sviluppare in lui una considerevole dose di aggressività, a prescindere dal tipo di sacrifici pulsionali richiesti. Costretto dalla necessità, il bambino dovette rinunciare a soddisfare questa aggressività vendicativa.
Per uscire dalla difficile situazione economica, il bambino si aiuta con meccanismi noti, assumendo in sé grazie all’identificazione tale autorità inattaccabile, che diviene allora il Super-Io e si appropria di tutta l’aggressività che il bambino le avrebbe volentieri rivolto contro. L’Io del bambino deve accontentarsi del triste ruolo dell’autorità così sminuita, ossia del padre. È un capovolgimento della situazione, tutt’altro che raro. “Se io fossi il padre e tu il figlio, ti tratterei male”. La relazione tra Super-Io e Io riproduce, deformata dal desiderio, la relazione reale tra l’Io ancora indiviso e l’oggetto esterno. Anche questo è tipico. La differenza essenziale è tuttavia che la severità originaria del Super-Io non è – o non è tanto – quella sperimentata o attesa da parte sua, ma rappresenta invece la propria aggressività contro di lui. Se ciò è corretto, si può realmente affermare che la coscienza morale nasce da principio dalla repressione di un’aggressione e si rinforza nell’ulteriore decorso grazie a nuove repressioni simili.
Ora, quale di queste due ipotesi è giusta? Quella di prima, che ci sembra geneticamente così inoppugnabile, o la nuova, che integra la teoria in modo così felice? È evidente, anche per la testimonianza dell’osservazione diretta, che sono giustificate entrambe; non si contraddicono reciprocamente e in un punto persino convergono, in quanto l’aggressività vendicatrice del bambino sarà in parte determinata dalla più o meno violenta aggressione punitiva che si aspetta dal padre. L’esperienza insegna però che la severità del Super-Io sviluppata dal bambino non corrisponde affatto alla severità del trattamento che egli stesso ha subito.28 Sembrano due cose indipendenti: da un’educazione molto mite un bambino può derivare una coscienza molto severa. Ma sarebbe anche sbagliato voler esagerare questa indipendenza; non è difficile convincersi che anche la severità dell’educazione esercita un forte influsso sulla formazione del Super-Io del bambino. E ne consegue che nella formazione del Super-Io e nel sorgere della coscienza morale convergono fattori costituzionali innati e influssi ambientali del mondo reale, il che non è affatto strano, anzi è la condizione eziologica universale di tutti simili processi.29
Si può anche dire che, se il bambino reagisce ai primi grandi rifiuti pulsionali con troppo forte aggressività e corrispondente severità del Super-Io, segue un modello filogenetico, andando al di là della reazione attualmente giustificata, in quanto non v’è dubbio che il padre della preistoria era terribile e si poteva ritenerlo in grado della misura massima di aggressione. Le differenze tra le due concezioni della genesi della coscienza morale si riducono pertanto ancora di più passando dalla storia evolutiva individuale a quella filogenetica. In merito, in questi due processi evolutivi si mostra una nuova differenza significativa. Non possiamo prescindere dall’ipotesi che il senso di colpa dell’umanità origini dal complesso edipico e sia stato acquisito con l’uccisione del padre da parte dei fratelli uniti.30 Allora un’aggressione non fu repressa ma effettuata, ed è la stessa aggressione che, repressa nel bambino, dovrebbe essere la fonte del suo senso di colpa. A questo punto non mi meraviglierei se un lettore sdegnato esclamasse: “Dunque è del tutto indifferente se uno ammazza il padre o no, si ottiene un senso di colpa in ogni caso! Ci sia concesso di dubitarne. O non è vero che il senso di colpa deriva dall’aggressione repressa, o tutta la storia del parricidio è un romanzo, e i figli dell’uomo primitivo non ammazzarono il padre più spesso di quanto siano soliti farlo i nostri contemporanei. Inoltre, se non fosse un romanzo, ma una storia plausibile, ci troveremmo di fronte a un caso in cui le cose avvengono esattamente come tutti se le aspettano, vale a dire uno si sente colpevole perché ha effettivamente commesso qualcosa d’ingiustificabile. E per questo caso, che pur sempre si verifica quotidianamente, la psicanalisi ci deve una spiegazione!”
È vero e si deve rimediare. Non c’è neppure un particolare segreto. Se si ha un senso di colpa dopo aver commesso un crimine e perché lo si è commesso, a questo sentimento va piuttosto detto rimorso. Si riferisce a un fatto e naturalmente presuppone che una coscienza morale, la facoltà di sentirsi in colpa, esista già prima del fatto. Un simile rimorso, perciò, non ci aiuta mai a trovare l’origine della coscienza e del senso di colpa in genere. L’andamento di questi casi quotidiani è di solito il seguente: un bisogno pulsionale ha acquisito la forza di imporre la propria soddisfazione contro la coscienza morale ora di forza limitata; poi, con il naturale affievolirsi del bisogno grazie alla soddisfazione, si ripristina il precedente rapporto di forze. La psicanalisi fa dunque bene a escludere da questa discussione il caso del senso di colpa da rimorso, per frequente che sia e per quanto sia frequente e grande la sua importanza pratica.
Ma se l’umano senso di colpa risale all’uccisione del padre primitivo, fu pure un caso di “rimorso” e allora non esistettero prima del fatto né coscienza morale né senso di colpa? Da dove venne allora il rimorso? Certo, questo caso deve spiegarci il mistero del senso di colpa e porre fine alle nostre perplessità, e penso che ci riesca. Quel rimorso fu il risultato della primitiva ambivalenza emotiva verso il padre: i figli lo odiavano ma anche lo amavano; una volta soddisfatto l’odio con l’aggressione, nel rimorso per l’atto prevalse l’amore, che rinvigorì il Super-Io mediante l’identificazione con il padre, conferendogli il potere paterno a punire l’atto di aggressione perpetrato contro di lui e instaurando le restrizioni che dovevano prevenire il ripetersi del fatto. E dato che la tendenza ad aggredire il padre si ripeté nelle successive generazioni, perdurò anche il senso di colpa, che tornò a rafforzarsi ad ogni nuova aggressione repressa e trasferita al Super-Io.
Ora, mi pare, abbiamo finalmente fatto piena luce su due cose: la parte dell’amore nella nascita della coscienza morale e la fatale inevitabilità del senso di colpa. In realtà non è decisivo se si è ucciso il padre o se ci si è astenuti dal farlo; in entrambi i casi dobbiamo sentirci colpevoli perché il senso di colpa è l’espressione del conflitto di ambivalenza, dell’eterna lotta tra l’eros e la pulsione distruttiva o di morte. Il conflitto si accende appena agli uomini si pone il compito di vivere insieme. Finché questa comunità conosce solo la forma della famiglia, deve per forza manifestarsi nel complesso edipico, insediare la coscienza morale e creare il primo senso di colpa. Quando si tenta di allargare la comunità, lo stesso conflitto si perpetua in forme dipendenti dal passato, si rinforza e provoca l’ulteriore incremento del senso di colpa. Dato che la civiltà obbedisce a una spinta erotica interna, che significa unire gli uomini in una massa intimamente coesa, può raggiungere tale meta solo per la via di un sempre crescente rinforzo del senso di colpa. Ciò che cominciò con il padre, si compie nella massa. Se la civiltà è il percorso evolutivo necessario dalla famiglia all’umanità, ad essa inseparabilmente si ricollega l’esaltazione del senso di colpa, in conseguenza del conflitto d’ambivalenza innato, dell’eterna disputa tra amore e aspirazione di morte: un’esaltazione che forse giunge ad altezze difficilmente sopportabili per il singolo. Si ricordi la commovente accusa del grande poeta contro le “potenze celesti”
lhr führt ins Leben uns hinein,
Ihr Iasst den Armen schuldig werden,
Dann überlasst lhr ihn der Pein,
Denn jede Schuld rächt sich auf Erden.
[Voi ci spingete a vivere,
Voi fate del misero un colpevole,
Poi alla sua pena lo abbandonate,
Perchè le colpe in terra siano espiate.]31
E ci sia consentito trarre un sospiro di sollievo vedendo che a singoli uomini è dato ricavare senza una vera fatica dal vertice dei propri sentimenti le più profonde intuizioni, mentre a noialtri non resta che farci strada a tastoni, senza posa, in tormentosa incertezza verso le medesime verità.
8
Giunti al termine di tale via, l’autore deve chiedere scusa ai suoi lettori di non essere stato una guida più abile, capace di risparmiare loro l’esperienza di tratti tediosi e di faticosi giri traversi. Non c’è dubbio che si può far di meglio. A posteriori voglio tentare di porvi rimedio.
innanzitutto, sospetto che i lettori abbiano l’impressione che le discussioni sul senso di colpa forzino i limiti del saggio, in quanto prendono troppo spazio, confinando ai margini l’altro argomento, con cui non sempre sono strettamente connesse. Anche se l’architettura del saggio può averne sofferto, ciò corrisponde perfettamente all’intento di presentare il senso di colpa come il problema più importante dell’evoluzione civile e di dimostrare che il progresso civile ha un prezzo, pagato in perdita di felicità grazie all’aumentato senso di colpa.32 Ciò che ancora di sconcertante può esserci in questa asserzione, che costituisce il risultato finale della nostra indagine, va verosimilmente ricondotto al rapporto del tutto originale e tuttora inspiegato del senso di colpa con la nostra coscienza. Nei comuni casi di rimorso, per noi normali, la coscienza riesce a percepire abbastanza chiaramente il senso di colpa; tanto è vero che in tedesco siamo abituati a dire “coscienza di colpa”, invece di senso di colpa. Lo studio delle nevrosi, cui dobbiamo le più preziose indicazioni per capire le condizioni normali, dà rapporti contraddittori. In una di queste affezioni, la nevrosi coatta, il senso di colpa si spinge molto in là nella coscienza, domina il quadro clinico e la vita del paziente, quasi non vi lascia apparire nient’altro. Ma nella maggior parte degli altri casi e forme di nevrosi rimane completamente inconscio, senza per questo manifestare effetti di minor conto. I malati non ci credono quando prospettiamo loro un “senso di colpa inconscio”; per farci capire almeno in parte, raccontiamo loro di un bisogno inconscio di punizione, in cui il senso di colpa si esprime. Ma la relazione con la forma nevrotica non va sopravvalutata; persino nella nevrosi coatta vi sono tipi di malati che non percepiscono il loro senso di colpa o lo avvertono unicamente come disagio che li tormenta, una sorta di angoscia che li prende impedendo loro di portare a compimento le azioni. È sperabile che un giorno sia possibile capire finalmente queste cose; per ora non è possibile. Forse è qui benvenuta l’osservazione che, in fondo, il senso di colpa non è che una variante topica di angoscia, che nelle sue fasi successive coincide perfettamente con l’angoscia da Super-Io. Nell’angoscia si mostrano le stesse straordinarie variazioni rispetto alla coscienza. In qualche modo dietro tutti i sintomi c’è sempre l’angoscia, però, ora assorbe in sé vistosamente tutta la coscienza, ora si cela in modo così perfetto che siamo costretti a parlare di angoscia inconscia, oppure, volendo avere una coscienza morale più pura, di possibilità d’angoscia, perché l’angoscia è prima di tutto solo una sensazione. E quindi si può benissimo pensare che anche il senso di colpa prodotto dalla civiltà non sia riconosciuto come tale, rimanga in gran parte inconscio o venga alla luce come disagio, un’insoddisfazione per cui vanno rintracciate motivazioni diverse. Almeno le religioni non hanno mai trascurato il ruolo del senso di colpa nella civiltà. Anzi pretendono – cosa che non avevo ben valutato altrove33 – di redimere l’umanità da questo senso di colpa, che chiamano peccato. Dal modo in cui il cristianesimo ottiene questa redenzione (il sacrificio della vita di un singolo, che così assume su di sé la colpa di tutti) abbiamo già concluso quale possa essere stata l’occasione prima per acquisire questa colpa primitiva, con cui iniziò anche la civiltà.34
Può non essere molto importante, ma non essere superfluo, spiegare il significato di alcune parole come Super-Io, coscienza morale, senso di colpa, bisogno di punizione, rimorso, che forse abbiamo usato spesso troppo liberamente e l’una al posto dell’altra. Tutte si riferiscono allo stesso rapporto, ma ne denotano aspetti diversi. Il Super-Io è un’istanza da noi dedotta; la coscienza morale una funzione che gli attribuiamo, fra le altre, per sorvegliare e giudicare le azioni e le intenzioni dell’Io, esercitando un’azione censoria. Il senso cli colpa (la durezza del Super-Io), quindi, è lo stesso della severità della coscienza; è la percezione che l’Io ha di essere sorvegliato in tal modo, la stima della tensione tra le spirazioni dell’Io e le esigenze del Super-Io; l’angoscia che sta al fondo di tutto ciò, ossia l’angoscia di fronte a questa istanza critica, il bisogno di punizione, è una manifestazione pulsionale dell’Io, divenuto masochista sotto l’influsso del Super-Io sadico; è cioè una parte della pulsione presente nell’Io e tendente alla distruzione interna, impiegata per formare un vincolo erotico con il Super-Io. Di coscienza morale non si dovrebbe parlare finché non sia dimostrabile un Super-Io; circa il senso di colpa si deve ammettere che esiste prima del Super-io, quindi anche prima della coscienza morale. Allora è l’espressione immediata dell’angoscia dell’autorità esterna, il riconoscimento della tensione tra l’Io e questa autorità, il diretto derivato del conflitto tra il bisogno di essere amati dall’autorità e la spinta verso la soddisfazione pulsionale, che inibita genera aggressività. La sovrapposizione dei due livelli del senso di colpa – uno derivante dal timore dell’autorità esterna, l’altro dal timore dell’autorità interna – ci ha reso difficile più di una volta cogliere le relazioni della coscienza morale. Rimorso è un termine generico per la reazione dell’Io in caso di senso di colpa; include quasi non trasformato il materiale sensoriale attivo dietro l’angoscia; è esso stesso una punizione e può includere il bisogno di punizione; anch’esso, dunque, può essere più antico della coscienza morale.
Non può nuocere ripassare le contraddizioni che per un po’ hanno confuso la nostra ricerca. II senso di colpa dovette una volta seguire ad aggressioni non compiute, ma poi, proprio per come ebbe storicamente inizio con il parricidio, fu conseguenza di un’aggressione in atto. Trovammo anche la via d’uscita da tale difficoltà. Stabilita l’autorità interna del Super-Io, le condizioni cambiarono radicalmente. Prima, il senso di colpa coincideva con il rimorso; notiamo che il termine rimorso va riservato alla reazione dopo l’aggressione realmente effettuata. Poi, a causa dell’onniscienza del Super-Io, la differenza tra aggressione intenzionale ed eseguita perse la sua forza; da allora il senso di colpa poté essere generato tanto da un atto di violenza realmente effettuato, come tutti sanno, quanto da un atto solo ideato, come la psicanalisi ha riconosciuto. Oltre al mutamento della situazione psicologica, il conflitto d’ambivalenza tra le due pulsioni primarie si lascia dietro lo stesso effetto. È ovvia la tentazione di cercare qui la soluzione dell’enigma della relazione variabile tra senso di colpa e coscienza. II senso di colpa dovuto al rimorso per la cattiva azione dovrebbe sempre essere conscio; quello da percezione dell’impulso cattivo potrebbe rimanere inconscio. Solo che non è così semplice: la nevrosi coatta è in forte contraddizione con questo.
La seconda contraddizione è che l’energia aggressiva, di cui si pensa dotato il Super-Io, secondo una certa concezione continua semplicemente l’energia punitrice dell’autorità esterna e la conserva per la vita psichica, mentre secondo un’altra concezione si tratta di un’aggressività del soggetto rimasta inutilizzata e rivolta contro quell’autorità inibitoria. La prima dottrina sembrava accordarsi meglio con la storia, la seconda con la teoria del senso di colpa. A una riflessione più approfondita il contrasto apparentemente insanabile scomparve quasi del tutto: rimase l’elemento essenziale e comune, trattandosi di aggressività spostata all’interno. L’osservazione clinica permette ancora di distinguere in realtà due fonti di aggressività attribuibili al Super-Io, di cui ora l’una ora l’altra incide di più, a seconda delle circostanze; tuttavia in generale agiscono insieme.
Questo è il luogo, credo, per sostenere seriamente una concezione che prima ho suggerito di accogliere provvisoriamente. Nella letteratura analitica più recente si mostra una predilezione per la dottrina secondo cui ogni genere di rifiuto, ogni soddisfazione pulsionale impedita, avrebbe o potrebbe avere la conseguenza di incrementare il senso di colpa.35 Secondo me, si fa una grande semplificazione teorica considerandolo valido solo per le pulsioni aggressive; non si troverà molto che contraddica questa supposizione. Infatti, come spiegare dinamicamente ed economicamente che al posto di una pretesa erotica inappagata subentri un’esaltazione del senso di colpa? Sembra possibile solo indirettamente, se la soddisfazione erotica impedita suscita una certa aggressività contro la persona che turba la soddisfazione e se tale aggressività va a sua volta repressa. Insomma, solo l’aggressività si trasforma in senso di colpa, quando è repressa e spostata sul Super-Io. Sono convinto che potremmo rappresentarci molti processi in modo più semplice e limpido, limitando alle pulsioni aggressive le scoperte della psicanalisi sulla derivazione del senso di colpa. La consultazione del materiale clinico non dà qui alcuna risposta univoca perché, in conformità con la nostra ipotesi, le due specie di pulsioni non si presentano quasi mai allo stato puro, isolate l’una dall’altra; ma la valutazione dei casi estremi andrà nella direzione da me attesa.
Sono tentato di trarre un primo vantaggio da questa concezione più ristretta, applicandola al processo di rimozione. I sintomi delle nevrosi, come abbiamo imparato, sono essenzialmente soddisfazioni sostitutive di desideri sessuali inappagati. Nel corso del lavoro analitico siamo venuti a sapere con nostra sorpresa che forse ogni nevrosi cela un importo di senso di colpa inconscio, che a sua volta rinforza i sintomi usandoli come punizioni. È ovvio, allora, formulare l’enunciato: se una tendenza pulsionale subisce la rimozione, le parti libidiche si trasformano in sintomi, le componenti aggressive in senso di colpa. Anche se questa proposizione rappresenta solo un’approssimazione in media alla verità, merita il nostro interesse.
Alcuni lettori di questo saggio potrebbero inoltre avere l’impressione di aver udito troppo spesso la formula della lotta tra eros e pulsione di morte. Usata per caratterizzare il processo di civiltà che decorre nell’umanità, è stata riferita anche allo sviluppo dell’individuo, avendo per giunta nascosto il segreto della vita organica in generale. Sembra inevitabile esaminare le relazioni reciproche di questi tre processi. Ora la ripetizione della stessa formula si giustifica considerando che il processo civile dell’umanità e lo sviluppo dell'individuo siano entrambi processi vitali, che quindi devono avere il carattere più generale della vita. D’altro parte proprio la dimostrazione di questo tratto generale dimostrare alla differenziazione, finché esso non sia stato ristretto da condizioni particolari. Può tranquillizzarci solo l’enunciato che il processo civile sia la modifica del processo vitale prodotta come compito assegnato dall’eros e stimolato dall’ananke – dalla necessità reale – consistente nel riunire uomini dispersi in una comunità di uomini fra loro legati libidicamente. Se guardiamo invece alla relazione tra il processo della civiltà dell'umanità e il processo evolutivo o educativo dell’uomo singolo, concluderemo senza esitare che i due processi sono di natura assai simile, se non addirittura lo stesso processo applicato a oggetti diversi. Il processo di civiltà della specie umana è naturalmente un’astrazione di ordine più alto dello sviluppo individuale, quindi è più difficile da afferrare intuitivamente; del resto trovare analogie non deve diventare una coazione spinta; tuttavia, data la similarità delle mete – qui l’inserimento di un individuo in una massa umana, là la formazione di un’unità di massa da una molteplicità di individui – la somiglianza dei mezzi impiegati e dei fenomeni che si producono può non stupire.
Per la sua straordinaria importanza non possiamo passare oltre sotto silenzio un tratto che distingue i due processi. Nel processo evolutivo delsingolo uomo il programma del principio di piacere, trovare soddisfazione nella felicità, è tenuto fermo come meta principale; l’inserirsi o l’adattarsi a una comunità umana appare come una condizione inevitabile, da compiere sulla strada che porta alla felicità. Poter fare a meno di questa condizione, forse sarebbe meglio. In altre parole, lo sviluppo individuale ci sembra prodotto dall’interferenza di due aspirazioni, una alla felicità, che comunemente chiamiamo “egoistica”, e l’altra all’unione con gli altri nella comunità, che chiamiamo “altruistica”. Entrambe le definizioni non vanno molto oltre la superficie. Nello sviluppo individuale, come già detto, l’accento principale cade soprattutto sull’aspirazione egoistica o alla felicità, mentre l’altra, chiamata “civile”, si accontenta di regola del ruolo della restrizione. Le cose vanno altrimenti nel processo di civiltà: qui lo scopo di creare un’unità dagli individui umani è la cosa di gran lunga più importante, mentre la meta della felicità sussiste ancora, ma relegata sullo sfondo; sembra quasi che si giungerebbe meglio a costituire una grande comunità umana, non dovendosi preoccupare della felicità del singolo. Quindi il processo evolutivo del singolo può avere i suoi aspetti particolari, che non si ritrovano nel processo della civiltà dell’umanità; solo nella misura in cui il primo processo ha come meta l’inclusione nella comunità, arriva a coincidere con il secondo.
Come il pianeta gira intorno a un corpo centrale, oltre che ruotare intorno al proprio asse, così il singolo uomo partecipa al corso evolutivo dell’umanità mentre va per la propria strada nella vita. Ma ai nostri stupidi occhi il gioco delle forze celesti sembra fissato per sempre in un rigido ordine; invece nell’accadere organico vediamo ancora le forze lottare tra loro e i risultati del conflitto mutare di continuo. Così devono lottare in ogni individuo le due aspirazioni, quella verso la felicità individuale e quella di congiungersi con gli altri esseri umani; così si contrappongono ostilmente i due processi dello sviluppo individuale e dello sviluppo civile, costretti a disputarsi il campo l’uno contro l’altro. Ma questa lotta tra individuo e società non è un prodotto del contrasto presumibilmente insanabile fra le pulsioni primitive, eros e morte; equivale piuttosto a una discrepanza nell’amministrazione interna della libido, paragonabile alla disputa per la ripartizione della libido tra l’Io e gli oggetti, e ammette un accomodamento finale nell’individuo, come pure sperabilmente nel futuro della civiltà; attualmente tale lotta può pesare moltissimo sulla vita del singolo.
L’analogia tra processo civile e la via dello sviluppo individuale si presta a essere estesa in una parte importante. Infatti, si può sostenere che anche la comunità istruisca un Super-Io, sotto il cui influsso si compie l’evoluzione civile. Per chi conosca le civiltà umane, potrebbe essere un compito seducente seguire questa equiparazione nei particolari. Voglio limitarmi a porre in rilievo alcuni punti che colpiscono immediatamente l’attenzione. Il Super-Io di un’epoca della civiltà ha un’origine simile al Super-Io dell’individuo; si basa sull’impressione che hanno lasciato dietro di sé grandi personalità di capi: uomini dotati di una forza spirituale capace di trascinare gli altri, o uomini in cui una delle tendenze umane abbia trovato lo sviluppo più forte e più puro e perciò spesso anche più unilaterale. In molti casi l’analogia va ancora oltre, in quanto queste persone abbastanza spesso, anche se non sempre, furono in vita sbeffeggiate, maltrattate o addirittura crudelmente uccise, così come il padre primitivo assurse a divinità solo molto tempo dopo la sua morte violenta. L’esempio più impressionante di questa connessione di destini è la figura di Gesù Cristo, a meno che essa non appartenga alla mitologia, sviluppata in oscura memoria di quell’evento primordiale. Un altro punto di concordanza è che il Super-Io della civiltà, come l’individuale, espone severe esigenze ideali, il cui mancato adempimento è punito con l’“angoscia morale”. Qui si presenta un caso notevole: possiamo ottenere più confidenza con i processi psichici e ne diveniamo più facilmente consapevoli se li vediamo nella massa piuttosto che nel singolo individuo. In quest’ultimo solo l’aggressività del Super-io, in caso di tensione, diviene percettibile clamorosamente sotto forma di rimproveri, mentre spesso le esigenze medesime restano inconsce nel sottofondo. Portandole a consapevole conoscenza, si mostra che coincidono con ciò che in quel momento prescrive il Super-Io della civiltà. A quel punto i due processi evolutivi, il processo di sviluppo civile della moltitudine e lo sviluppo dell’individuo, sono sempre intimamente intrecciati. Alcune manifestazioni e proprietà del Super-Io possono pertanto venire più facilmente conosciute dal suo modo di procedere nella comunità civile che non presso il singolo.
Il Super-Io della civiltà ha istruito i suoi ideali ed elevato le sue esigenze. Fra le ultime, quelle riguardanti le relazioni degli uomini tra loro sono comprese nell’etica. In ogni tempo si è assegnato a questa etica il massimo valore, come se tutti se ne aspettassero importanti prestazioni. In realtà l’etica, com’è facile riconoscere, tocca il punto dolente di ogni civiltà. Perciò l’etica va intesa come un esperimento terapeutico, ossia lo sforzo di raggiungere attraverso un obbligo del Super-Io ciò che finora non fu raggiunto da nessun precedente lavoro civile. Sappiamo già che il problema è come rimuovere il maggior ostacolo alla civiltà, la tendenza costituzionale degli uomini all’aggressione reciproca; proprio per questo giudichiamo particolarmente interessante il comandamento verosimilmente più recente del Super-Io civile: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Lo studio e la terapia delle nevrosi ci inducono a muovere due rimproveri al Super-Io individuale, che si preoccupa troppo poco, nella severità dei suoi imperativi e divieti, della felicità dell’Io, in quanto non tiene abbastanza conto delle resistenze all’ubbidienza, della forza pulsionale dell'Es e inoltre, delle difficoltà del mondo circostante reale. Quindi in ottica terapeutica siamo molto spesso obbligati a combattere il Super-Io e ci sforziamo di abbassare le sue pretese. Obiezioni del tutto analoghe possiamo sollevare contro le esigenze etiche del Super-Io della civiltà. Anch'esso non si preoccupa abbastanza dei dati di fatto della costituzione psichica degli esseri umani; emana un ordine e non si chiede se sia possibile eseguirlo. Presume, anzi, che all’Io dell’uomo sia psicologicamente possibile richiedere tutto, che l’Io abbia un potere illimitato sul suo Es. Questo è un errore; anche nei cosiddetti normali padroneggiare l’Es non può superare certi limiti. Esigendo di più, si produce nell'individuo la rivolta, o la nevrosi, o lo si rende infelice. Il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” è la più forte difesa contro l’aggressività umana ed eccellente esempio del modo di procedere non psicologico del Super-Io civile. Il comandamento è irrealizzabile; l’inflazione così grandiosa dell’amore può solo sminuirne il valore, non cancella la difficoltà. La civiltà trascura tutto ciò; ci ammonisce solo che quanto più difficile è l’osservanza del precetto, tanto più è meritoria. Eppure, chi nella presente civiltà si attiene a tale precetto si pone solo in svantaggio rispetto a chi se ne sta fuori. Che potente ostacolo alla civiltà dev’essere l’aggressività, se difendersene può rendere tanto infelici quanto la stessa aggressività! La cosiddetta etica naturale non ha qui da offrire nulla all’infuori della soddisfazione narcisistica di potersi ritenere migliori degli altri. L’etica che si appoggia alla religione fa qui intervenire le sue promesse di un aldilà migliore. A mio avviso, finché la virtù non vale la pena già sulla terra, l’etica predicherà invano. Sembra anche a me indubitabile che un reale mutamento nei rapporti dell’uomo con la proprietà rimedierà più di qualsiasi precetto etico; ma fra i socialisti questa intuizione è turbata e la realizzazione obliterata dal nuovo misconoscimento idealistico della natura umana.
Mi pare che il modo di vedere mirante a rintracciare nei fenomeni dello sviluppo civile il ruolo di un Super-Io garantisca ancora altre spiegazioni. Mi affretto a concludere. Comunque, una domanda posso difficilmente evitare. Se l’evoluzione della civiltà assomiglia tanto a quella dell’individuo e se usa i suoi stessi mezzi, non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili e magari l'intero genere umano, siano diventati “nevrotici” per influsso delle stesse aspirazioni civili? Alla dissezione analitica di queste nevrosi potrebbero far seguito consigli terapeutici da rivendicare grande interesse pratico. Non potrei dire che simile tentativo di trasferire la psicanalisi alla comunità civile non avrebbe senso o sarebbe condannato alla sterilità. Ma bisognerebbe andar molto cauti, senza dimenticare mai che in fin dei conti si tratta solo di analogie, e che è pericoloso, non solo con gli uomini ma anche con i concetti, strapparli dalla sfera in cui sono sorti e si sono evoluti. La diagnosi di nevrosi collettive urta poi contro una particolare difficoltà. Nella nevrosi individuale il contrasto del malato rispetto al suo ambiente, considerato “normale”, ci serve da punto di riferimento immediato. Un simile sfondo manca in una massa tutta ugualmente affetta e andrebbe preso altrove. Quanto poi all’applicazione terapeutica della comprensione raggiunta, a cosa gioverebbe un’analisi, sia pure la più pertinente, delle nevrosi sociali, dato che nessuno possiede l’autorità d’imporre alla massa la terapia? Nonostante tutte queste difficoltà, ci si può aspettare che un giorno qualcuno si arrischi su tale patologia delle comunità civili.
++Per vari motivi sono molto lontano dal valutare la civiltà umana. Mi sono sforzato di tenermi lontano dal pregiudizio entusiastico secondo cui la nostra civiltà sarebbe la cosa più preziosa, che possediamo o potremmo acquisire, e che necessariamente il suo cammino ci debba condurre ad altezze di impensabile perfezione. Così per lo meno posso non indignarmi sentendo il critico che, considerate le mete cui tendono i nostri sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il gioco non valga la candela e che l’esito debba essere per il singolo intollerabile. La mia imparzialità è facilitata dal fatto che so ben poco di tutte queste cose; so con sicurezza solo che i giudizi di valore degli uomini sono guidati esclusivamente dai loro desideri di felicità, e sono quindi un tentativo di argomentare le loro illusioni. Capirei benissimo chi desse rilievo al carattere di inevitabilità della civiltà umana e dicesse, per esempio, che la tendenza a porre delle restrizioni alla vita sessuale o quella di mettere in pratica l’ideale umanitario a spese della selezione naturale sono direzioni evolutive che non si possono eludere né deviare, e alle quali è meglio inchinarsi come se fossero necessità naturali. Conosco anche l’obiezione contraria, che spesso l’umanità, nel corso della sua storia, ha respinto simili tendenze ritenute insopprimibili e le ha sostituite con altre. Così mi manca il coraggio di ergermi a profeta di fronte al mio prossimo e accetto il rimprovero di non saperlo consolare, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più bravi credenti.
La questione vitale della specie umana mi sembra se, e in che misura, la sua evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva dovuti alla pulsione aggressiva e auto-distruttiva degli uomini. Sotto questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che con il loro aiuto sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno; da lì buona parte della loro presente inquietudine, infelicità e apprensione. E ora c'è da aspettarsi che l’altra delle due “potenze celesti”, l’eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?
1 [Nota aggiunta nel 1931] LiIuli, poesia del 1919. Dopo la comparsa dei due libri La vie de Ramakrishna (1929) e La vie de Vivekananda (1930), non ho più bisogno di nascondere che l’amico di cui si parla nel testo è Romain Rolland.
2 V. Hannibal di Christian Dietrich Grabbe [1801-1836): Ja, aus der Welt werden wir nicht fallen. Wir sind einmal darin [“Comunque, non cadremo fuori dal mondo. Ci stiamo dentro una volta per tutte”].
3 Si vedano i numerosi lavori sullo sviluppo dell'Io e sul senso dell’Io, a cominciare dall’articolo di Ferenczi, Entwicklungsstufen des Wirklichkeitssinnes, lnt. Z. (arztl.) Psychoanal., vol. 1, 124 (1913) fino ai contributi di Paul Federn del 1906, 1907 e oltre.
4 Seguo The Cambridge Ancient History, vol. 7 (1928): “The Founding of Rome", di Hugh Last.
5 Goethe, Xenie miti, libro 9.
6 Wilhelm Busch in Die fromme Helene [“Elena la pia”, 1872,] dice, a un livello più basso, la stessa cosa: Wer Sorgen hat, hat auch Likör [“Chi ha dolori, ha anche liquori”]
7 Goethe ammonisce perfino che “niente… è più difficile da sopportare di una serie di belle giornate”. Tuttavia può essere un’esagerazione.
8 Quando una particolare predisposizione non prescriva imperiosamente la direzione degli interessi vitali, il comune lavoro professionale, accessibile a tutti, può assumere il ruolo assegnatogli dal saggio consiglio di Voltaire. Non è possibile nello spazio di un’esposizione sommaria, valorizzare a sufficienza l’importanza del lavoro per l’economia libidica. Nessun’altra tecnica di condotta della vita lega il singolo così strettamente alla realtà come il concentrarsi sul lavoro, poiché lo inserisce sicuramente almeno in una parte della realtà nella comunità umana. La possibilità di spostare una forte quantità di componenti libidiche, narcisistiche, aggressive, e perfino erotiche sul lavoro professionale e sulle relazioni umane conseguenti, conferisce al lavoro un valore in nulla inferiore alla sua indispensabilità per il mantenimento e la giustificazione dell’esistenza del singolo nella società. L’attività professionale procura una soddisfazione particolare se è un’attività liberamente scelta, tale cioè da rendere utilizzabili, per mezzo della sublimazione, inclinazioni preesistenti, moti pulsionali persistenti cui già per costituzione l’individuo è vigorosamente predisposto. Eppure il lavoro come cammino verso la felicità è stimato poco dagli uomini. Non ci si rivolge ad esso come ad altre possibilità di soddisfazione. La grande maggioranza degli uomini lavora solo se spinta dalla necessità, e da questa naturale avversione degli uomini per il lavoro derivano i problemi sociali più difficili.
9 V. Precisazioni sui due principi dell'accadere psichico (1911) e Introduzione alla psicanalisi (1915-17) lez. 3.
10 [Nota aggiunta nel 1931] Mi preme accennare almeno a una delle lacune rimaste in questa esposizione. Qualsiasi disamina delle possibilità umane di felicità non dovrebbe tralasciare d’approfondire il rapporto tra narcisismo e libido oggettuale. Si vorrebbe sapere che cosa significa per l’economia della libido che uno si basi essenzialmente sulle proprie forze.
11 V. Il futuro di un’illusione (1927).
12 Il materiale psicanalitico, incompleto e di difficile interpretazione, permette almeno una congettura (che sembra fantastica) sull’origine di questa impresa umana. È come se il maschio primitivo fosse abituato, quando incontrava il fuoco, a soddisfare su di esso un desiderio infantile, spegnendolo con il suo zampillo d’urina. Sull’originaria interpretazione fallica delle fiamme che guizzano e si levano in alto, stando alle leggende che possediamo, non ci può essere alcun dubbio. L’atto di spegnere il fuoco urinando – cui tuttora si rifanno quei tardi giganti che sono Gulliver a Lilliput e il Gargantua di Rabelais – fu dunque una specie di atto sessuale con un uomo, un dilettarsi della potenza virile in competizione omosessuale. Colui che per primo rinunciò a questo piacere e risparmiò il fuoco, poté portarlo con sé e piegarlo al suo servizio. Smorzando il fuoco del proprio eccitamento sessuale, aveva domato la forza naturale del fuoco. Questa grande conquista della civiltà sarebbe perciò il premio di una rinuncia pulsionale. Inoltre, si direbbe che la donna fosse stata posta a guardia del fuoco, tenuto prigioniero nel focolare domestico, perché la sua costituzione anatomica le rendeva impossibile cedere a un simile allettamento. È pure notevole che le esperienze analitiche testimonino la regolare connessione tra ambizione, fuoco ed erotismo urinario.
13 V. il mio scritto Carattere ed erotismo anale (1908) e numerosi ulteriori contributi di Ernest Jones.
14 Innegabilmente la periodicità organica del processo sessuale si è conservata, ma il suo influsso sull’eccitamento sessuale psichico si è piuttosto rovesciato nel contrario. Questo cambiamento si connette soprattutto con la diminuzione degli stimoli olfattivi, per mezzo dei quali il processo mestruale agiva sulla psiche maschile. Il loro posto fu preso dagli eccitamenti visivi che, contrariamente agli intermittenti stimoli olfattivi, potevano mantenere un effetto permanente. Il tabù della mestruazione deriva da questa “rimozione organica” come difesa contro una fase evolutiva ormai superata; tutte le altre motivazioni sono probabilmente di natura secondaria (vedi C. D. Daly, Hindumythologie und Kastrationskomplex, Imago, vol. 13, 245 (1927)). Il processo si ripete a un altro livello quando gli dei di un periodo di civiltà superato si mutano in demoni. La diminuzione degli stimoli olfattivi, poi, sembra conseguire all’alzarsi degli uomini da terra, assumendo l’andatura eretta, che rese visibili e bisognosi di difesa i genitali fino ad allora nascosti e provocò così il senso del pudore. All’inizio del fatale processo di sviluppo civile ci sarebbe dunque l’ergersi dell’uomo da terra. La catena degli eventi, passata attraverso la svalutazione degli stimoli olfattivi e l’isolamento del periodo mestruale, procedette di qui fino ad attribuire preponderanza agli stimoli visivi, alla visibilità dei genitali e, oltre, fino alla continuità dell'eccitamento sessuale, alla fondazione della famiglia e in tal modo fino alla soglia della civiltà umana. Questa è solo una speculazione teorica, che è però abbastanza importante da meritare un’esatta verifica nella condizione di esistenza degli animali più vicini all’uomo.
Anche nella tendenza propria della civiltà alla pulizia, che trova una giustificazione posteriore in considerazioni igieniche, ma che si era manifestata già prima che fossero note, è inconfondibile un fattore sociale. L’impulso alla pulizia origina dalla necessità di eliminare gli escrementi, divenuti sgraditi alla percezione sensoriale. Sappiamo che nell’infanzia le cose vanno diversamente. Gli escrementi non provocano alcuna repulsione nel bambino, gli sembrano parti preziose staccatesi dal suo corpo. L’educazione insiste qui con particolare energia ad affrettare il corso successivo dello sviluppo, che deve rendere gli escrementi privi di valore, nauseabondi, schifosi e riprovevoli. Simile capovolgimento dei valori sarebbe quasi impossibile se le sostanze espulse dal corpo non fossero condannate per il loro forte odore a condividere il destino che, da quando gli uomini si sollevarono da terra, è riservato agli stimoli olfattivi. L’erotismo anale soccombe dunque, prima di tutto, alla “rimozione organica”, che ha spianato la via alla civiltà. Il fattore sociale, che provvide all’ulteriore trasformazione dell’erotismo anale, è attestato dal fatto che, nonostante tutti i progressi evolutivi, l’uomo non trova poi così repellente l’odore dei propri escrementi, ma solo quello delle secrezioni altrui. Chi non è pulito, cioè chi non nasconde i propri escrementi, offende perciò gli aItri; non mostra alcuna considerazione per loro, come è confermato anche dagli insulti più forti e più abituali. Sarebbe inoltre inconcepibile che l’uomo usasse come ingiuria il nome del suo più fedele amico del mondo animale, se il cane non si fosse tirato addosso il disprezzo dell’uomo a causa di due caratteristiche: di essere un animale che ha un olfatto ma non ha schifo degli escrementi, e di non vergognarsi delle sue funzioni sessuali.
15 Tra i racconti di quel sottile narratore inglese che è John Galsworthy, che gode oggi di generale riconoscimento, ve n’è uno, che da tempo apprezzo, intitolato The Apple-Tree. Mostra in maniera persuasiva come nella vita dell’uomo civile contemporaneo non ci sia più posto per l’amore semplice, naturale, di due esseri umani.
16 Alcune annotazioni a sostegno della congettura sopra riportata. Anche l’uomo è un essere animale d’indubbia disposizione bisessuale. L’individuo corrisponde alla fusione di due metà simmetriche, di cui, secondo l’opinione di alcuni ricercatori, una è puramente maschile, l’altra femminile. È ugualmente possibile che ogni metà fosse originariamente ermafrodita. La sessualità è un fatto biologico che, per quanto di straordinaria importanza per la vita psichica, è difficile da comprendere psicologicamente. Siamo soliti dire che ogni essere umano rivela moti pulsionali, bisogni, attributi tanto maschili quanto femminili, ma, mentre l’anatomia può mostrare il carattere del maschile e del femminile, la psicologia non può. Per essa il contrasto dei sessi sfuma in quello di attività e passività, dove con troppa sicurezza facciamo coincidere l’attività con la mascolinità e la passività con la femminilità, il che non trova affatto conferma senza eccezione nel regno animale. La dottrina della bisessualità presenta ancora molti lati oscuri, e la mancanza tuttora di un collegamento tra essa e la dottrina delle pulsioni costituisce un grave impedimento per la psicanalisi. Comunque stiano le cose, se ammettiamo il fatto che ogni individuo nella sua vita sessuale vuole soddisfare desideri sia maschili sia femminili, non possiamo escludere che queste richieste non siano appagate dallo stesso oggetto e che possano disturbarsi a vicenda se non si riesce a tenerle separate dirigendo ogni impulso in un canale particolare ad esso adatto.
Un’altra difficoltà sorge perché alla relazione erotica, oltre la componente sadica che le è propria, molto spesso viene associata una quota di tendenza aggressiva diretta. L’oggetto d'amore non sempre dimostrerà di capire e tollerare queste complicazioni; le capiva invece quella contadina che si lamentava che suo marito non l’amava più, perché non l’aveva più bastonata da una settimana.
La congettura più penetrante, però, è quella collegata alle osservazioni nella prima nota di questo paragrafo. Con il portamento eretto e con la svalutazione del senso dell’olfatto, l’intera sessualità, non solo l’erotismo anale, minacciò di soccombere alla rimozione organica, e così da allora alla funzione sessuale si accompagna una ripugnanza, inspiegabile ulteriormente, che impedisce la soddisfazione completa e distoglie dalla meta sessuale, favorendo sublimazioni e spostamenti libidici. So che Bleuler – Der Sexualwiderstand, Jb. psychoanal. psychopath. Forsch., vol. 5, 442 (1913) – ha accennato una volta all’esistenza di un simile atteggiamento originario di repulsione per la vita sessuale. Tutti i nevrotici, e molti oltre a loro, si scandalizzano del fatto che “inter urinas et faeces nascimur”. I genitali producono anch'essi forti sensazioni olfattive, che per molti sono insopportabili e diminuiscono il piacere dell’amplesso sessuale. Risulterebbe così che la più profonda radice della rimozione sessuale – rimozione che va di pari passo con la civiltà – è la difesa organica della nuova forma di vita acquisita con l’andatura eretta di contro all’esistenza animale precedente; questo risultato della ricerca scientifica collima in modo sorprendente con banali pregiudizi che spesso vengono enunciati.
Queste sono per ora solo incerte possibilità, che la scienza non ha corroborato. Non dobbiamo nemmeno dimenticare che, nonostante l'innegabile svalutazione degli stimoli olfattivi, esistono nella stessa Europa popoli che apprezzano come modi per stimolare la sessualità quei forti odori genitali per noi così sgradevoli e non vorrebbero fame a meno. (Si vedano i dati folkloristici raccolti da lwan Bloch nella sua “inchiesta” Über den Geruchssinn in der vita sexualis [Sul senso dell'olfatto nella vita sessuale] in diverse annate della rivista di Friedrich S. Krauss, “Anthropophyteia”.)
17 Prescindo dai vantaggi che può darmi e anche dal suo possibile significato come oggetto sessuale; questi due tipi di relazione non rientrano nel precetto di amare il prossimo.
18 Un grande poeta può permettersi di dare espressione, almeno scherzando, a verità psicologiche rigorosamente messe al bando. Così Heinrich Heine confessa: “Ho un temperamento il più pacifico che ci sia. I miei desideri sono: un’umile capanna con il tetto di paglia, ma un buon letto, buon cibo, latte e burro freschissimi, fiori davanti alla finestra, qualche bell'albero davanti alla porta, e se il buon Dio mi volesse rendere del tutto felice, mi dovrebbe procurare la gioia di vedere sei o sette dei miei nemici impiccati a questi alberi. Prima che muoiano, con cuore commosso, perdonerò loro tutti i torti che in vita mi hanno fatto: certo, si deve perdonare ai propri nemici, ma non prima che siano stati impiccati” (Gedanken und Einfälle, 1).
19 Chi nei suoi giovani anni ha assaggiato l’amarezza della povertà, ha sperimentato l’indifferenza e l’arroganza dei possidenti, dovrebbe essere al riparo dal sospetto di non avere comprensione e benevolenza per gli sforzi intesi a combattere la diseguaglianza di condizione economica fra gli uomini e ciò che da essa deriva. Certo, se questa lotta si vuole richiamare all’astratta esigenza dell’uguaglianza fra tutti gli uomini, conforme a giustizia, l’obiezione ovvia è che la natura, concedendo ai singoli le più diverse doti fisiche e attitudini spirituali, ha istituito ingiustizie contro cui non c’è rimedio.
20 V. il mio saggio Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921).
21 Il contrasto tra la tendenza instancabile dell’eros a espandersi e la generale natura conservativa delle pulsioni è notevole; da qui si possono porre ulteriori problemi.
22 È molto convincente il modo in cui il principio del male è identificato con la pulsione distruttiva dal Mefistofele di Goethe [Faust, pt. 1, Scena dello studio, vv. 1339-1344].
…Denn alles, was entsteht,
lst wert, dass es zugrunde geht;
Drum besser wär’s, daß nichts entstünde.
So ist denn alles, was ihr Sünde,
Zerstörung, kurz, das Bose nennt
Mein eigentliches Element.
[…Tutto ciò che ha un’origine
d’esser disfatto merita;
sarebbe meglio che nulla fosse nato.
Così quello che voi dite il Peccato,
la Distruzione o il Male, detto spiccio,
è il mio elemento proprio.]
Come suo nemico lo stesso diavolo non nomina il santo e il buono ma la forza della natura che produce e incrementa la vita.
Der Luft, dem Wasser, wie der Erden
Entwinden tausend keimen sich,
Im Trocknen, Feuchten, Warmen,
Hätt’ ich nicht die Flamme vorbehalten,
Ich hätte nicht Aparts für mich.
[Da terra, mare e cielo,
al caldo e al freddo come al secco e all’umido,
i semi si sviluppano a miriadi!
Se non mi fossi tenuto alla fiamma,
avrei dovuto tornar dalla mamma] (vv. 1374-1378).
23 La nostra concezione odierna è approssimativamente questa: affermiamo che la libido partecipa ad ogni manifestazione pulsionale, ma che non tutto in quella manifestazione è libido.
24 Verosimilmente con questa precisazione: nella forma che dovette assumere in seguito a un certo evento ancora da scoprire.
25 Viene in mente il famoso mandarino di Rousseau!
26 Che in questa esposizione panoramica siano nettamente separate cose che in realtà trapassano gradualmente l’una nell’altra e che non si tratti solo dell’esistenza di un Super-Io, ma della sua forza relativa e sfera d’influenza, ogni persona ragionevole lo comprenderà e ne va tenuto conto. Quanto detto finora sulla coscienza morale e sulla colpa è generalmente noto e pressoché fuori discussione.
27 Mark Twain tratta di questa morale, resa dalla sfortuna più evidente, in una deliziosa storiella: The First Melon I ever stole [Il primo melone che rubai]. Accadde che questo primo melone fosse acerbo. Ho sentito di persona Mark Twain raccontare in pubblico questa storiella. Enunciato il titolo, si interruppe e si chiese dubbioso: Was it the first? [Fu il primo?]. Con ciò aveva detto tutto. Il primo non era dunque l’unico.
28 Come giustamente rilevato da Melanie Klein e da alcuni altri autori inglesi.
29 Franz Alexander in Die Psychoanalyse der Gesamtpersonlichkeit [La psicanalisi della personalità totale] (Vienna 1927) ha fatto uno studio preciso dei due tipi principali di metodi educativi patogeni, quello eccessivamente severo e quello che vizia i bambini, ricollegandosi allo studio di August Aichhorn sulla gioventù traviata. Il padre “troppo molle e indulgente” provocherà nel fanciullo la formazione di un Super-Io severissimo, perché a quel fanciullo, sotto l’impressione dell’amore che riceve, non rimane altra via d’uscita che rivolgere all’interno la propria aggressività. Nel fanciullo traviato, allevato senza amore, manca la tensione tra Io e Super-Io, tutta la sua aggressività può rivolgersi all’esterno. Prescindendo quindi da un fattore costituzionale sempre supponibile, si può dire che la coscienza severa sorge dalla cooperazione di due influssi vitali: la frustrazione pulsionale, che scatena l’aggressività, e l’esperienza d’amore, che rivolge all’interno questa aggressività e la trasmette al Super-Io.
30 V. Totem e tabù (1912-13).
31 Goethe, canzone dell’arpista nel Wilhelm Meister, libro 2, cap. 13.
32 “Così la coscienza ci rende vili…” [Shakespeare, Amleto, atto 3, scena 1.] Che l’educazione odierna nasconda al giovane l’importanza che avrà nella sua vita la sessualità non è l'unico rimprovero che si deve rivolgerle. Essa pecca anche nel non prepararlo alle aggressioni di cui è destinato a diventare l'oggetto. Introducendo la gioventù nella vita con un orientamento psicologico così sbagliato, l’educazione si comporta come se si equipaggiassero di vestiti estivi e di carte dei laghi italiani persone che partono per una spedizione polare. In ciò risulta chiaro un certo abuso delle esigenze etiche, il cui rigore non farebbe tanto danno se l'educazione dicesse: “Così gli uomini dovrebbero essere per diventare felici e rendere felici gli altri; ma occorre tener conto che la realtà è diversa”. Invece si lascia credere al giovane che tutti gli altri attuino i precetti etici, siano cioè virtuosi. Su ciò si fonda l’esigenza che anche lui diventi tale.
33 Nel mio saggio Il futuro di un’illusione (1927).
34 V. Totem e tabù (1911-13).
35 In particolare in Ernest Jones, Susan Isaacs e Melanie Klein; a quanto capisco, però, anche in Reik e Alexander.
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