Nell’ultimo romanzo dello scrittore inglese Bruce Chatwin, Utz, 1988 (consultato nell’edizione italiana del ‘99), l’ambientazione in una Praga tetra, soggiogata dall’apparato amministrativo dei sovietici invasori, introduce l’atmosfera dell’occulto che adombra il tema del golem. Il protagonista, Kaspar Utz, possiede un piccolo microcosmo di porcellane settecentesche, la cui bellezza integrale appare esaltata dal plusvalore della sublime fruizione estetica. E’ ipotizzabile che il cognome del protagonista della storia, Utz sia stato utilizzato da Chatwin in riferimento ad un personaggio del circolo esoterico praghese, Emil Utitz, filosofo dell’arte e psicologo, contemporaneo di Kafka e di Max Brod. Agli esordi era considerato un intellettuale di secondo piano, la cui principale fonte di sostentamento per le sue iniziative culturali/editoriali erano i capitali della ricchissima nonna. Anche l’intero patrimonio di Kaspar Utz deriva dall’eredità della nonna. Ma vi sono molte altre associazioni significative, a partire dall’immediata assonanza dei nomi, che incrociano i due personaggi.
Nel 1942 Emil Utitz fu deportato in campo di concentramento a Theresienstadt, la cittadella simbolo della fuorviante propaganda nazista di Goebbels circa le liberalità concesse alla cittadina praghese “donata” agli ebrei dal governo nazionalsocialista. Lo attendeva un incarico fondamentale, quale direttore e curatore della biblioteca del ghetto, contenente oltre centomila volumi. Terezín costituì la più fuorviante mistificazione del regime nazista nei confronti della comunità internazionale, perché il presunto “ghetto felice” passava per essere una “città degli artisti”, dove si alternavano concerti e conferenze, tanto che anche la Croce Rossa internazionale fu tratta in inganno durante un’ispezione. In realtà fungeva da campo di smistamento verso Auschwitz e Treblinka, dove si attuava la “soluzione finale” della Shoa.Vi erano reclusi pittori e musicisti, fra cui alcuni dei compositori ebrei più dotati d’Europa, virtuosi di vari strumenti musicali, come Pavel Haas, il direttore d’orchestra Karel Ancerl e il compositore Viktor Ullmann, compagno di cella di Utitz. Prima del suo trasferimento ad Auschwitz, dove fu assassinato, Viktor Ullmann affidò i suoi manoscritti, spartiti, saggi e ogni altro documento in suo possesso all’amico e compagno di cella, depositario della memoria storica dell’ebraismo ceco, ossia il bibliotecario Emil Utitz, poi scampato allo sterminio e divenuto scrittore di cospicui testi di estetica, psicologia dell’arte e caratteriologia. Grazie al proprie eroismo, agevolato da doti manageriali, più di diecimila preziosissimi testi della cultura ebraica furono preservati durante l’Olocausto, attraverso iniziative culturali della biblioteca da lui gestita. Analogo, per molti aspetti, è il ruolo di testimone epocale di cui Chatwin investe il protagonista del racconto. Mediante la sua collezione di Meissen, Utz incarna la memoria storica del secolo della porcellana, come Utitz fu testimone della cultura ebraica mitteleuropea racchiusa nei testi da lui custoditi quale prezioso tesoro. Inoltre, entrambi avversarono i soprusi dei regimi totalitari mediante le specifiche dei propri ambiti culturali, afferenti alla scrittura e alla scultura. L’antropoide oggetto del racconto-nel-racconto, dal servo-automa chassidico all’homunculus di paracelsiana memoria (espressamente citato nella storia), impersona varie facce di virtualità metastorica. Quella stessa energia eterea, impressa ritualmente dal demiurgo rabbinico sulla polvere che incarna la vita embrionale del golem, si riverbera nella vitalità delle statuine di Meissen appartenenti all’eccentrico collezionista e protagonista della storia, Kaspar Utz, ebreo per parte di madre. Seguendo l’intreccio, scopriamo significati complessi nei personaggi impressi nella preziosa amalgama. La spiritualizzazione della materia scaturisce dal soffio vitale di un artista del bello che compì la mirabile metamorfosi estetica dalla polvere di caolino in statuina, incarnazione dell’armonia perfetta. Il racconto sulla vita del collezionista è costruito mediante una serie di analessi che prendono spunto dalle sue esequie, avvenute nel 1974, in un territorio faticosamente avviato verso la democrazia dopo l’esperienza della cortina di ferro. Il narratore implicito rievoca l’incontro avvenuto anni addietro, poco prima della Primavera di Praga, con Utz, consultato per una ricerca sull’imperatore e alchimista Rodolfo II d’Asburgo. Durante il viaggio verso la Cecoslovacchia la prima tappa è lo Schloss Ambras a Innsbruck, dove si trova la Kunst kammer di Rodolfo, contenente il tesoro imperiale. Secondo la ricostruzione della storia, mancano però i più preziosi elementi del repertorio alchemico, che dovrebbe annoverare la collezione di mandragore1, l’omuncolo nell’alcool, i chiodi dell’Arca di Noé e la fiala di polvere da cui Dio creò Adamo, l’archetipo del golem. E’questo un primo approccio iperbolico al meraviglioso-fantastico per introdurre il verosimile con un’ambiguità di timbro semiserio. Il cardine dell’intera storia è la preziosissima collezione di Utz, fortuitamente risparmiata dalla bramosia della Gestapo e quindi del regime sovietico insediatosi in Cecoslovacchia dopo l’invasione del paese. L’apparato burocratico di partito a Praga è vanamente impegnato nel tentativo di trasformare la collezione privata dell’ebreo in patrimonio museale usufruibile dalle masse. Durante i viaggi all’estero per la cura delle acque e per l’acquisto di nuovi elementi da aggiungere alla collezione, Kaspar potrebbe fuggire dallo stato poliziesco che lo attanaglia; ma sebbene tentato, vi rinuncia, poiché non tollera l’idea di separarsi dalle sue statuine, cui è avvinto da un estenuante daydreaming , prigioniero di una dipendenza quasi feticistica che lo assorbe totalmente e lo aliena dagli interessi del mondo circostante. La singolarità degli oggetti tesaurizzati e da lui percepibili come quasi-viventi, erompe da una interpretazione analogica e visionaria del reale, pervasa dalle suggestioni di miti talmudico-cabbalistici e alchemici. Lo sconfinamento nel meraviglioso, sancito dalla struttura formulaica dei mondi/modi possibili, individuata come fondativa da Todorov nel suo saggio sulla letteratura fantastica, mentre suscita nel lettore l’esitazione, richiede l’astensione parziale dal dubbio. Quando l’io narrante e narratore implicito chiede a Utz se questi creda davvero che le porcellane siano vive, la risposta, che allude al tema gnostico e alchemico dell’eterno ritorno, non può essere che ambigua e perciò indecifrabile, allusiva alle potenzialità metamorfosanti del meraviglioso, come si addice allo statuto intermedio del fantastico, sempre sorretto dalla cornice del dubbio,: “ lo credo e non lo credo […] Nel fuoco le porcellane muoiono, e poi tornano a vivere. Il forno, deve capire, è l’Inferno” (93). Il significato esoterico cui è possibile accedere, attraverso rimandi testuali alla fornace ardente di Nabucodonosor, cui sopravvissero personaggi biblici quali Sadrach, Mesach e Abdenego, per Utz equiparabili a statue di ceramica, investe la struttura compositiva degli elementi sottoposti ad altissime temperature. All’ermeneutica del meraviglioso-fantastico è possibile unire quella psicopatologica, che vede nell’accumulo ossessivo dei pezzi da collezione il tentativo di riempire un vuoto interiore, cui si accompagna comunque un’angoscia indicibile, l’addebito di una colpa da espiare con il fuoco infero. Così il collezionista di porcellane, appropriatosi dell’oggetto magico accumulato a ripetizione, fa dei pezzi gelosamente acquistati un suo esclusivo io-mondo idolatrico, da venerare con ardore religioso. La vista deve essere sottratta allo sguardo del mondo e non condivisa, se non con selezionati intimi. Chi possiede è al contempo posseduto da una dedizione esclusiva che può sfociare in stati dissociativi dell’io, con spunti parafiliaci, assimilabili al delirio erotico di Pigmalione per la sua Venere marmorea. Nel mondo ellenico la pulsione amorosa per l’effige e per la divinità che, incarnandosi in una statua, la rende viva, è nota come agalmatofilia. Plasmare la materia inerte con abilità sovrumana può implicare l’attribuzione di un significato “reale” a una percezione bizzarra, attraverso un procedimento di pensiero magico-animistico. La visionaria animazione della statua, generata da uno stato di furore ideativo culminante nell’adempimento della metamorfosi da materia grezza a compimento scultoreo, rinvia ad una tipologia della manìa descritta nel Fedro platonico; follia divina, invasamento direttamente ispirato dal dio e da lui concesso all’artista. Nel mito greco-romano non ci sono differenze fra oggetto materiale, la statua, e il soggetto rappresentato, il dio o la dea. Il genius loci è una metafora allusiva alla dimensione poetica di un luogo dell’anima, in rapporto all’atmosfera che evoca; ma designa anche, nel luogo reale, la divinità protettrice preposta, come i Lari e i Penati lo sono per il focolare domestico romano. Una statua in un tempio, raffigurante una divinità, introduce nel reale del tempio l’essere divino che rappresenta. Tuttavia, lo slittamento dall’estraniazione ispirata dalla divinità, nella fattispecie Eros e Afrodite, in deriva psichica, costituisce l’altrove del significante mania erotica. Attraverso la percezione delirante l’oggetto che sembra poter essere “posseduto” rende estremamente frustrante la carica pulsionale. Non potendo essere soddisfatta, ritorna puntualmente al punto di partenza, all’io narcisistico delle prime impressioni infantili, fra cui spicca la percepita ’onnipotenza’ del lattante. Il mondo classico annovera casi di giovani suicidi per non essere riusciti a portare a compimento il loro amplesso con la statua. Plinio2 illustra un caso di agalmatofilia (per noi equivalente al pigmalionismo 3), ricordando come la Venere di Cnido scolpita da Prassitele suscitasse la follia amorosa di un giovane che si nascose di notte nel tempio per unirsi carnalmente al simulacro. Un segno presente sulla statua evocava l’evento da cui emerge la akolasia, l’impossibilità di dominare l’ebbrezza sensuale. Uno scenario complesso e multiforme di stati psichici turbati, di aberrazioni significativamente rilevanti sotto il profilo della parafilia e delle relative dinamiche, accomuna campi metaforici confinanti con il fantasticare; allusivi al compimento mimetico dell’arte, che attraverso l’intervento di un dono ‘preternaturale ’, quale l’ispirazione trascendentale dell’eros, investe l’oggetto inanimato di significati che lo fanno tracimare in soggetto vivente, fonte di inesauribile bellezza. Le valenze che si innervano nel sogno ad occhi aperti o delirio di possesso alludono a un asse paradigmatico < l’esaltazione idolatrica> generata dalla estraniante interpretazione dell’evento reale, la metamorfosi artistica. La rappresentazione del potere creativo dell’artista è simbolizzata dalla possibilità generativa – infondere vita nella materia inerte, plasmando marmo o caolino, ma anche dal delirio parafiliaco che emerge nel motivo canonico < vampirismo dello sguardo> ; la brama di possesso del collezionista, talvolta pare sconfinante nel caos di uno hoarding disorder, disturbo da accumulo/accaparramento. Sono derive psichiche che potenzialmente riguardano anche il fruitore del perfetto compimento artistico; ossia, nella fattispecie chi, come Utz, nell’atto di contemplare catturi voyeuristicamente l’attimo perfetto di faustiana memoria. L’estatica venerazione della bellezza che a lui pare animi le statuine di porcellana di Meissen sconfina nel medesimo ardore pigmalionesco di un artista della prima materia: l’alchimista che lavora sui semi dell’oro potabile per fabbricare l’elixir vitae, pervaso dall’illusione totalizzante del “ creare vita imperitura”. Nella sua fervida attività psichica, a un passo dal delirio onirico, emerge un approccio a teorie alchemiche e alla pietra filosofale. Utz confida al suo interlocutore e io-narrante che il patrimonio di Meissen è espressione di una rivisitazione alchemica segreta, avvenuta a Dresda nel Seicento, della ceramica cinese. Le più antiche porcellane europee, i pezzi rossi e bianchi del vasaio e alchimista Boettger, ottenuti mediante la “Tintura Rossa” (p. 88) sono, secondo Utz, il corrispettivo dell’opus, il compimento di procedure segretamente connesse alla tintura rossa e bianca degli alchimisti. La porcellana settecentesca costituisce per l’inconscio collettivo semitico un corrispettivo simbolico dell’accumulo dell’oro proibito, idolatrico. Un oro che si intuisce essere una potente metonimia della plurisemica sostanza (l’oro alchemico), ottenuta attraverso la pietra filosofale: “ la porcellana non era solo un materiale esotico […]ma una sostanza magica e talismanica – la sostanza della longevità, della potenza, dell’invulnerabilità – ” (p. 93); sicché l’arcanum che la costituiva era l’equivalente di un’arma segreta e proibita, un antidoto occulto contro la dissoluzione della materia ottenuto grazie alla sua spiritualizzazione alchemica. Aleggia nell’agnizione di Utz il sentimento della colpa per la cupidigia idolatrica. I deliziosi personaggi settecenteschi del “secolo della porcellana ” appaiono quasi animati dal soffio vitale di una libido declinabile, in senso junghiano, come propulsiva energia psichica. Sono gli indici tipicamente settecenteschi del patrimonio di civiltà incardinato su codici di arguzia, galanteria, ma anche su un lieve cinismo che ne smorza la spensierata gaiezza libertina. La vastissima raccolta costituisce l’oggetto esterno – non già percepibile nel suo reale potenziale monetizzabile – di un investimento libidico eccessivo, che il soggetto reso fragile da frustrazioni egoiche elabora come prolungamento del proprio io; trovando gli oggetti del suo pseudo amore lungo la via del narcisismo. La collisione-collusione di reale/immaginario, che gli permette di coltivare l’illusione di vincere il tempo attraverso l’ apparente continuità della vita di corte mitteleuropea, gli suggerisce la rivelazione che i suoi manufatti artistici, compensazioni di irrealizzati sogni infantili, appaiano meno fragili o “più veri” degli esseri umani (e di se stesso). La carnagione perfetta, senza età, delle dame di porcellana, mette a confronto con l’umana finitezza, sicché il capolavoro di cristallizzazione della vita “lo specchio immutabile in cui osserviamo la nostra disgregazione” (p. 94) seppur alienante, suggerisce che l’ideale estetico-artistico è idealmente imperituro. “ Poi fu la volta delle dame di Corte: dame dai sorrisi di ghiaccio e dalle crinoline ondeggianti, con le parrucche incipriate e le guance punteggiate di nei artificiali; avevano un nastro nero legato intorno al collo. Una carezzava un carlino, un’altra baciava un nobile polacco […] mentre Arlecchino sbirciava sotto la sua gonna. Madame de Pompadour […] cantava l’aria dell’Aci e Galatea di Lully che aveva cantato in vita, col principe di Rohana come partner, al Petit Théâtre de Versailles (pp. 45- 46) . La caratterizzazione psicologica dei personaggi figuranti il suo simil-carillon contempla la più articolata e minuziosa gestualità e l’esercizio quotidiano delle arti che li anima. Mirabile è il richiamo al soprano Faustina Bordone che, colta nell’eterno presente del flusso vitale, canta estasiata accompagnata al clavicembalo da una volpe (allusione all’amante, di nome Fucks, “Volpe” ). Non possono mancare campionature di personaggi appartenenti alla commedia dell’arte, come Brighella, l’eterno furfante, e il duetto Arlecchino e Colombina, che porgono il proprio imperituro messaggio circa la credulità femminile alle blandizie del manipolatore occulto e narcisista. La coppia Arlecchino-Colombina riproduce un’eroicomica configurazione artistica del rapporto insano che può instaurarsi fra personalità problematiche, quando l’ egotismo narcisista s’incrocia con la dipendenza affettiva patologica. L’illusione della vita è potenziata da scimmie musiciste imparruccate e incipriate, che suonano il violino, la chitarra e la tromba, “scimmiottando l’orchestra privata del conte Bruehl” (p. 48); tutti visibilmente apparentati con gli automi antropomorfi costruiti sulla base di una progettazione meccanica perfetta, sintonizzata sullo Zeitgest del secolo dei lumi. Il bestiario miniaturizzato, espressione di ardite metamorfosi antropomorfiche, rinvia a quelle dell’esercito dei topi e dello Schiaccianoci nel racconto omonimo di Hoffmann; autore da ricordare in questo contesto anche per aver dato vita letteraria alla metaforica del doppio o Doppelgänger 4, impersonificato sia nel piccolo schiaccianoci-giocattolo sia nella mandragora umana che troviamo nel racconto Klein-Zaches 5.
IL Settecento è il secolo dell’orologeria e quindi degli automi prodromi al moderno androide, creati per divertissement, per generare stupore e meraviglia attingendo al gusto barocco del virtuoso, del prezioso e dell’esotico. Fra le più ardite espressioni del gioco di automi vanno ricordati il Turco Giocatore di Scacchi dell’ungherese Von Kempelen (celebrato da Poe in un suo famoso racconto); Lo Scrivano, una figurina di delicato adolescente programmata per scrivere su una tavola di mogano con una piuma, manovrata abilmente dopo essere stata intinta nell’inchiostro, opera di due orologiai svizzeri, i fratelli Droz; ma soprattutto Le Canard Digérateur, progettato da Jacques de Vaucanson 6, un automa meccanico raffigurante un’anatra che si ciba, digerisce ed espelle materiale pseudo-fecale. Ragguardevole il rapporto di questo mondo meccanicamente animato, e solo in apparenza frivolo, con il pragmatismo che porta allo sviluppo della prima rivoluzione industriale, visto che Vaucanson a metà secolo fu anche il progettista del primo telaio meccanico e di varie macchine utensili tra cui un tornio a banco prismatico. L’ardito esperimento estetico-meccanico ha subìto quindi una metamorfosi, per serendipity diventa gadget tecnologico, quindi oggetto appartenente al mondo della τέχνη (téchne). Voltaire, entusiastico ammiratore di Vaucanson, lo aveva definito “il rivale di Prometeo” 7.
Le figurine quasi semoventi esposte nelle teche di Utz, associabili agli automi sopraccennati, consentono al collezionista del bello di stabilire una corrispondenza simbolica con la creazione dell’uomo. Non può quindi mancare il primo anello della catena delle analogie, in quanto il manufatto artistico fu Adamo: “Non solo Adamo fu il primo essere umano, ma fu anche la prima scultura di ceramica” (p. 37). Da questa attestazione si diparte un procedimento sillogistico, in base al quale se Adamo è la prima scultura vivente di materia terranea, le statuine scolpite con analogo materiale sono dunque creature viventi; è quanto sembra suggerisce la domanda retorica dell’interlocutore (“Vuol farmi intendere che le sue porcellane sono vive?”). Utz è dunque in possesso dell’opus mirabilis, e vive come un novello re Rodolfo, circondato da oggetti prodigiosi che scongiurano la decadenza egoica e l’estinzione della memoria epocale. Il rapporto fra golem e portento quintessenziale del fatto artistico si coglie espressamente nel passo nel quale il collezionista ricorda al suo ospite l’antica credenza ebraica sulle creature antropomorfe, plasmate dalla polvere, come l’Adamo Cosmico, il prototipo e modello del golem .
Golem è una parola ebraica usata al verso 16 del salmo 138 della Genesi per designare ogni cosa incompleta, ravvolta in se stessa, ancora informe, ossia una vita embrionale, come quella di Adamo prima che Dio lo animasse insufflando in lui la vita, Neschmàh ossia l’umanità pneumatica. Scintilla dell’anima divina e intelletto, per l’alchimia filosofica coincide con la Prima Materia, che è il fondamento di ogni processo di trasmutazione spirituale. Nella prefazione alla versione italiana del romanzo di Meyrink, Der Golem (1915, Milano, 1966, p. vii), Elémire Zolla ci ricorda che il golem sorge come metafora mistica per designare la sussistenza embrionale “ l’esistenza che precede l’essenza, la confusione che implica l’ordine”. Zolla ricorda come nei testi cabalistici medievali si narri di rituali mistici relativi alla realizzazione del golem, in cui si simboleggia la creazione soffiando la terra su una coppa d’acqua e recitando varianti del nome di Dio. La perfetta rettitudine poteva conferire al saggio la facoltà di ricreare il golem, a gloriosa memoria della Creazione dell’Adamo Cosmico, o Protoantropo; il cui sembiante era in origine, prima che Dio gli infondesse un’anima di vita, una immensa massa terrosa, tanto vasta da coprire il globo terracqueo da un estremo all’altro. L’attività generativa di pensiero e opere, da parte di uomini retti, era intesa come un’eminenza del sapere teocratico d’Israele, che poteva attuare la più elevata forma di imitatio dei, la creazione, se non dell’uomo, del golem, essere inconsapevole senza voce né spirito autonomo. Nella trasformazione dalla potenza in atto, da grumo di polvere a forma umana compiuta, i saggi del Talmud esplicavano la supremazia di un uso sapienziale del logos. La potenza mediatrice tra Dio e il mondo era esercitata attraverso formule memotecniche e la pratica di un’ascesi intellettuale e morale che li cautelava dagli sconfinamenti nella magia naturale di confraternite esoteriche. Utz rievoca, presumibilmente ricavandoli dai vangeli apocrifi, episodi della vita di Gesù, colto nell’atto di modellare uccellini d’argilla che prendevano a volare e a cantare quando pronunciava la formula sacra. La complessità del cosmo, simboleggiata da corrispondenze numerologiche e linguistico-analogiche, si riverbera in quella stessa armonia universale che trova la massima espressione nel tempio di re Salomone. Con l’ideazione dell’icona del golem a difesa del popolo ebraico dai suoi persecutori si realizza una identità parola-pensiero che consente di cogliere nell’asse metonimico una possibile fonte per l’aforisma lacaniano di affinità fra inconscio e linguaggio.
E’ intuibile che per Utz il grumo di polvere o terra da cui deriva il golem, archetipale realizzazione mimetica, coincida altresì con la tradizione ermetica circa il potenziale della vita seminale, intesa come la prima materia, i semi dei metalli da cui l’alchimia trae ogni presupposto e relativo procedimento di trasmutazione. La creazione di un golem tramandata dai testi sacri dell’ebraismo equivale a un opus alchemicum di perfezionamento di sé, secondo una procedura di progressiva interiorizzazione catartica che possiamo ritenere equivalente al processo di individuazione junghiano elaborato in Psicologia e Alchimia, secondante una lettura del mondo alchemico-analogica. L’oro ottenuto dalla calcinazione delle scorie – impurità – di metalli vili, rappresenta il vertice di un processo di trasmutazione interiore per giungere alla pienezza dell’insight, alla trasformazione antiegoica dell’Io in Sé. La tesi di Jung delinea una prospettiva simbolica di conciliazione degli opposti e di pieno accoglimento-riconoscimento dell’Ombra; enucleando gli impedimenti, i complessi, tramite la conoscenza degli archetipi che alberga il patrimonio dell’inconscio collettivo, l’Ombra opera maieuticamente, investendo la simbologia della nigredo. Jung si rifà alla letteratura alchemica greca antica, alle Visioni di Zosimo, dove sono esposti trattati di alchimia, ricchi di aneliti mistici ed echi religiosi che descrivono con toni onirici i diversi gradi di riti iniziatici. In certe correnti dell’esoterismo misterico medievale ritroviamo l’ invocazione di questa stessa concezione di Logos Superno o forza vitale eterea che sorregge il cosmo e gli elementi, come via di trasumanazione per giungere alla contemplazione di Dio.
Agrippa di Nettesheim in De Occulta Philosophia 8 designava come meta esoterica la capacità di elevarsi a stati trascendenti, passando da un ordine di conoscenze sovrasensibili tramite l’intelletto sottile al mondo iperuranio. Secondo Agrippa, rappresentante di una tarda teosofia neoplatonico-cristiana, l’universo è composto di tre mondi che corrispondono alla sfera degli elementi, degli astri e degli spiriti (il mondo elementare o fisico, il mondo celeste e il mondo intellegibile). Sono correlati ad altrettante forme di magia, la fisica la celeste e la religiosa, le quali consistono nell’arte di entrare in possesso delle forze di un mondo superiore per dominare il mondo inferiore, secondo una concezione ancora sacrale e simbolica della magia naturale o magia bianca. Da segnalare la filiazione dalla magia bianca della ‘magia della mente’, che partendo dalla scoperta del magnetismo animale quale premessa alla letteratura sul mesmerismo, dà luogo a una pseudoscienza, la metapsichica, con tutta la sua fenomenica di variabili nel novero del paranormale-extrasensoriale. Ne saranno influenzati tanto Freud, come dimostrano le prime esperienze applicative di ipnosi alla terapia psicoanalitica e i seminari sull’occulto (“Sogno e occultismo”, Lezione 30), quanto Jung, autore di pagine memorabili sulla sincronia e sulla fenomenica spiritica del Poltergeist; da lui associata al fervore dell’inconscio, particolarmente attivo in età evolutiva, preadolescenziale.
La concezione animistica del cosmo animato da un principio vivificante, la natura vivente di Marsilio Ficino, che il mago bianco o filosofo della natura deve cogliere nella sua totalità e integrità per conciliare divino ed umano, onde giungere alla concordia mundi, sfocerà in seguito nel titanismo prometeico, che costituisce lo stigma della modernità. E’ nel contesto prescientifico di attività empiricamente relative ai processi di metamorfosi della natura per farne il regno mondano asservito all’uomo, proprio del tardo Rinascimento, che si sviluppa infine un tema ‘blasfemo’ del golem, inserito in dinamiche dualistiche costituenti “l’identità profonda tra la struttura golemica e l’anima faustiana dell’uomo moderno e post-moderno”9. Lo studio di Neher mette in rapporto il tardo sviluppo della leggenda circa Rabbi Loew , detto il Maharal di Praga, con il tema faustiano del patto col diavolo per ottenere la perfetta conoscenza del mondo, prodromica del suo dominio. Il golem come simbolo-monito di una visione del mondo scientista riflette l’interesse per le anticipazioni delle rivoluzioni tecnologiche nate dall’ideale baconiano di dominio del cosmo (espresse nella Nuova Atlantide). Sottolinea drammaticamente l’irreducibile dualismo manicheo insito nell’ ambiguità della natura umana, creata e creatrice, foriera di vita e di morte. In realtà mentre l’uomo moderno è rispecchiato nel patto di Faust con le potenze mefistofeliche del mondo, il postmoderno sembra ripercorrere l’itinerario del Rabbi maharaliano, con la sua esposizione a forze ignote, imponderabili. Modulando abilmente la tastiera tematica relativa all’opera del grande rabbino cabalista Rabbi Loew, detto il Maharal di Praga, vissuto nel XVI secolo, la letteratura del sovrannaturale se ne servì per rielaborare una variante della tradizione relativa al golem creato dalla lettere del Sacro Nome, quale presidio dell’ebraismo eclettico, facendone un sembiante umano che cresce a dismisura sino a minacciare il suo creatore. Il passaggio dalla mistica alla mistificazione si coglie appunto nella rielaborazione medievale dell’opus titanica attribuita in epoche posteriori, tardo rinascimentali, al saggio Rabbi Loew, trasformato attraverso un alone leggendario in ambiguo mago-rabbino. L’energia vitale è conferita al golem dalla magia della parola, esercitata dal rabbino che opera sicut dei. Con la sua sola gigantesca presenza l’antropoide rappresenta le potenzialità dirompenti della metamorfosi idolatrica, ed è perciò in seguito distrutto dal suo ideatore. E’ ancora Utz a ricordare all’io narrante come il golem di Rabbi Loew, Yossel, portasse una placca metallica, o shem, sulla fronte o sotto la lingua, o fra i denti, con incisa la parola ebraica emeth, “verità di Dio”. Eliminando la e (o aleph) la parola poteva facilmente essere tramutata in meth, “morte”, facendo sì che il golem, il servo, si dissolvesse e tornasse polvere (cfr. pp. 38- 40). Per tutti i giorni della settimana Yossel, il golem di Rabbi Loew, era addetto ad ogni sorta di mansioni servili senza porre domande né opporre resistenza, tranne al sabato quando il giorno del riposo per tutte le creature di Dio, il rabbino padrone gli toglieva lo shem, rendendolo inattivo e inanimato. Ma un sabato la procedura gli sfuggì di mente e Yossell si scatenò, demolendo case, sradicando alberi e lanciando massi contro gli abitanti del ghetto. Allora Rabbi Loew interruppe il rito che stava celebrando nella sinagoga e si precipitò verso il mostro per annientarlo di schianto decretando il passaggio da emeth a meth, la morte, con una operazione di decrittazione – prestidigitazione (prodromica alla ossessiva digitazione dello homo technologicus). Il golem tendente a crescere a dismisura, dilatantesi per giungere alle dimensioni del Protoantropo, costituisce una verosimile minaccia verso il proprio creatore e i suoi simili. Da lui e dalla stirpe umana ha appreso a lottare per il dominio del mondo, sostituendosi ai prevaricatori della natura, e nella dicotomia natura/cultura impersona l’azzardo implicito nell’atto di empia blasfemia. Il grande monito relativo ai rischi del titanismo cibernetico, applicato ai programmi di intelligenza artificiale, viene adombrato nella ricostruzione della storia di Utz, che accenna allo shem eliminato dalla testa del golem come equivalente simbolico di una batteria utilizzata nel funzionamento del processore elettronico. L’uomo d'argilla, concepito per fungere da servitore inconsapevole e difensore del ristretto mondo del ghetto, disconnesso dalla sua scheda operativa e applicativa, appare secondo letture attuali come prototipo fantastico del robot e delle sue inquietanti proiezioni fantastiche. Tuttavia, è lecito chiedersi se togliere la batteria al technology processor valga a scongiurarne ogni implicito rischio di insidiosa riproducibilità. Gli errori di valutazione e le omissioni del Marahal prefigurano il ripetersi ciclico dei consueti, millenari errori. Considerando la portata del monito, si prende coscienza dei rischi di ribaltamento del programma cibernetico e degli azzardi dell’eugenetica. Un’ambivalenza accentuata nei secoli post rivoluzione industriale dalla trasformazione del golem-automa in macchina pseudo umana. L’ultimo approdo è l’intelligenza artificiale, prodotto dalla rivoluzione cibernetica. Sulla base di possibili derive etiche, il golem assume nella cabalistica tedesca post-rinascimentale il significato di un corpo umano creato artificialmente, tema che verrà celebrato da Goethe nel II Faust e quindi riproposto nel Frankenstein di Mary Shelley. La hybris dell’artefice, personificato dall’apprendista stregone moderno, sedurrà l’immaginario di molti romantici, da Achin von Arnim a Hoffman; approderà infine in una Praga votata all’occultismo, dove Gustav Meyrink ambienta il suo Der Golem (1915) che ispira una fervida attività filmica di gusto espressionista. La fascinazione di Praga, attestata dal crocevia di culture ceca, ebraica e tedesca, è legata a conoscenze associate all'esoterismo cabalista, allo spiritismo e alla ricerca alchemica. Della città incantata hanno parlato scrittori quali Magris (Danubio), Ripellino (Praga magica) e in ultimo Patrizia Runfola, autrice di un pregevole testo Praga al tempo di Kafka:Una guida culturale. Il saggio coglie e riproduce l’aura occultista con i relativi bagliori sinistri di atmosfere arcane, legate a circoli segreti frequentati da Meyrink. Nel romanzo dell’esoterista austriaco il golem è una creatura totemica che assume connotazioni psicanalitiche legate al Thanatos, a motivo della colpa imperdonabile, attribuita dalla cristianità al mondo ebraico, il deicidio. Der Golem rappresenta la declinazione del tema dell’Ebreo Errante in tale contesto psicologico. Non è casuale la fantasmatica presenza del golem-revenant ogni 33 anni (l’età di Cristo al momento della crocifissione) nella sinagoga dove fu distrutto; assumendo il sembiante terrifico di un sinistro giustiziere dai tratti mongolici che infesta il ghetto, sembra rivendicare il suo proprio diritto alla vita, che potrebbe coincidere con l’apocalisse della gnosi ebraica. L’isteria di massa elabora mostri affioranti dai contenuti archetipici di quello che Jung definisce (in quegli stessi anni), l’inconscio collettivo, legato al patrimonio transculturale. Il sentimento di angoscia del popolo del ghetto, terrorizzato dalle persecuzioni e assediato dal richiamo conclamato alla responsabilità del delitto, ha ricreato la persona o maschera golemica terrificante. L’ immaginario apocalittico ebraico mitteleuropeo è prodromo di stati dissociativi che assumono la forma di una psicosi collettiva. Nella sua opera di etnopsichiatria sull’inconscio etnico, lo psicanalista ungherese e naturalizzato francese George Devereux 10 illustra le modalità di suggestione che attivano quei processi di regressione psicotica, forniti dalla cultura di riferimento.
Ogni totem idolatrico, così come avviene per il vitello d’oro biblico, o per il vampirico replicante della fantascienza, sollecita la propria distruzione, con la chiusura del cerchio-Ouroboros e il passaggio, brevissimo, da idolatria a iconoclastia. Ma così come intuiamo dalla storia di Chatwin, il rapporto idolatrico che si costituisce con la creazione iniziatica del golem – personificato nel minaccioso gigante che richiama la propria distruzione – investe anche la collezione personale di Utz. L’accumulo feticistico di tesori proibiti opera ineluttabilmente, attraverso le leggi superegoiche, in direzione di un’espiazione apertamente iconoclastica: rinviando alla Legge della Torah, reclama anch’essa la propria distruzione, né più né meno come avvenne per il titanico golem. Nel finale della storia, che riallinea i vari piani temporali, congiungendo l’analessi alla storia prima relativa al funerale di Utz, si scopre che con la sua morte l’eredità della collezione osteggiata dal regime è stata annientata; le statuine preziose, forse troppo, distrutte e gettate in una discarica. Lo scenario di rovina materiale delle porcellane ritornate allo stadio iniziale, terra e polvere, coincide con la fine del delirio di Utz; quando la pulsione erotica per la statuina, subendo l’ennesima metamorfosi, si tramuta in amore salvifico per la donna vivente. E’ la domestica Martha, legittimamente seppur tardivamente presa in moglie, a interrompere il nucleo delirante, lo straniamento del collezionista iniziato da adolescente con una parafiliaca ossessione di possesso per un Arlecchino di Meissen. Una deduzione dell’io narrante ci accompagna verso l’ipotesi iconoclastica: “ La mia versione della storia è che abbiano trascorso i loro giorni in appassionata adorazione l’uno dell’altra, non permettendo a niente e a nessuno di dividerli. Le porcellane erano pezzi di vecchio vasellame di cui dovevano disfarsi: tutto qui” (p.125). Dalla devianza di parafilie feticiste, almeno nel contesto fizionale, è possibile reintegrarsi nel pieno principio di realtà, con una scelta che impone la distruzione catartica delle immagini nocive e fuorvianti:
“Che fosse un caso di iconoclastia? Esiste, accanto alla propensione a idolatrare le immagini […] Che le immagini, in realtà, pretendano la propria distruzione? ”(ivi).
L’amore della/per la donna in carne ed ossa, e la piena agnizione del reale, tornano in molti contesti del sovrannaturale letterario, agevolando il risveglio dal lungo deliquio della coscienza, come in Gradiva, il romanzo sull’agalmatofilia feticista che ispirò a Freud il saggio Delirio e sogni nella Gradiva di Jensen.
1 Gli occultisti medievali associavano la mandragola, già conosciuta da Ippocrate con il nome di “barba dell’uomo”, alla creazione dell’homunculus. Per la forma antropomorfica delle radici della mandragola, dotata di fittoni o protuberanze analogicamente corrispondenti ad un considerevole apparato riproduttivo maschile, era correlato alla fertilità e ritenuta, oltre che un afrodisiaco, un potente aiuto al concepimento. In Genesi 30:14-18 la mandragora è considerata come il mezzo attraverso cui Lia, dopo aver barattato la pianta con Rachele, la moglie sterile di Giacobbe – che sperava nel favore della pianta in possesso di Lia per agevolare una gravidanza – ottiene il diritto di giacere carnalmente con lui. Dal coito deriva il concepimento del figlio Isacco, Issacar (“ricompensa” in ebraico), quale pattuito compenso per la notte d’amore con Giacobbe.
2 Plinio, Storia Naturale, 39, 36a.
3 Il pigmalionismo dal 2013 compare nel DSM5 fra i disordini parafiliaci.
4 Nel racconto di Hoffmann, Der Nussckrack (1816) lo Schiaccianoci è un pupazzo meccanico, un soldatino-giocattolo che schiaccia le noci con la forza delle mascelle, donato a due fratelli, Fritz e Maria, la notte di Natale. Nel finale della storia, sconfitto l’esercito dei topi, con la fine dell’incantesimo che lo aveva confinato nelle forme di un automa, il Doppelgänger riassume la forma umana originaria di un giovane abilissimo a schiacciare le noci con i denti, e finisce per sposare la protagonista della storia, l’adolescente Maria.
5 Nei Kuriositätenkabinette magici tedeschi figurano mandragore antropoidi. Oltre che nella raccolta praghese dell’imperatore-alchimista Rodolfo, si possono vedere mandragore simil-umane anche in alcune teche del museo del folclore di Innsbruck.
6 Vaucanson è famoso quale costruttore di automi, o anatomies mouvantes ("anatomie mobili")], come egli definiva le sue opere, tra le quali spicca, oltre alla celebre anatra in grado di compiere le funzioni alimentari e digestive (esposta al museo degli automi di Grenoble), un piccolo suonatore di flauto automatizzato dotato di labbra mobili, di una lingua meccanica che fungeva da valvola per il flusso dell'aria e di dita mobili le cui falangi in pelle aprivano e chiudevano i registri del flauto. L'ispirazione per la costruzione del flautista gli derivò dalla statua del Fauno di Antoine Coysevox nel giardino delle Tuileries.
7 Isa Dardano Basso, Meccanicismo e linguaggio in Francia nell'età dei lumi, Roma, 1998, p. 63
8 “L’anima, purificata, sciolta da ogni mutazione, brilla al di fuori con libero movimento […] imita gli angeli nella sua natura, consegue allora ciò che desidera, non nella successione del tempo, ma in un sùbito momento” (277) .
9 André Neher sul mito del golem maharaliano Faust et le Marahal de Prague, le mythe et le réel, Paris,1987,
10 Cfr. George Devereux, Saggi di etnopsichiatria generale, ed. ital. a cura di Salvatore Inglese, Milano 1978.
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