Primo Levi alla fine del romanzo autobiografico La tregua ci parla di un suo sogno ripetuto. Dopo alcuni mesi passati come prigioniero ad Auschwitz, Primo è ormai a casa sua al sicuro, eppure ”non ha cessato di visitarmi a intervalli ora fitti ora radi, un sogno pieno di spavento.”
E’ un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto ora è volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, questo sogno di pace è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi ”Wstawac””.
”Alzarsi” era l’ordine in ucraino che, nel Lager, segnava la fine del sonno e dei sogni, la brutale restituzione alla realtà insopportabile della prigionia. E con questa parola si chiude anche il libro.
Abbiamo insomma un primo sogno in cui il soggetto vive in una “realtà di sogno” come suol dirsi, ma l’angoscia che lo attanaglia lo fa sfociare in un secondo sogno, che corrisponde alla realtà del Lager da lui vissuta. Il sogno insomma slitta nella realtà del passato, che è però sempre un sogno.
1.
Questo sogno sembra confutare la teoria del sogno di Freud. Per questi, come è noto, ogni sogno soddisfa allucinatoriamente – ovvero immaginariamente – un desiderio, in modo da permettere al soggetto di continuare a dormire. Sottolineo: i sogni per Freud soddisfano un desiderio (Wunsch), non esprimono mai un timore. Anche se il contenuto manifesto di molti sogni sembra invece esprimere proprio un timore. Perché, per Freud, un timore è un desiderio che minaccia il nostro Io, ovvero quella parte della soggettività che si vuole padrona di sé. E questo perché – come abbiamo detto – per Freud tutto ciò che può essere analizzato, tutto quello che Lacan chiamerà “formazioni dell’inconscio” – i sintomi nevrotici e psicotici, i lapsus, gli atti mancati, i motti di spirito, i sogni – è in qualche modo sempre soddisfazione di desiderio. Il timore o la sofferenza per Freud sono sempre espressione del desiderio. In effetti Freud, analizzando il sogno come qualsiasi altro prodotto dell’inconscio, parte dall’assunto che la proprietà essenziale dell’essere umano è die Lust, termine che significa sia piacere, sia brama o desiderio.
La teoria del sogno di Freud è quindi un corollario di quel che Freud ha posto come presupposto di ogni spiegazione psicoanalitica: che l’essere umano è animato da Lust, ovvero è una bestia desiderante e godente. E’ singolare però che questo corollario della scelta metafisica di fondo di Freud coincida con la concezione popolare del sogno in Occidente. In effetti, nelle lingue europee si usa “sognare” come sinonimo di “desiderare”. Quando M. L. King diceva “I have a dream”, nessuno pensava che lui stesse parlando di suoi sogni notturni, tutti capivano che egli stava esprimendo il suo desiderio sull’America.
Quel che ha assicurato a lungo alla psicoanalisi una formidabile forza persuasiva tra gli occidentali è un doppio fattore. Da una parte essa riprende ed elabora una metafisica che in Occidente aveva preso piede già con Spinoza, per il quale il desiderio – cupiditas – era l’essenza stessa dell’uomo. Poi, con Schopenhauer e Nietzsche, si affermò l’idea che la proprietà d’essere dell’ente umano è Volontà, Cupidigia, Volontà di Potenza o di Godimento, qualcosa dell’ordine etico e vitale. Freud è stato presto inserito in questo lignaggio filosofico. D’altra parte però, e in modo solo apparentemente contraddittorio, molte teorie di Freud riportano alla ribalta vecchie credenze popolari che la scienza positivista ha del tutto ignorato o scartato: che sognando desideriamo, il popolo lo ha sempre saputo. E potremmo mostrare che molti altri aspetti della teoria di Freud sono una ripresa di vecchie teorie popolari. Basti pensare all’importanza – sia per la mentalità comune, sia per Freud – data alla vita sessuale e amorosa.
Una parte della filosofia della scienza contemporanea rigetta la teoria di Freud perché “non scientifica”. Perché è inconfutabile, non falsificabile. Essa dice: “La teoria di Freud, secondo cui ogni sogno soddisfa un desiderio, è confutabile? Ovvero, può Freud descriverci un solo sogno che, se venisse sognato, falsificherebbe la sua teoria? In effetti, solo se si mostrasse che nessun essere umano ha mai sognato (finora) quel sogno, allora la teoria verrebbe corroborata” (corroborata non verificata, nulla si può mai verificare nella scienza: le ipotesi si possono solo corroborare). Ora, nessun psicoanalista al mondo sarà mai in grado di inventarsi un sogno che secondo la teoria sarebbe impossibile sognare: di fatto, possiamo fare qualsiasi sogno. Così come possiamo pensare qualsiasi cosa possibile, anche la più orrenda – tranne forse cose impossibili, come un quadrato circolare. Quindi, la teoria del sogno di Freud potrebbe anche essere vera, in ogni caso è non-scientifica; ovvero, non potremo mai dire se sia vera o meno.
In realtà Freud si era preoccupato, sin dall’inizio, dei sogni che paiono confutare la sua teoria del desiderio. Così cita i casi di pazienti che gli portano sogni i quali evidentemente sembrano contraddire la sua teoria secondo cui ogni sogno soddisfa immaginariamente un desiderio. Egli nota che i pazienti portano questi sogni subito dopo che lui ha illustrato loro la sua teoria. Da qui la sua conclusione: Questi sogni riportati soddisfano comunque un desiderio – diciamo transferale – quello di falsificare la teoria di Freud. Gli analisti ammirano questi stratagemmi ingegnosi di Freud, i quali invece per molti epistemologi equivalgono a un’auto-impiccagione scientifica: se è possibile attraverso espedienti di questo tipo mostrare che qualsiasi sogno sarà sempre e comunque soddisfazione di un desiderio, la teoria sarà così non-scientifica. Teoria magari di grande forza euristica, ma non scientifica.
Eppure, con buona pace dei popperiani, penso che in realtà certi sogni davvero siano capaci di falsificare la teoria di Freud. E il sogno riportato da Levi è di questo tipo. Esso segna veramente una difficoltà della teoria freudiana del sogno.
2.
Infatti, Freud in Al di là del principio di desiderio-godimento[1] si era posto il problema dei sogni traumatici, di quando cioè si sogna ripetutamente un evento doloroso realmente occorso. Io, ad esempio, stavo al quarto piano di un palazzo a Napoli durante il terremoto del 23 novembre 1980… Per anni ho sognato spesso di trovarmi in un terremoto: cercavo di allontanarmi al più presto dalle strade costeggiate da minacciosi palazzi alti, cercando di guadagnare velocemente zone libere da costruzioni. Il desiderio di fonfo era quello di affrontare di nuovo un terremoto?
Questi sogni traumatici, si chiede Freud, sono in contrasto con il Lustprinzip? Ovvero, contrastano con l’assioma secondo cui non solo i nostri sogni, ma tutti i nostri atti e pensieri, hanno la funzione di darci piacere o di evitarci dispiaceri? La prima risposta di Freud è che i sogni traumatici in ultima istanza svolgono una funzione che lui considera coerente con il Lustprinzip: quella di trasformare l’evento traumatico in rappresentazione mentale. Ovvero, ripetendo il trauma, paradossalmente, lo integriamo nel nostro sistema rappresentativo e quindi possiamo padroneggiarlo; trasformiamo l’evento in segno. Questo significa che Lust per Freud implica Macht, potenza, e che quindi Lustprinzip è anche Lustprinz, principe del desiderio-godimento; ovvero, l’Io è un’istanza del desiderio-godimento capace anche di controllare e padroneggiare il desiderio-godimento. Questa Bemächtigung, padronanza, è soprattutto un’integrazione del trauma. Trauma in greco significa ferita: ripetere la ferita non è riaprirla, ma suturarla psichicamente. Il soggetto subisce di nuovo la sofferenza, la ferita vissuta, al fine di integrare quest’ultima nella propria potenza, che consiste nel padroneggiare la propria impotenza. Freud dà al Lustprinzip i caratteri anche della Bemächtigung, della volontà di padronanza o di potenza.
Con i sogni traumatici accade qualcosa di simile a quel che accade nel lutto. Il paradosso del lutto è che, quando perdiamo una persona cara, anziché cercare di distoglierci al più presto dal ricordo dello scomparso, al contrario ci crogioliamo più che mai nei ricordi di essa. Guardiamo e riguardiamo le sue fotografie, rileggiamo le sue lettere… Persone care a cui di rado pensavamo finché erano vive, dilagano nella nostra mente non appena muoiono. Sospetto che, con buona pace degli psicologi evoluzionisti, il lutto non svolga alcuna funzione adattativa in senso darwiniano. E’ proprio riaprendo la ferita della perdita che il nostro cordoglio svolge il suo lavoro, quello di distaccarci dalla persona scomparsa. Un lavoro ossimorico: ci stacchiamo dall’oggetto perduto rinnovandone senza posa lo straziante ricordo. Analogamente, superiamo il trauma proprio rivivendolo immaginariamente.
Quando un soggetto in analisi aveva avuto un’esperienza di godimento – un coito con una nuova donna, una soddisfazione professionale, un successo – quasi sempre la notte stessa faceva questo sogno, con poche variazioni: un esame medico gli rivelava che aveva l’AIDS, oppure un cancro in fase terminale. Eppure egli nel sogno si sentiva bene fisicamente, da qui la sua incredulità – la malattia fatale non aveva per lui nessuna evidenza soggettiva, ma l’incubo consisteva proprio nel dover accettare la realtà. Nel sogno si rendeva conto che lui nel fondo aveva sempre saputo di essere malato, solo che il referto clinico gli toglieva ogni sotterfugio per ignorarlo. Eppure nel sogno si diceva ”deve esserci qualcosa di sbagliato in questa verità clinica!” Egli nel sogno appariva diviso come lo sono spesso i veri malati terminali di cancro, confrontati alla verità della loro condizione: una parte di lui doveva crederci, un’altra parte non poteva crederci. Ciò che appariva (nel sogno) reale era anche impossibile. L’angoscia spesso lo svegliava.
Questo sogno pare molto diverso da quello di Levi. In quello di Levi il soggetto sogna di svegliarsi nella realtà già vissuta del Lager, mentre qui non c’è sogno nel sogno: il sogno mette in scena solo una fantasia, quella di essere malato terminale. Eppure in entrambi i casi questi sogni hanno il senso di un risveglio: Levi si sveglia alla realtà passata del Lager; il mio paziente si risveglia alla realtà futura della morte. Che tutti dobbiamo morire è una realtà; anche se qui la morte è fantasticata come esito di una malattia penosissima. Il sogno annuncia una “brutta morte”.
Questo sogno ricorda il genere classico di quadri intitolati ”Et in Arcadia ego”[2]. In un’atmosfera di idillio pastorale nella mitica Arcadia, mentre la gioventù è dedita a giochi d’amore, si scorge – presenza spesso molto discreta – un teschio. Come dire: ”persino nel paradiso terrestre, nel godimento spensierato della vita, ego, la morte, ci sono!”. Ma perché doverlo ricordare a chi gode? Perché il soggetto, in barba al principio di piacere, si confronta – nel sogno come nell’arte – con qualcosa che ha l’indice del non plus ultra di reale, con una morte che certamente accadrà?
Sognare di star morendo come se fosse attuale inscrive comunque questa “morte reale” in un sogno, è come se una parte del soggetto (non sempre inconsapevole, talvolta nel sogno la si avverte) sapesse che questa “morte reale è solo un sogno”. Il sogno non sarebbe diverso allora dai film catastrofici, ad esempio, che rappresentano la fine della terra o dell’umanità (come in Melancholia di Lars von Trier): anche qui il godimento viene assicurato dalla consapevolezza, che non viene mai completamente meno, che “è solo un film” (se si perdesse questa consapevolezza, il film risulterebbe intollerabile).
La ripetizione del sogno nel sogno permetteva a Levi di superare l’orrore del Lager, come avrebbe detto Freud? E il sogno della morte certa dopo il godimento della veglia permetteva al mio soggetto di aggiustarsi alla propria morte? In effetti, sogniamo una morte sofferta nel futuro per padroneggiarla immaginariamente? La tesi francamente ci convince poco. Nemmeno Freud ci credeva, ragion per cui, verso la discesa finale del suo saggio sfodera l’idea della pulsione di morte: c’è una ripetizione – della ferita, dell’orrore, della perdita, dello scacco – che resta ribelle a ogni funzionalità edonista. C’è un ripetere per ripetere, sembra dire, c’è un godimento mortifero della ripetizione, una ripetizione della sofferenza che… fa godere (chi?) proprio in quanto ripetizione. Thanatos è pur sempre Lust, ma senza Bemächtigung, un godimento che non si padroneggia. In questo senso la pulsione di morte è interna al Lustprinzip, anzi è l’essenza e il senso del Lustprinzip: questo paradossalmente tende a fare piacere del dispiacere, è un impulso anti-darwiniano in quanto non adattativo, è godere della propria morte e fare della propria morte il godimento finale e segreto… di chi? Dell’Oltre-Io o Super-Io (Über-Ich)?
3.
Marco Focchi ha commentato finemente il sogno di Levi, e nota come esso smentisca l’interpretazione di Freud del ”sogno nel sogno”. Freud diceva che quando si sogna un sogno in un sogno, il secondo sogno, per dir così, è proprio la realtà che si vuole evitare. Per Freud il sogno nel sogno abolisce un indice di una realtà che l’io del sognatore non vuole accettare. Ora, però, nel sogno di Levi, il sogno nel sogno è la parte iniziale, quella dell’ambiente placido e disteso. Ma, nota Focchi, nel sogno di Levi ”più che indice di realtà il sogno interno qui tenta di velare l’inquietudine che da sotto preme e che alla fine si fa angoscia […] La pace del sogno interno era solo illusoria tregua rispetto all’incubo insopportabile del Lager, perché ‘nulla era vero all’infuori del Lager’”[3].
In effetti, colpisce nel sogno di Levi il fatto che la sua realtà attuale – essere a casa, al sicuro, tra i suoi – appaia come un mero sogno, mentre la realtà vera è quella del Lager. Quando Levi sogna di svegliarsi, si sveglia a una supposta realtà attuale. In questo modo egli dà conferma alla frase di un suo compagno d’avventure greco dopo la liberazione dal campo: “Guerra è sempre”. Non a caso Levi ha intitolato il libro di cui stiamo parlando La tregua: la vita normale, pacifica, serena, è solo una tregua di una guerra infinita. Il Lager è la condizione essenziale dell’umanità, e tutto il resto è tregua, insomma è sogno.
Anche il sogno del mio paziente gli dice che in fondo egli è stato sempre malato e morente: che il suo sentirsi bene, il suo godere della vita, è solo tregua, ovvero illusione. Grazie al sogno, egli si sveglia al reale.
I due sogni insomma rendono attuale il reale traumatico – o un reale passato (il Lager), o un reale possibile e futuro. Sia il senso comune che quello freudiano di sogno – come qualcosa di cui si desidera la realizzazione – paiono qui capovolti: proprio quando il soggetto vive finalmente una ”realtà di sogno”, egli sogna quel che ha vissuto o che vivrà come un reale orribile a cui deve far fronte ora. Mentre il sogno di Levi gli dice che non c’è realtà vera all’infuori del Lager, il sogno dell’analizzante gli dice che non c’è realtà vera all’infuori dello star morendo.
Si dirà: ma il sogno del tuo paziente non esprime un senso di colpa? E’ vero, il soggetto viveva una profonda colpa inconscia. Il problema allora è spostato: che cosa porta un soggetto a sentirsi in colpa? Perché punirsi per una colpa immaginaria? Il senso di colpa rimanda comunque al mistero del godimento di una punizione. Mistero che Freud aveva chiamato ‘masochismo primario’. In ogni caso, secondo Freud ci puniamo perché così gode l’Oltre-Io. L’importante è che qualcosa goda – io o l’Altro. Ma questo mettere il godimento sul conto dell’Altro (Oltre-Io) non è un escamotage? Quale Altro gode nel sognare che la realtà vera della vita è morire o vivere nel Lager?
Dobbiamo dire che quel paziente è uno che può vivere solo sopra o sotto le righe, mai nelle righe. In psichiatria si direbbe un bipolare, un ciclotimico i cui cicli sono anche all’interno di una giornata. Insomma, è uno di quei soggetti che possono vivere solo grandi emozioni, non tollerano quello stato medio, mediocre, vicino allo zero algebrico tra godimento e sofferenza, quel che la maggior parte delle persone chiamano “una vita serena”. Per lui, la vita serena – senza il contatto con un abisso – è infelice, depressiva, slitta verso il picco negativo. E’ tra coloro che non sopportano che nunca pasa nada, che non accada mai nulla, che non ci siano trionfi o catastrofi. Essi succhiano la differenza dal reale. Se non accade nulla, accade una drammatica putrefazione.
Ci si chiede però perché, dopo aver vissuto un’esperienza di godimento, questo signore non si sogni un altro godimento e invece sogni proprio una prospettiva di estrema sofferenza. Perché il suo bisogno automatico di non-equilibrio si esprime con questa specie di bilanciamento, per cui al godimento deve subentrare una sofferenza di grado eguale?
Indubbiamente la ciclotimia o bipolarità risponde, oltre che a un assetto endogeno, organico, anche a un tropismo etico, ovvero a una relazione urgente, assillante, col reale. Come l’avventuriero, il combattente volontario che si espone ai pericoli peggiori ma anche a vittorie strepitose, godere e soffrire è vivere intensamente. Sia il grande godimento che la grande sofferenza sono discordanze rispetto all’autarchia affettiva, ovvero rispetto al non essere coinvolti troppo dal reale. Quando penso a ciò che certa psicoanalisi indica come obiettivo ottimale – l’Io forte, il Sé coeso, o simili – penso sempre ai musicisti che, mentre il Titanic affondava, continuavano a suonare come se nulla fosse. Non so se quel comportamento fosse del tutto “adattativo” (come dicono gli psicologi evoluzionisti) o se al contrario quegli orchestrali siano morti nel naufragio, ma l’autarchia affettiva è proprio questa: anche nella catastrofe, si continua a fare quel che si deve fare. Questa parziale invulnerabilità al reale segna l’eroica stupidità dell’Io forte. Al contrario, il mio paziente vive tragicamente nel mondo, dove per ‘tragico’ non intendo necessariamente degli esiti penosi, ma un non adagiarsi nella vita soddisfatta in se stessa, un voler essere comunque, nel piacere estremo o nella disperazione massima, fuori di sé. Alcuni soggetti non si rassegnano all’armonia col loro ambiente, vibrano solo nel contatto col rumore del mondo.
La teoria dell’informazione distingue i segnali dal rumore. Se ascoltiamo una musica da un cd, ad esempio, distinguiamo la musica dagli eventuali rumori dovuti a rotture o imperfezioni del disco. La musica è il segnale che ci interessa, il rumore è il disturbo senza senso che cerchiamo di eliminare quanto più possibile. Ora, secondo la biologia moderna ogni organismo è programmato per rispondere a segnali provenienti dall’ambiente, anzi, quel che chiamiamo ambiente è di fatto l’insieme dei segnali a cui rispondiamo o a cui potremmo rispondere. L’ambiente è ciò che del mondo fa senso per noi, è la comunione di senso tra soggetto e mondo. Eppure sappiamo che certi esseri umani, certe volte, si occupano anche del rumore. La propria morte è, tra le altre cose, questo rumore.
4.
Questo rumore o reale si delinea nel sogno di Levi, ad esempio, come infiltrarsi del caos e del ”nulla grigio e torbido” – sembra essere quel caos, o disordine, che le antiche cosmogonie ponevano all’origine del mondo e che la scienza moderna ci promette come entropia alla fine del mondo. Il caos è l’al di là di tutto ciò a cui il soggetto può dare forma o senso, è l’indescrivibile – come dice Levi altrove, ”dolore allo stato puro”. Ma questo informe – reale puro – prende forma come realtà del Lager: evento non-evacuabile che il sogno, scandalosamente, non fugge ma ri-presenta. Perché è in questa forma che il reale si impone nel cuore stesso del soggetto desiderante, assoggettato al Lustprinzip: come sofferenza assoluta, come ”qualcosa a cui non si può credere, e a cui si deve pur credere”. Sofferenza come indice del reale.
Questo godimento – come efficienza del reale che si sottrae all’impero del Lustprinzip – può esprimersi solo come sofferenza indicibile? No. Una signora annunciò, a 51 anni, che, facendo l’amore con qualcuno, per la prima volta in vita sua aveva provato un reale godimento. Ne era esterrefatta. Dopo poco, per la prima volta in vita sua, cominciò a delirare… Godimento e sofferenza mettono “fuori di sé”, nel senso che il soggetto non può limitarsi a quella autarchia omeostatica che chiamiamo normalità, ma vibra totalmente al contatto con il reale.
In effetti, la teoria analitica, così centrata sul soggetto, ha un esito paradossale: i sogni della realtà del Lager e della malattia mortale sono comprensibili solo come godimento – ma non del soggetto, e nemmeno dell’Altro. Un godimento che coincide con l’iperbolica sofferenza dell’Io. Il soggetto soffre, ma qualcosa in lui o di lui – se si resta fedeli al paradigma freudiano – deve godere. E gode precisamente di quel reale che provoca l’inabissarsi del soggetto nel dolore. E’ accettabile questo paradosso? E che cosa sarebbe questa cosa che, proprio nel cuore del soggetto, gode?
Perché quando i soggetti sono felici e spensierati in Arcadia, deve comparire sempre qualche teschio che rovini la festa? Chi o che cosa gode di questo memento mori? oppure, come in Levi, chi o che cosa gode di questo ritorno al Lager come verità ultima dell’esistenza? O anche, se vogliamo, quale economia pulsionale regola questo dover far subentrare la sofferenza indicibile?
Se oggi molti analisti preferiscono il termine ‘godimento’ a quello di ‘piacere’, è perché quest’ultimo è economico, mentre il godimento è anti-economico. Se il godimento è qualcosa di extra-ordinario che sfugge all’economia domestica della soggettività, possiamo dire allora che questo extra-ordinario è la pulsione di morte? Questa ripetizione dell’evento o stato traumatici manifesterebbe la forza di Thanatos nella misura in cui Eros fa, in un certo senso, il proprio mestiere: rendere articolabile (dicibile) il trauma, annetterlo alla propria soggettività, costituire la ferita del trauma come il proprio bene più prezioso. Perché, in ultima istanza, questa è la padronanza o potere che, secondo Freud, il nostro Io persegue: ”godi dell’orrore che ti è accaduto!”
5.
Ma allora, l’inconscio non è solo una macchina per illuderci, è anche un modo di metterci a contatto col reale, ovvero con una discordanza assoluta rispetto alla nostra soggettività.
Ciò che Lacan ha chiamato reale può quindi essere riformulato come ciò che non ha senso, il rumore che non segnala niente di utile per noi, e che malgrado tutto ci capta. Come appunto il Lager – rumore che rompe la musica dei segni. Ma da dove nasce questo interesse per ciò che non deve interessare, il reale?
Freud non dà risposta a questa domanda, ma una risposta possibile potrebbe venirci da Nietzsche, quando parla dell’Eterno Ritorno dell’Eguale. Per Nietzsche si diventa Oltre-Uomini, ci si libera dalla costrizione del rancore e della reazione, quando si accetta qualunque cosa ci accada non solo come se la avessimo voluta noi, ma come qualcosa che vorremmo ripetere sempre, eternamente. Dopo tutto, è quel che ci accade con eventi piacevoli ma unici: essi sembrano restare con noi per sempre. Se abbiamo visto una sola volta la città dei nostri sogni, essa sembra restare sempre con noi, non giusto quando la si è vista. Diciamo che un bell’evento ci cambia la vita perché, anche se è stato effimero, è come se si ripetesse sempre per noi.
Nel caso di Levi, egli diventerebbe Oltre-Uomo nella misura in cui, in modo del tutto paradossale, assumesse il suo esser vittima del Lager come sua stessa Volontà. Un assurdo amor fati: come possiamo accettare come voluto da noi, e come voluto per l’eternità, qualcosa che ci ha visto vittime? Ma in fondo, il sogno di Levi e quello della malattia mortale sembrano stranamente confermare il paradosso di Nietzsche. Sognando il Lager – ovvero, desiderando il Lager e la guerra come condizioni autentiche e fondamentali della propria esistenza – Levi ne fa assurdamente un godimento, anche se non esattamente proprio. E’ come se questi sogni sia anti-darwiniani che anti-freudiani dicessero: “Goditi il tuo orrore!” Atroce raccomandazione, ma, nel fondo, così abituale.
Pensiamo soltanto a quel che ci dà l’arte. Dalle tragedie greche in poi, l’arte, la letteratura, il cinema, ci hanno presentato le cose più orrende. Oltre al genere horror, penso agli orrori di cui l’arte non cessa di farci godere. Come ad esempio nelle Trachinie di Sofocle, che ci mette in scena il supplizio straziante di Eracle. O nella Metamorfosi di Kafka, che rappresenta l’improvvisa trasformazione dell’impiegato Gregor Samsa in millepiedi. Finirà con l’essere ucciso dal padre come appunto uno scarafaggio. Nessun lieto fine compensa qui l’angoscia del lettore. Se oggi consideriamo questo racconto uno dei grandi capolavori della letteratura è perché, leggendolo, esso ci fa godere. Perché? Ci fa godere perché è ben scritto? O piuttosto, diciamo che è ben scritto proprio perché ci fa godere il suo riuscire a metterci davvero in contatto con l’orrore del destino di Gregor? In effetti, quando lo lessi per la prima volta da adolescente, ne godetti molto. Che cosa poteva farmi godere di una storia simile? All’epoca pensai: “in fondo siamo sempre, tutti, come Gregor Samsa.” Non nel senso che saremo trasformati in un insetto, ma che il nostro essere insetto è il reale, la discordanza abissale con quel che crediamo di essere. Essere insetto è il rumore che, sfondando il mondo dei segni, si impone come Eterno Ritorno. Istintivamente, da ragazzo sentii che il mio essere nella vita quotidiana era la tregua – per usare il termine di Levi – mentre il reale a cui Kafka mi risvegliava era essere scarafaggio.
Eppure la storia di Gregor è solo una fantasia. Ma la forza di quella fantasia consiste nel fatto che, appunto, essa ci sbatte in faccia qualcosa di simile a “Guerra è sempre” – direi, “in fondo, scarafaggio sarai sempre”. “Sarai sempre nel Lager.” La grande arte ci fa godere del reale come orrore non perché lo simbolizza, non perché trasforma gli elementi beta in alfa (direbbe W.R. Bion), non perché ci permette di padroneggiarlo, ma perché ci risveglia all’orrore del reale, e con questo risveglio ci culla in un brivido, che slitta dall’orrore al piacere, che ci fa piangere o d’angoscia o di gioia.
7.
Di solito gli psicologi dicono: “l’arte trasforma lo sgomento, lo trasfigura artisticamente”. L’arte svolgerebbe insomma la stessa funzione del sogno. No, la grande arte non ci rende piacevole la sofferenza grazie a qualche trasfigurazione, ci propone la sofferenza stessa ma in modo da goderne. L’arte rappresenta, ripete, l’evento insopportabile dandogli una cornice che lo isola in modo da farcene godere. L’arte non trasfigura il dolore, lo ripropone nella chiave del godibile alla giusta distanza tra essere e rappresentazione. Lo propone, lo ripropone, come risveglio dal sogno felice, pur restando sogno. Analogamente il sogno vero può rappresentarci l’orrore perché una parte di noi sa di star sognando, quella parte che può dire “è solo un sogno”.
L’essere umano è uno strano animale: non si interessa solo all’ambiente che lo circonda, ai propri oggetti, ma anche al reale. E’ come convitato e obbligato dal reale. Per ‘reale’ non intendo la realtà oggettiva a cui ci dobbiamo in qualche modo piegare – come l’essere mortali, l’aver perso la persona cara, l’esser stati stritolati dalla vita passata. Il “realismo” che qui Freud ci permette di evocare non è il rispetto per l’oggettività. Più invecchio, meno gli esseri umani mi appaiono oggettivi, realistici e spassionati. Tutti noi siamo accecati dal Lustprinzip. Anche quel che dico qui dell’uscita dall’illusione dei segni, è illusione – quindi, anche questo che dico come al di là del Lustprinzip non è al di là del Lustprinzip…. Il reale di cui parlo è la massima discordanza dal nostro focolare, è ciò che vogliamo ignorare, rigettare, evacuare, eliminare.
I sogni di cui ho parlato, allora, potrebbero dirci questo: “Sei stato nel Lager: questo non lo potrai mai rigettare nel mondo delle ombre del passato! Sarai eternamente nel Lager”. “Hai peccato, morirai: vivrai all’ombra di questa morte futura!” Questi sogni, proponendoci e riproponendoci ciò che non potremo evitare – il passato che ci ha ferito e il futuro che ci cancellerà – propongono il godimento dell’Eterno Ritorno dell’orrore. Ovvero, “cerca di godere del tuo reale!” Grande compito, talvolta impari, della nostra vita.
E’ un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari, unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti, al procedere, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l’angoscia si fa più intensa e più precisa. Tutto ora è volto in caos: sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, questo sogno di pace è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi ”Wstawac””.
”Alzarsi” era l’ordine in ucraino che, nel Lager, segnava la fine del sonno e dei sogni, la brutale restituzione alla realtà insopportabile della prigionia. E con questa parola si chiude anche il libro.
Abbiamo insomma un primo sogno in cui il soggetto vive in una “realtà di sogno” come suol dirsi, ma l’angoscia che lo attanaglia lo fa sfociare in un secondo sogno, che corrisponde alla realtà del Lager da lui vissuta. Il sogno insomma slitta nella realtà del passato, che è però sempre un sogno.
1.
Questo sogno sembra confutare la teoria del sogno di Freud. Per questi, come è noto, ogni sogno soddisfa allucinatoriamente – ovvero immaginariamente – un desiderio, in modo da permettere al soggetto di continuare a dormire. Sottolineo: i sogni per Freud soddisfano un desiderio (Wunsch), non esprimono mai un timore. Anche se il contenuto manifesto di molti sogni sembra invece esprimere proprio un timore. Perché, per Freud, un timore è un desiderio che minaccia il nostro Io, ovvero quella parte della soggettività che si vuole padrona di sé. E questo perché – come abbiamo detto – per Freud tutto ciò che può essere analizzato, tutto quello che Lacan chiamerà “formazioni dell’inconscio” – i sintomi nevrotici e psicotici, i lapsus, gli atti mancati, i motti di spirito, i sogni – è in qualche modo sempre soddisfazione di desiderio. Il timore o la sofferenza per Freud sono sempre espressione del desiderio. In effetti Freud, analizzando il sogno come qualsiasi altro prodotto dell’inconscio, parte dall’assunto che la proprietà essenziale dell’essere umano è die Lust, termine che significa sia piacere, sia brama o desiderio.
La teoria del sogno di Freud è quindi un corollario di quel che Freud ha posto come presupposto di ogni spiegazione psicoanalitica: che l’essere umano è animato da Lust, ovvero è una bestia desiderante e godente. E’ singolare però che questo corollario della scelta metafisica di fondo di Freud coincida con la concezione popolare del sogno in Occidente. In effetti, nelle lingue europee si usa “sognare” come sinonimo di “desiderare”. Quando M. L. King diceva “I have a dream”, nessuno pensava che lui stesse parlando di suoi sogni notturni, tutti capivano che egli stava esprimendo il suo desiderio sull’America.
Quel che ha assicurato a lungo alla psicoanalisi una formidabile forza persuasiva tra gli occidentali è un doppio fattore. Da una parte essa riprende ed elabora una metafisica che in Occidente aveva preso piede già con Spinoza, per il quale il desiderio – cupiditas – era l’essenza stessa dell’uomo. Poi, con Schopenhauer e Nietzsche, si affermò l’idea che la proprietà d’essere dell’ente umano è Volontà, Cupidigia, Volontà di Potenza o di Godimento, qualcosa dell’ordine etico e vitale. Freud è stato presto inserito in questo lignaggio filosofico. D’altra parte però, e in modo solo apparentemente contraddittorio, molte teorie di Freud riportano alla ribalta vecchie credenze popolari che la scienza positivista ha del tutto ignorato o scartato: che sognando desideriamo, il popolo lo ha sempre saputo. E potremmo mostrare che molti altri aspetti della teoria di Freud sono una ripresa di vecchie teorie popolari. Basti pensare all’importanza – sia per la mentalità comune, sia per Freud – data alla vita sessuale e amorosa.
Una parte della filosofia della scienza contemporanea rigetta la teoria di Freud perché “non scientifica”. Perché è inconfutabile, non falsificabile. Essa dice: “La teoria di Freud, secondo cui ogni sogno soddisfa un desiderio, è confutabile? Ovvero, può Freud descriverci un solo sogno che, se venisse sognato, falsificherebbe la sua teoria? In effetti, solo se si mostrasse che nessun essere umano ha mai sognato (finora) quel sogno, allora la teoria verrebbe corroborata” (corroborata non verificata, nulla si può mai verificare nella scienza: le ipotesi si possono solo corroborare). Ora, nessun psicoanalista al mondo sarà mai in grado di inventarsi un sogno che secondo la teoria sarebbe impossibile sognare: di fatto, possiamo fare qualsiasi sogno. Così come possiamo pensare qualsiasi cosa possibile, anche la più orrenda – tranne forse cose impossibili, come un quadrato circolare. Quindi, la teoria del sogno di Freud potrebbe anche essere vera, in ogni caso è non-scientifica; ovvero, non potremo mai dire se sia vera o meno.
In realtà Freud si era preoccupato, sin dall’inizio, dei sogni che paiono confutare la sua teoria del desiderio. Così cita i casi di pazienti che gli portano sogni i quali evidentemente sembrano contraddire la sua teoria secondo cui ogni sogno soddisfa immaginariamente un desiderio. Egli nota che i pazienti portano questi sogni subito dopo che lui ha illustrato loro la sua teoria. Da qui la sua conclusione: Questi sogni riportati soddisfano comunque un desiderio – diciamo transferale – quello di falsificare la teoria di Freud. Gli analisti ammirano questi stratagemmi ingegnosi di Freud, i quali invece per molti epistemologi equivalgono a un’auto-impiccagione scientifica: se è possibile attraverso espedienti di questo tipo mostrare che qualsiasi sogno sarà sempre e comunque soddisfazione di un desiderio, la teoria sarà così non-scientifica. Teoria magari di grande forza euristica, ma non scientifica.
Eppure, con buona pace dei popperiani, penso che in realtà certi sogni davvero siano capaci di falsificare la teoria di Freud. E il sogno riportato da Levi è di questo tipo. Esso segna veramente una difficoltà della teoria freudiana del sogno.
2.
Infatti, Freud in Al di là del principio di desiderio-godimento[1] si era posto il problema dei sogni traumatici, di quando cioè si sogna ripetutamente un evento doloroso realmente occorso. Io, ad esempio, stavo al quarto piano di un palazzo a Napoli durante il terremoto del 23 novembre 1980… Per anni ho sognato spesso di trovarmi in un terremoto: cercavo di allontanarmi al più presto dalle strade costeggiate da minacciosi palazzi alti, cercando di guadagnare velocemente zone libere da costruzioni. Il desiderio di fonfo era quello di affrontare di nuovo un terremoto?
Questi sogni traumatici, si chiede Freud, sono in contrasto con il Lustprinzip? Ovvero, contrastano con l’assioma secondo cui non solo i nostri sogni, ma tutti i nostri atti e pensieri, hanno la funzione di darci piacere o di evitarci dispiaceri? La prima risposta di Freud è che i sogni traumatici in ultima istanza svolgono una funzione che lui considera coerente con il Lustprinzip: quella di trasformare l’evento traumatico in rappresentazione mentale. Ovvero, ripetendo il trauma, paradossalmente, lo integriamo nel nostro sistema rappresentativo e quindi possiamo padroneggiarlo; trasformiamo l’evento in segno. Questo significa che Lust per Freud implica Macht, potenza, e che quindi Lustprinzip è anche Lustprinz, principe del desiderio-godimento; ovvero, l’Io è un’istanza del desiderio-godimento capace anche di controllare e padroneggiare il desiderio-godimento. Questa Bemächtigung, padronanza, è soprattutto un’integrazione del trauma. Trauma in greco significa ferita: ripetere la ferita non è riaprirla, ma suturarla psichicamente. Il soggetto subisce di nuovo la sofferenza, la ferita vissuta, al fine di integrare quest’ultima nella propria potenza, che consiste nel padroneggiare la propria impotenza. Freud dà al Lustprinzip i caratteri anche della Bemächtigung, della volontà di padronanza o di potenza.
Con i sogni traumatici accade qualcosa di simile a quel che accade nel lutto. Il paradosso del lutto è che, quando perdiamo una persona cara, anziché cercare di distoglierci al più presto dal ricordo dello scomparso, al contrario ci crogioliamo più che mai nei ricordi di essa. Guardiamo e riguardiamo le sue fotografie, rileggiamo le sue lettere… Persone care a cui di rado pensavamo finché erano vive, dilagano nella nostra mente non appena muoiono. Sospetto che, con buona pace degli psicologi evoluzionisti, il lutto non svolga alcuna funzione adattativa in senso darwiniano. E’ proprio riaprendo la ferita della perdita che il nostro cordoglio svolge il suo lavoro, quello di distaccarci dalla persona scomparsa. Un lavoro ossimorico: ci stacchiamo dall’oggetto perduto rinnovandone senza posa lo straziante ricordo. Analogamente, superiamo il trauma proprio rivivendolo immaginariamente.
Quando un soggetto in analisi aveva avuto un’esperienza di godimento – un coito con una nuova donna, una soddisfazione professionale, un successo – quasi sempre la notte stessa faceva questo sogno, con poche variazioni: un esame medico gli rivelava che aveva l’AIDS, oppure un cancro in fase terminale. Eppure egli nel sogno si sentiva bene fisicamente, da qui la sua incredulità – la malattia fatale non aveva per lui nessuna evidenza soggettiva, ma l’incubo consisteva proprio nel dover accettare la realtà. Nel sogno si rendeva conto che lui nel fondo aveva sempre saputo di essere malato, solo che il referto clinico gli toglieva ogni sotterfugio per ignorarlo. Eppure nel sogno si diceva ”deve esserci qualcosa di sbagliato in questa verità clinica!” Egli nel sogno appariva diviso come lo sono spesso i veri malati terminali di cancro, confrontati alla verità della loro condizione: una parte di lui doveva crederci, un’altra parte non poteva crederci. Ciò che appariva (nel sogno) reale era anche impossibile. L’angoscia spesso lo svegliava.
Questo sogno pare molto diverso da quello di Levi. In quello di Levi il soggetto sogna di svegliarsi nella realtà già vissuta del Lager, mentre qui non c’è sogno nel sogno: il sogno mette in scena solo una fantasia, quella di essere malato terminale. Eppure in entrambi i casi questi sogni hanno il senso di un risveglio: Levi si sveglia alla realtà passata del Lager; il mio paziente si risveglia alla realtà futura della morte. Che tutti dobbiamo morire è una realtà; anche se qui la morte è fantasticata come esito di una malattia penosissima. Il sogno annuncia una “brutta morte”.
Questo sogno ricorda il genere classico di quadri intitolati ”Et in Arcadia ego”[2]. In un’atmosfera di idillio pastorale nella mitica Arcadia, mentre la gioventù è dedita a giochi d’amore, si scorge – presenza spesso molto discreta – un teschio. Come dire: ”persino nel paradiso terrestre, nel godimento spensierato della vita, ego, la morte, ci sono!”. Ma perché doverlo ricordare a chi gode? Perché il soggetto, in barba al principio di piacere, si confronta – nel sogno come nell’arte – con qualcosa che ha l’indice del non plus ultra di reale, con una morte che certamente accadrà?
Sognare di star morendo come se fosse attuale inscrive comunque questa “morte reale” in un sogno, è come se una parte del soggetto (non sempre inconsapevole, talvolta nel sogno la si avverte) sapesse che questa “morte reale è solo un sogno”. Il sogno non sarebbe diverso allora dai film catastrofici, ad esempio, che rappresentano la fine della terra o dell’umanità (come in Melancholia di Lars von Trier): anche qui il godimento viene assicurato dalla consapevolezza, che non viene mai completamente meno, che “è solo un film” (se si perdesse questa consapevolezza, il film risulterebbe intollerabile).
La ripetizione del sogno nel sogno permetteva a Levi di superare l’orrore del Lager, come avrebbe detto Freud? E il sogno della morte certa dopo il godimento della veglia permetteva al mio soggetto di aggiustarsi alla propria morte? In effetti, sogniamo una morte sofferta nel futuro per padroneggiarla immaginariamente? La tesi francamente ci convince poco. Nemmeno Freud ci credeva, ragion per cui, verso la discesa finale del suo saggio sfodera l’idea della pulsione di morte: c’è una ripetizione – della ferita, dell’orrore, della perdita, dello scacco – che resta ribelle a ogni funzionalità edonista. C’è un ripetere per ripetere, sembra dire, c’è un godimento mortifero della ripetizione, una ripetizione della sofferenza che… fa godere (chi?) proprio in quanto ripetizione. Thanatos è pur sempre Lust, ma senza Bemächtigung, un godimento che non si padroneggia. In questo senso la pulsione di morte è interna al Lustprinzip, anzi è l’essenza e il senso del Lustprinzip: questo paradossalmente tende a fare piacere del dispiacere, è un impulso anti-darwiniano in quanto non adattativo, è godere della propria morte e fare della propria morte il godimento finale e segreto… di chi? Dell’Oltre-Io o Super-Io (Über-Ich)?
3.
Marco Focchi ha commentato finemente il sogno di Levi, e nota come esso smentisca l’interpretazione di Freud del ”sogno nel sogno”. Freud diceva che quando si sogna un sogno in un sogno, il secondo sogno, per dir così, è proprio la realtà che si vuole evitare. Per Freud il sogno nel sogno abolisce un indice di una realtà che l’io del sognatore non vuole accettare. Ora, però, nel sogno di Levi, il sogno nel sogno è la parte iniziale, quella dell’ambiente placido e disteso. Ma, nota Focchi, nel sogno di Levi ”più che indice di realtà il sogno interno qui tenta di velare l’inquietudine che da sotto preme e che alla fine si fa angoscia […] La pace del sogno interno era solo illusoria tregua rispetto all’incubo insopportabile del Lager, perché ‘nulla era vero all’infuori del Lager’”[3].
In effetti, colpisce nel sogno di Levi il fatto che la sua realtà attuale – essere a casa, al sicuro, tra i suoi – appaia come un mero sogno, mentre la realtà vera è quella del Lager. Quando Levi sogna di svegliarsi, si sveglia a una supposta realtà attuale. In questo modo egli dà conferma alla frase di un suo compagno d’avventure greco dopo la liberazione dal campo: “Guerra è sempre”. Non a caso Levi ha intitolato il libro di cui stiamo parlando La tregua: la vita normale, pacifica, serena, è solo una tregua di una guerra infinita. Il Lager è la condizione essenziale dell’umanità, e tutto il resto è tregua, insomma è sogno.
Anche il sogno del mio paziente gli dice che in fondo egli è stato sempre malato e morente: che il suo sentirsi bene, il suo godere della vita, è solo tregua, ovvero illusione. Grazie al sogno, egli si sveglia al reale.
I due sogni insomma rendono attuale il reale traumatico – o un reale passato (il Lager), o un reale possibile e futuro. Sia il senso comune che quello freudiano di sogno – come qualcosa di cui si desidera la realizzazione – paiono qui capovolti: proprio quando il soggetto vive finalmente una ”realtà di sogno”, egli sogna quel che ha vissuto o che vivrà come un reale orribile a cui deve far fronte ora. Mentre il sogno di Levi gli dice che non c’è realtà vera all’infuori del Lager, il sogno dell’analizzante gli dice che non c’è realtà vera all’infuori dello star morendo.
Si dirà: ma il sogno del tuo paziente non esprime un senso di colpa? E’ vero, il soggetto viveva una profonda colpa inconscia. Il problema allora è spostato: che cosa porta un soggetto a sentirsi in colpa? Perché punirsi per una colpa immaginaria? Il senso di colpa rimanda comunque al mistero del godimento di una punizione. Mistero che Freud aveva chiamato ‘masochismo primario’. In ogni caso, secondo Freud ci puniamo perché così gode l’Oltre-Io. L’importante è che qualcosa goda – io o l’Altro. Ma questo mettere il godimento sul conto dell’Altro (Oltre-Io) non è un escamotage? Quale Altro gode nel sognare che la realtà vera della vita è morire o vivere nel Lager?
Dobbiamo dire che quel paziente è uno che può vivere solo sopra o sotto le righe, mai nelle righe. In psichiatria si direbbe un bipolare, un ciclotimico i cui cicli sono anche all’interno di una giornata. Insomma, è uno di quei soggetti che possono vivere solo grandi emozioni, non tollerano quello stato medio, mediocre, vicino allo zero algebrico tra godimento e sofferenza, quel che la maggior parte delle persone chiamano “una vita serena”. Per lui, la vita serena – senza il contatto con un abisso – è infelice, depressiva, slitta verso il picco negativo. E’ tra coloro che non sopportano che nunca pasa nada, che non accada mai nulla, che non ci siano trionfi o catastrofi. Essi succhiano la differenza dal reale. Se non accade nulla, accade una drammatica putrefazione.
Ci si chiede però perché, dopo aver vissuto un’esperienza di godimento, questo signore non si sogni un altro godimento e invece sogni proprio una prospettiva di estrema sofferenza. Perché il suo bisogno automatico di non-equilibrio si esprime con questa specie di bilanciamento, per cui al godimento deve subentrare una sofferenza di grado eguale?
Indubbiamente la ciclotimia o bipolarità risponde, oltre che a un assetto endogeno, organico, anche a un tropismo etico, ovvero a una relazione urgente, assillante, col reale. Come l’avventuriero, il combattente volontario che si espone ai pericoli peggiori ma anche a vittorie strepitose, godere e soffrire è vivere intensamente. Sia il grande godimento che la grande sofferenza sono discordanze rispetto all’autarchia affettiva, ovvero rispetto al non essere coinvolti troppo dal reale. Quando penso a ciò che certa psicoanalisi indica come obiettivo ottimale – l’Io forte, il Sé coeso, o simili – penso sempre ai musicisti che, mentre il Titanic affondava, continuavano a suonare come se nulla fosse. Non so se quel comportamento fosse del tutto “adattativo” (come dicono gli psicologi evoluzionisti) o se al contrario quegli orchestrali siano morti nel naufragio, ma l’autarchia affettiva è proprio questa: anche nella catastrofe, si continua a fare quel che si deve fare. Questa parziale invulnerabilità al reale segna l’eroica stupidità dell’Io forte. Al contrario, il mio paziente vive tragicamente nel mondo, dove per ‘tragico’ non intendo necessariamente degli esiti penosi, ma un non adagiarsi nella vita soddisfatta in se stessa, un voler essere comunque, nel piacere estremo o nella disperazione massima, fuori di sé. Alcuni soggetti non si rassegnano all’armonia col loro ambiente, vibrano solo nel contatto col rumore del mondo.
La teoria dell’informazione distingue i segnali dal rumore. Se ascoltiamo una musica da un cd, ad esempio, distinguiamo la musica dagli eventuali rumori dovuti a rotture o imperfezioni del disco. La musica è il segnale che ci interessa, il rumore è il disturbo senza senso che cerchiamo di eliminare quanto più possibile. Ora, secondo la biologia moderna ogni organismo è programmato per rispondere a segnali provenienti dall’ambiente, anzi, quel che chiamiamo ambiente è di fatto l’insieme dei segnali a cui rispondiamo o a cui potremmo rispondere. L’ambiente è ciò che del mondo fa senso per noi, è la comunione di senso tra soggetto e mondo. Eppure sappiamo che certi esseri umani, certe volte, si occupano anche del rumore. La propria morte è, tra le altre cose, questo rumore.
4.
Questo rumore o reale si delinea nel sogno di Levi, ad esempio, come infiltrarsi del caos e del ”nulla grigio e torbido” – sembra essere quel caos, o disordine, che le antiche cosmogonie ponevano all’origine del mondo e che la scienza moderna ci promette come entropia alla fine del mondo. Il caos è l’al di là di tutto ciò a cui il soggetto può dare forma o senso, è l’indescrivibile – come dice Levi altrove, ”dolore allo stato puro”. Ma questo informe – reale puro – prende forma come realtà del Lager: evento non-evacuabile che il sogno, scandalosamente, non fugge ma ri-presenta. Perché è in questa forma che il reale si impone nel cuore stesso del soggetto desiderante, assoggettato al Lustprinzip: come sofferenza assoluta, come ”qualcosa a cui non si può credere, e a cui si deve pur credere”. Sofferenza come indice del reale.
Questo godimento – come efficienza del reale che si sottrae all’impero del Lustprinzip – può esprimersi solo come sofferenza indicibile? No. Una signora annunciò, a 51 anni, che, facendo l’amore con qualcuno, per la prima volta in vita sua aveva provato un reale godimento. Ne era esterrefatta. Dopo poco, per la prima volta in vita sua, cominciò a delirare… Godimento e sofferenza mettono “fuori di sé”, nel senso che il soggetto non può limitarsi a quella autarchia omeostatica che chiamiamo normalità, ma vibra totalmente al contatto con il reale.
In effetti, la teoria analitica, così centrata sul soggetto, ha un esito paradossale: i sogni della realtà del Lager e della malattia mortale sono comprensibili solo come godimento – ma non del soggetto, e nemmeno dell’Altro. Un godimento che coincide con l’iperbolica sofferenza dell’Io. Il soggetto soffre, ma qualcosa in lui o di lui – se si resta fedeli al paradigma freudiano – deve godere. E gode precisamente di quel reale che provoca l’inabissarsi del soggetto nel dolore. E’ accettabile questo paradosso? E che cosa sarebbe questa cosa che, proprio nel cuore del soggetto, gode?
Perché quando i soggetti sono felici e spensierati in Arcadia, deve comparire sempre qualche teschio che rovini la festa? Chi o che cosa gode di questo memento mori? oppure, come in Levi, chi o che cosa gode di questo ritorno al Lager come verità ultima dell’esistenza? O anche, se vogliamo, quale economia pulsionale regola questo dover far subentrare la sofferenza indicibile?
Se oggi molti analisti preferiscono il termine ‘godimento’ a quello di ‘piacere’, è perché quest’ultimo è economico, mentre il godimento è anti-economico. Se il godimento è qualcosa di extra-ordinario che sfugge all’economia domestica della soggettività, possiamo dire allora che questo extra-ordinario è la pulsione di morte? Questa ripetizione dell’evento o stato traumatici manifesterebbe la forza di Thanatos nella misura in cui Eros fa, in un certo senso, il proprio mestiere: rendere articolabile (dicibile) il trauma, annetterlo alla propria soggettività, costituire la ferita del trauma come il proprio bene più prezioso. Perché, in ultima istanza, questa è la padronanza o potere che, secondo Freud, il nostro Io persegue: ”godi dell’orrore che ti è accaduto!”
5.
Ma allora, l’inconscio non è solo una macchina per illuderci, è anche un modo di metterci a contatto col reale, ovvero con una discordanza assoluta rispetto alla nostra soggettività.
Ciò che Lacan ha chiamato reale può quindi essere riformulato come ciò che non ha senso, il rumore che non segnala niente di utile per noi, e che malgrado tutto ci capta. Come appunto il Lager – rumore che rompe la musica dei segni. Ma da dove nasce questo interesse per ciò che non deve interessare, il reale?
Freud non dà risposta a questa domanda, ma una risposta possibile potrebbe venirci da Nietzsche, quando parla dell’Eterno Ritorno dell’Eguale. Per Nietzsche si diventa Oltre-Uomini, ci si libera dalla costrizione del rancore e della reazione, quando si accetta qualunque cosa ci accada non solo come se la avessimo voluta noi, ma come qualcosa che vorremmo ripetere sempre, eternamente. Dopo tutto, è quel che ci accade con eventi piacevoli ma unici: essi sembrano restare con noi per sempre. Se abbiamo visto una sola volta la città dei nostri sogni, essa sembra restare sempre con noi, non giusto quando la si è vista. Diciamo che un bell’evento ci cambia la vita perché, anche se è stato effimero, è come se si ripetesse sempre per noi.
Nel caso di Levi, egli diventerebbe Oltre-Uomo nella misura in cui, in modo del tutto paradossale, assumesse il suo esser vittima del Lager come sua stessa Volontà. Un assurdo amor fati: come possiamo accettare come voluto da noi, e come voluto per l’eternità, qualcosa che ci ha visto vittime? Ma in fondo, il sogno di Levi e quello della malattia mortale sembrano stranamente confermare il paradosso di Nietzsche. Sognando il Lager – ovvero, desiderando il Lager e la guerra come condizioni autentiche e fondamentali della propria esistenza – Levi ne fa assurdamente un godimento, anche se non esattamente proprio. E’ come se questi sogni sia anti-darwiniani che anti-freudiani dicessero: “Goditi il tuo orrore!” Atroce raccomandazione, ma, nel fondo, così abituale.
Pensiamo soltanto a quel che ci dà l’arte. Dalle tragedie greche in poi, l’arte, la letteratura, il cinema, ci hanno presentato le cose più orrende. Oltre al genere horror, penso agli orrori di cui l’arte non cessa di farci godere. Come ad esempio nelle Trachinie di Sofocle, che ci mette in scena il supplizio straziante di Eracle. O nella Metamorfosi di Kafka, che rappresenta l’improvvisa trasformazione dell’impiegato Gregor Samsa in millepiedi. Finirà con l’essere ucciso dal padre come appunto uno scarafaggio. Nessun lieto fine compensa qui l’angoscia del lettore. Se oggi consideriamo questo racconto uno dei grandi capolavori della letteratura è perché, leggendolo, esso ci fa godere. Perché? Ci fa godere perché è ben scritto? O piuttosto, diciamo che è ben scritto proprio perché ci fa godere il suo riuscire a metterci davvero in contatto con l’orrore del destino di Gregor? In effetti, quando lo lessi per la prima volta da adolescente, ne godetti molto. Che cosa poteva farmi godere di una storia simile? All’epoca pensai: “in fondo siamo sempre, tutti, come Gregor Samsa.” Non nel senso che saremo trasformati in un insetto, ma che il nostro essere insetto è il reale, la discordanza abissale con quel che crediamo di essere. Essere insetto è il rumore che, sfondando il mondo dei segni, si impone come Eterno Ritorno. Istintivamente, da ragazzo sentii che il mio essere nella vita quotidiana era la tregua – per usare il termine di Levi – mentre il reale a cui Kafka mi risvegliava era essere scarafaggio.
Eppure la storia di Gregor è solo una fantasia. Ma la forza di quella fantasia consiste nel fatto che, appunto, essa ci sbatte in faccia qualcosa di simile a “Guerra è sempre” – direi, “in fondo, scarafaggio sarai sempre”. “Sarai sempre nel Lager.” La grande arte ci fa godere del reale come orrore non perché lo simbolizza, non perché trasforma gli elementi beta in alfa (direbbe W.R. Bion), non perché ci permette di padroneggiarlo, ma perché ci risveglia all’orrore del reale, e con questo risveglio ci culla in un brivido, che slitta dall’orrore al piacere, che ci fa piangere o d’angoscia o di gioia.
7.
Di solito gli psicologi dicono: “l’arte trasforma lo sgomento, lo trasfigura artisticamente”. L’arte svolgerebbe insomma la stessa funzione del sogno. No, la grande arte non ci rende piacevole la sofferenza grazie a qualche trasfigurazione, ci propone la sofferenza stessa ma in modo da goderne. L’arte rappresenta, ripete, l’evento insopportabile dandogli una cornice che lo isola in modo da farcene godere. L’arte non trasfigura il dolore, lo ripropone nella chiave del godibile alla giusta distanza tra essere e rappresentazione. Lo propone, lo ripropone, come risveglio dal sogno felice, pur restando sogno. Analogamente il sogno vero può rappresentarci l’orrore perché una parte di noi sa di star sognando, quella parte che può dire “è solo un sogno”.
L’essere umano è uno strano animale: non si interessa solo all’ambiente che lo circonda, ai propri oggetti, ma anche al reale. E’ come convitato e obbligato dal reale. Per ‘reale’ non intendo la realtà oggettiva a cui ci dobbiamo in qualche modo piegare – come l’essere mortali, l’aver perso la persona cara, l’esser stati stritolati dalla vita passata. Il “realismo” che qui Freud ci permette di evocare non è il rispetto per l’oggettività. Più invecchio, meno gli esseri umani mi appaiono oggettivi, realistici e spassionati. Tutti noi siamo accecati dal Lustprinzip. Anche quel che dico qui dell’uscita dall’illusione dei segni, è illusione – quindi, anche questo che dico come al di là del Lustprinzip non è al di là del Lustprinzip…. Il reale di cui parlo è la massima discordanza dal nostro focolare, è ciò che vogliamo ignorare, rigettare, evacuare, eliminare.
I sogni di cui ho parlato, allora, potrebbero dirci questo: “Sei stato nel Lager: questo non lo potrai mai rigettare nel mondo delle ombre del passato! Sarai eternamente nel Lager”. “Hai peccato, morirai: vivrai all’ombra di questa morte futura!” Questi sogni, proponendoci e riproponendoci ciò che non potremo evitare – il passato che ci ha ferito e il futuro che ci cancellerà – propongono il godimento dell’Eterno Ritorno dell’orrore. Ovvero, “cerca di godere del tuo reale!” Grande compito, talvolta impari, della nostra vita.
[1] Traduco così il saggio Jenseits des Lustprinzip (GW, ), tradotto in italiano con Al di là del principio di piacere (OSF, ). Ma abbiamo visto che Lust in tedesco significa sia desiderio che piacere o godimento.
[2] La cui iconografia è stata analizzata da E. Panofsky, “’Et in Arcadia ego’: Poussin e la tradizione elegiaca” in Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino, 1962.
[3] M. Focchi, Il buon uso dell’inconscio, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 124. Anche: M. Focchi, “Impossibile evadere”, Ornicar? Digital – N° 24 – 28 Octubre 1998, AMP/WAP.
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